Sono bastati pochi minuti di concerto de Le luci della centrale elettrica per capire che avevo commesso un grosso sbaglio: tutte quelle ragazzine festanti pronte ad urlare ad ogni canzone interi testi a memoria ricopiati chissà quante volte sui loro diari, rimandare sul palco con le mani tese frasi piene di significati e riferimenti che chissà se gli appartengono davvero. Sposami! – urla una dalle prime file, e per un attimo mi pare di vederla questa adolescente neoromantica convolare a nozze con i cerotti usati insieme al cantautore ferrarese: una vita coronata di spiagge deturpate, rave sull’Enterprise, felici da fare schifo ai tempi dei licenziamenti dei metalmeccanici. Che cosa ci faccio in mezzo a questo pubblico da prima fila dove tutto si trasforma in un gigantesco karaoke collettivo e l’esaltazione per il cantante trasfigurato dalla notorietà in sex symbol toglie, almeno per me che ho il doppio dei loro anni, tutta quella patina di poesia e malinconia con cui approcciarsi al Brondi dei primi due album?

È cresciuto, Vasco, ora salta sul palco come Jovanotti, ancheggia mentre canta e pare Samuel dei Subsonica, incita il pubblico, lo cerca e lo coinvolge perché ne ha un fottuto bisogno: è casa sua questa sera e le luci della centrale elettrica sembrano ormai lontanissime quando hanno lasciato il posto a quelle del maestoso castello simbolo della città dove ha trascorso l’infanzia. Per noi che l’abbiamo scoperto tanti anni fa, in periodi punk ormai sepolti dalla cronaca musicale di questo suo fortunato progetto, fa quasi impressione. L’abbiamo visto piegato in due urlare nei microfoni rabbia, dolore, vino e sudore per raccontare questi cazzo di anni zero e una generazione intera, la mia, ingabbiata in una città di provincia che per molti non ha offerto sbocchi. Mentre parecchi facevano l’università alcuni si impiccavano in garage – diceva – ed erano testi che trasudavano sangue e disperazione, alludevano a persone, situazioni spesso reali, storie vissute di un Brondi che ora pare lontanissimo, che ha trovato quella che, per ora, chiameremo felicità.

Foto di Eugenio Ciccone

E’ felice Vasco, si, è felice da fare schifo, come tiene a ribadire in uno dei suoi brani più pop (Questo scontro tranquillo) dove si intravede perfino una linea melodica e si può cantare a squarciagola un pezzo che in radio farebbe parecchio successo. Questa sera è il padrone di casa, il figliol prodigo che dai garage di Milano nord torna nella sua Ferrara con gli amici incontrati in questi anni. Rachele Bastreghi dei Baustelle è un’aliena al suo fianco, esperta e sicura di una voce e una classe immutata da anni, Maria Antonietta un simpatico folletto con una grinta e una voce che negli anni Sessanta avrebbe occupato pagine intere sui rotocalchi. E poi il siciliano Niccolò Carnesi, ultimo arrivato della leva cantautorale degli Anni Zero, timidamente spaesato a fine serata ci chiede cosa offre Ferrara per tirare tardi un altro po’, lui che per adesso ha avuto date quasi solo al sud ed è felicissimo di questa serata speciale. Il solito simpatico Dente, stralunato e romantico, capace di migliorare perfino un brano perfetto dal vivo come 40 km e la bella e magnetica Levante, che zitta zitta in un anno si è mangiata la scena di Carmen Consoli con semplicità e una voce davvero notevole di cui sentiremo parlare parecchio nei prossimi anni. La scena musicale italiana che scrive e compone è tutt’altro che morta e questo assaggio ne è un buon esempio: forse siamo lontani dai livelli di De André e De Gregori, di Gaber e Guccini, ma sono cambiati i tempi e i gusti, questi ragazzi twittano, si fanno i selfie, cresciuti a internet e tv non potevano certo avere quel rifiuto dei media tipico dei cantautori impegnati negli Anni di Piombo.

Cosa ci fa il nostro Vasco locale in mezzo all’olimpo della musica italiana di oggi? Come ha conquistato l’Italia intera e le copertine dei magazine musicali uno che girava con il sacchetto di plastica per regalare i suoi demo stonando come una campana il più delle volte ubriaco e parlando solo di cose tristi come i camerieri a Beirut o gli uffici pubblici? Ha diviso l’opinione pubblica per anni in maniera polarizzante e insolita: chi vedeva in lui un genio, un poeta, chi un buffone, autore di testi banali sui soliti tre accordi. Chi ha ragione non lo capiremo mai, come in ogni discussione importante le divergenze portano il pensiero popolare a restare vittima dei propri schemi: un detrattore di Brondi vi dirà che ha successo perché in Italia mediamente abbiamo dei gusti di merda, chi lo esalta taglierà corto con qualcosa tipo “ma che ne capisci tu di musica?”.

Eppure nel mio piccolo voglio un gran bene a Vasco. Mi smuove qualcosa dentro che credo potremmo chiamare “ferraresità”: un senso di appartenenza a questa terra, a queste radici, una vicinanza mentale verso un ragazzo che ha frequentato la mia scuola, i miei bar, le mie piazze, proprio quando le frequentavo anche io. Non amo così tanti pezzi da potermi definire un suo fan ma alcuni toccano corde particolari, punti deboli che dopo anni sono ancora tali. È quel groppo in gola che mi prende quando tornando a Ferrara dall’autostrada vedo la skyline del petrolchimico, generatore malsano alle porte della città che poeticamente è diventato una centrale elettrica nel mondo distorto ma autobiografico di Vasco. Quel groppo in gola che mi sale sentendo la forza disperata di un urlo: “trasformiamo questa città in un’altra cazzo di città!”, un mantra tragico per chi è nato in questa provincia senza lavoro e senza futuro, qui dove anche le rondini si fermano il meno possibile.

Vasco Brondi appartiene a Ferrara e la racconta tra le pieghe di mille citazioni musicali, anche oggi che non ci vive più e quando torna è una festa sempre più grande. Per questo mi stupisco ogni volta di quante persone lontane si riconoscano nei suoi testi: un ragazzo di Bari, una signora di Roma, un uomo di Firenze. Forse c’è un po’ di Emilia in ogni parte di Italia, quel filo di disagio e paura che unisce quelli come me alle ragazzine urlanti in prima fila, ancora lontane dai problemi dei testi di Brondi ma come lui bisognose di serenità, amore e poesia. Magari non vedranno mai un treno pieno di pendolari che va ogni giorno a quaranta chilometri, il Palazzo degli specchi, la zona Stadio di notte, un campetto di Krasnodar e la Rivana ma non ha più importanza. Le luci della centrale elettrica sono ormai accese ovunque, hanno trovato la loro strada con nuova leggerezza, sono una Madonna dipinta a mano e uno scontro tranquillo, possono viaggiare in una sola sera dalla Terra alla Luna per raggiungere un bar sulla Via Lattea che non è tanto diverso da un bar sport qualunque lungo la Via Emilia.

2 Commenti

  1. Francesca scrive:

    Fino alla fine ero convinta l’avesse scritto fabio. Bravo bruno, bellissimo pezzo!

  2. Linda scrive:

    Bello davvero!

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