Dopo la traccia proposta all’Esame di Stato e la lettera di Renzo Piano, il tema delle periferie è tornato al centro dell’attenzione nazionale. In realtà, prima di tutti, ne aveva parlato Adriano Celentano ma nessuno sembrava volerlo ascoltare, poi arrivarono diversi annunci e interventi ministeriali riguardo a provvedimenti e demolizioni per le torri e le stecche di Tor Bella Monaca e il Corviale: più in generale, col tempo, si prese lentamente coscienza che per le Periferie italiane bisognava fare assolutamente qualcosa.

Riuscite ad immaginarvela, la periferia? Le Lavatrici di Genova, il Gallaratese di Milano, il Pilastro di Bologna, poi spostatevi a Roma, nel Laurentino Q38, o visitate le Vele di Napoli e lo ZEN di Palermo: la lista è lunga, le foto scattate ad immortalare questi UFO sono tante.


Ogni città italiana, infatti, ha visto sorgere negli anni 60-70 del secolo scorso la sua periferia Hard: è la SLAB URBIA, la periferia dell’Europa modernista costruita con l’impiego lastre (slab, appunto), stecche e torri che sono diventate simbolo di un brutalismo architettonico allora tanto in voga. Sono centinaia di migliaia, se non milioni, i cittadini italiani costretti a vivere all’interno di scatoloni di conglomerato cementizio armato, in ossequio a una sperimentazione disastrosa.

E usare il termine “costretti” non è affatto una esagerazione: i cittadini che vi abitano, economicamente disagiati e precipitati in un sistema malsano che li ha presto fagocitati, non hanno mai avuto la possibilità di poter scegliere. L’edilizia popolare ha sempre previsto, infatti, l’utilizzo di denaro pubblico per la costruzione di abitazioni per persone che la società ha, senza sforzo alcuno, etichettato con un semplicistico ‘serie B’. In quegli anni, così come oggi, si sono creati veri e propri ghetti progettati da architetti che per primi mai vi prenderebbero casa. Nessuno potrà mai dire con orgoglio di dimorarvi, e i progettisti ne parlano distrattamente dai salotti dei loro palazzi storici, nei centri delle più belle città italiane.

Il video delle Iene andato in onda nel 2010 in riferimento allo Zen palermitano (minuto 5:00), mostra chiaramente l’importanza di piazze, strade e negozi nei quartieri: la loro mancanza costringe la natura mercante dell’essere umano a reinventarsi, cercando soluzione alla necessità di lavoro, che è poi la ricerca di una possibilità di esistenza. Palermo dopo la guerra è stata completamente ricostruita secondo i suoi disegni storici ad esempio. Il progetto vinse numerosissimi premi: http://www.avoe.org/Palermo.pdf e http://www.avoe.org/euprizewinner.html

Il dramma della periferia italiana è tutto in queste mostruose scatole cementizie, simbolo più che mai di un fallimento prima di tutto economico e socio-culturale, di certo architettonico e ambientale. Un fallimento che genera ogni anno enormi costi di gestione: dal sentimento di alienazione dei dimoranti, inoculati loro malgrado in esperimenti urbanistici completamente tramontati, in edifici non concepiti per essere amati né manutenzionati, derivano costi sociali ciclopici. Ma altrove, oltreoceano e oltre le Alpi, si è già iniziato a demolirli.

Il Pruitt Igoe di St Louis fu demolito nel 1972, poi venne il turno del grattacielozzo della Tour Bleue a Bruxelles. A Londra le torri di Paternoster Square sono state distrutte ormai 14 anni fa e così le stecche di Marsham Street. E ogni anno, in Francia, l’ANRU (Agence Nationale pour la Renovation Urbaine) demolisce centinaia di slab e scatole di cemento per sostituirle con quartieri urbani a misura, finalmente, d’uomo.

Altri esempi: http://www.avoe.org/urarchives.html

Le idee di Le Corbusier sulla “Unité d’Habitation” che hanno ispirato il Brutalismo delle periferie hard degli anni ‘60 sono coeve, e figlie, dello stesso humus culturale che ha partorito le guerre di sterminio e gli orrori del XX secolo. Gli adepti progettisti non sono che gli eredi dell’ultima delle ideologie che hanno infestato il secolo passato: al tramonto di tutti gli –ismi del ‘900, mentre Comunismo, Fascismo e Nazional-Socialismo sono scomparsi travolti dai loro tragici fallimenti, è sopravvissuto solo il modernismo architettonico, che trova ancora terreno favorevole nelle scuole di architettura. È per questo che le varie Biennali non possono considerarsi soluzioni del problema. Pare di primaria importanza suggerirlo ai Ministri e a Renzo Piano: alla criticità delle periferie italiane non può certo rispondere con il ripetere di uno stesso, stanco, rituale di adorazione dei vecchi maestri del Novecento.
Lo diceva anche un certo Albert Einstein: “non è mai intelligente aspettarsi la soluzione di un problema da chi quel problema lo ha generato”.

Le periferie brutaliste sono dunque l’immagine fisica di un malessere sociale, culturale e politico che ha infestato il vecchio continente nel “secolo delle idee assassine”, come lo battezza Robert Conquest: non stimolano altro che disgusto, e non perché siano state costruite da speculatori edilizi, piuttosto perché sono state concepite, progettate, disegnate per rompere con la cultura borghese, la cultura della città e dei suoi abitanti. E, possiamo dire, lo hanno fatto egregiamente.

Sarebbe necessaria una massiccia azione delle palle demolitrici, non c’è dubbio, ma bisogna anzitutto avviare una grande Riforma della periferia italiana, una trasformazione che assuma i caratteri della Città Italiana come fondanti del nuovo progetto, finalmente estranea alle ideologie fallimentari che hanno prodotto i mostri di Corviale, di Tor Bella Monaca, di EXPO 2015, e si potrebbe continuare quasi fosse una filastrocca.

Si tratta di caratteri, quelli che una riforma efficiente richiede, che noi conosciamo bene: le caratteristiche della Città Italiana sono universalmente riconosciute e copiate in tutto il mondo per risanare le periferie degli States, o quelle dell’Europa: le risposte le abbiamo formulate noi stessi, e sono il quartiere a misura d’uomo, le strade con negozi, le piazze, le corti verdi, la chiara riconoscibilità dello spazio pubblico e di quello privato. Urge una Biennale della Bellezza che avvii una grande riconciliazione tra architettura e città, una Biennale che metta al centro della riflessione l’uomo e non più la macchina. Non uno soltanto, tra le milioni di persone che vivono nelle periferie, dovrebbe esser escluso dalla possibilità di scegliere tra il costringere la propria esistenza ad abitare in un esperimento fallimentare piuttosto che prendere casa in un eco-quartiere urbano ispirato ai migliori esempi delle città italiane.

Ora pensate al Corviale, una stecca lunga 1 km dove dalla metà degli anni ‘70 vivono circa 6000 abitanti: concepito come un esperimento di Unità d’Abitazione in ritardo di circa 50 anni dalle teorie lecorbuseriane, l’edificio della Capitale era già nato vecchio e l’obsolescenza dei suoi pannelli cementizi è, più che mai, la metafora dell’obsolescenza di un brutalismo architettonico oggi abbandonato in tutto il mondo.


Ora distruggete le sue pareti di cemento, dimenticatevi del grigio imperante, demolite tutto il Corviale e sostituitelo con una Eco-Città Giardino: avrete concepito un quartiere urbano compatto, integrato, accessibile pedonalmente e ricco di spazi pubblici a misura d’uomo. Sarebbe il primo segnale di una nuova fase nella Storia della città italiana.

È lecito, e doveroso, credere che dopo il lento declino degli ultimi 60 anni possa aprirsi anche in Italia una nuova stagione di Rinascimento Urbano, un’operazione di alto valore sociale e ambientale a dimostrare che si può riparare ad un errore commesso, una volta conosciuto e riconosciuto. La tendenza negativa può essere invertita, così da offrire ai cittadini la possibilità di scegliere di vivere in un ambiente urbano armonioso, dotato di piazze ispirate alla tradizione della città italiana, ricco di spazi pubblici e di corti verdi dove i bambini possono giocare tranquilli.

Dopo la diagnosi, la cura per l’Italia.

La grande bellezza del nostro Paese potrebbe rivivere un nuovo Rinascimento partendo della nostra piccola-grande Ferrara, dalla nostra Cultura che in tutto il Mondo, questo sia chiaro, ci copiano, comprano e invidiano.

Ferrara potrebbe tornare sotto i riflettori internazionali. Valorizzare l’Addizione Erculea e la natura universitaria della nostra città, facendo leva sull’attenzione mondiale, genererebbe una rivoluzione copernicana che eviterebbe la fuga dei cervelli neolaureati all’estero, costretti ad emigrare per progettare e studiare la nostra Cultura.

L’edilizia, si sa, è sempre stata il primo indice di allarme di crisi e ripresa: l’effetto che potrebbe avere sul Paese un programma di riqualificazione e ricostruzione delle Periferie Italiane sarebbe immensamente salutare, e problemi quali sicurezza, malcontento e frustrazione della popolazione troverebbero soluzione.

Si genererebbe mercato, attività e ripresa, si inaugurerebbe una grande stagione di Rinascimento Urbano capace di migliorare le condizioni di vita degli abitanti e di contribuire ad elevare il livello della città italiana nel Mondo. Si svilupperebbe, per natura intrinseca dell’ambiente, un notevole circolo virtuoso che potrebbe offrire lavoro ai giovani neolaureati, ai piccoli e medi imprenditori, agli artigiani, così come agli artisti e ai commercianti.

Ora che il problema è (ri)conosciuto si tratterebbe soltanto di trasformare il condizionale in futuro programmato, perché l’ipotesi possa diventare imperativo: imperativo categorico, per la precisione, perché le periferie necessitano ora di riforme, di nuova vita, di quella possibilità d’esistenza sempre negatagli. È l’hic et nunc a richiederlo: errare è umano, perseverare nello stesso orrendo errore sarebbe tragico.

 

Hanno collaborato:
Gabriele Tagliaventi, Alessandro Bucci, A Vision of Europe.
Silvia Franzoni, Irene Lodi.

11 Commenti

  1. Marina Gardini scrive:

    Mai mi sarei aspettata di dover prendere le difese di Le Corbusier e del Movimento Moderno, ma di fronte all’imbarazzante sequenza di sciocchezze che ho appena letto è quanto mai necessario chiarire alcune questioni. Innanzitutto il modernismo di cui si parla è cosa diversa e distinta dal Movimento Moderno, a cui ci si riferisce, e di cui il Brutalismo non è che una delle diverse direzioni assunte proprio per superare il suddetto Movimento.
    Poi che dire del “tema delle periferie”, studiato analizzato e sviscerato da innumerevoli università negli ultimi 25 anni, con altrettante innumerevoli pubblicazioni; è qui presentato come una rivelazione del “molleggiato” o come una traccia d’esame… poveri ricercatori, poveri docenti, poveri pianificatori, invece che studiare inutilmente potevate chiedere subito al “molleggiato” di illuminarvi con il suo sapere.
    Cercherò di sorvolare il più possibile sul “fatalismo italiota” che fa di uomini e donne delle periferie meri schiavi delle periferie stesse, impossibilitati a scegliere il loro destino. Tutti possono scegliere e se non lo fanno è per indolenza, non perché il Golem della periferia li ha incatenati lì.
    Proseguirò dicendo che gli architetti non hanno mai progettato ghetti e che nessuno ne ha mai avuto l’intenzione. Il problema principale di quei progetti, che poi in effetti si sono rivelati dei prototipi di ghetto, è che non si è realizzato o pianificato l’intorno, il contesto urbano, il “tessuto” che Renzo Piano invita a rammendare. Il problema non è lo Zen, ma come questo è isolato e separato dalla città e dalle sue funzioni. Di Zen se ne progettano tutt’ora ed in tutto il mondo, ma lo si fa inserendoli in un tessuto/contesto progettato ad hoc, strutturato ed organizzato. L’entusiasmo con cui il giornalista abbatterebbe e ricostruirebbe intere parti di città a ben poco servirebbe se prima non si progettasse/pianificasse una crescita sostenibile di quel tessuto che potrebbe contenere tutti quelle attrezzature urbane e civili indispensabili per restituire un’immagine di città e quindi un’identità di città.
    Faccio poi presente che le “eco-città giardino” già si progettano e già si realizzano, da fine ‘800 circa (chiedete ad E.Howard), ma si sono rivelate un fallimento. Lo stesso Piano ne ha realizzata una sua versione a Treno (le Albere) e Sir N.Foster sta terminando Santa Giulia a Milano, entrambe sono zone residenziali assai lontane dall’idea comune di periferia, sono cittadelle per benestanti, ricche di verde e spazi pubblici di qualità, ciò nonostante entrambe rischiano già il fallimento in quanto la cittadinanza non le ha comprese e quindi non ne ha acquistato le abitazioni portando così gli investitori/immobiliaristi a puntare su altre tipologie di sviluppo urbano.
    Poi non posso che rabbrividire nel vedere accomunate ideologie come fascismo e nazismo al Movimento Moderno. Evidentemente qualcuno non sa ciò che scrive e qualcuno non sa ciò che pubblica.
    Infine non poteva mancare la nota campanilistica su Ferrara la sua bellezza e ci mettiamo pure l’Addizione Erculea, insomma nulla a che vedere con le problematiche delle periferie, che poi a Ferrara manco ci sono. Difatti Ferrara, se ha un problema, è quello del recupero dei buchi neri (gli edifici dismessi) che si trovano al suo interno e che sono vittime di una tragica perdita di funzione.
    Credo che sarebbe più interessante occuparsi di questo e farlo seriamente, piuttosto che raccogliere spunti e temi per farne un’inadeguato ed indigesto polpettone.
    Chiedo scusa agli eventuali lettori per la prolissità del commento, ma non potevo ignorare i ripetuti colpi che quella buon anima di Le Corbuiser continuava a dare alla sua bara brutalista.

  2. Feliciano C. scrive:

    @Marina Gardini
    Lei sa cosa avrebbe scritto il Barone Haussmannun-un signore che di catapecchie e vicoli se ne intendeva- dopo aver letto il suo commento ?
    Alors ?
    saluti
    Felix
    P.s. Per Patricelli
    Einstein disse anche :
    “Meglio essere ottimisti con torto
    piuttosto che pessimisti con ragione”.

    Che dice? dove ci si colloca?

  3. Feliciano C. scrive:

    Chiedo scusa dell’errore di battitura … intendevo Haussmann … naturalmente !
    Maledetta fretta .
    felix

  4. Luca Lanzoni scrive:

    La densità del tessuto urbano aiuta la circolazione delle idee. La città contemporanea comprende anche quello che in questo articolo viene definito essere “periferia”. Se accentiamo questa definizione accettiamo anche il fatto di avere un centro o più centri urbani di cui le periferie sono il margine. In questo ragionamento dobbiamo quindi inserire il fattore della diffusione dei servi e delle attività, che è il modello di sviluppo territoriale (città diffusa) che in questi ultimi 30 anni ha caratterizzato buona parte del nostro Paese. Questa diffusione tende a creare una serie di “nuove polarità” (non per forza centri abitati) che si comportano come una network (nodi e connessioni) che inglobano o intersecano le “periferie”. Ripartire dalle periferie significa essere in grado di leggere queste nuove connessioni e capire che le periferie di una città possono essere centrali per alcuni nodi del network. In questa visione il pensiero di Renzo Piano si muove verso il consolidare (arricchire) il tessuto urbano delle periferie, incrementandolo di quei servizi e di quelle soluzioni di progetto urbano orientate ad una doppia finalità: trasformare le periferie in luoghi “abilianti”, cioè luoghi che rendano facile l’abitare (spostarsi, avere relazioni sociali, lavorare, coltivare i propri interessi, oziare); rendere abili le periferie nel dialogare con quelle “nuove polarità”, inserendo servizi e infrastrutture, rendendole parte integrante di un modello più grande. Pensare di radere al suolo un tessuto urbano esistente e sostituirlo con un nuovo modello abitativo significa pensare che la città sia come un puzzle in cui le tessere si possono rimpiazzare a piacimento, senza capire le connessioni la contorno. Di fronte a performance sciocche e vuote di senso come Dubai, Abu Dabi, o le tante città progettate ex novo in Cina, in India, da archistar più o meno note, bisogna tornare a Jane Jacobs e alla pietra miliare del suo insuperato “Vita e morte delle grandi città”: “progettare una città da sogno è facile […], È ricostruirne una vitale che richiede fantasia”.

  5. Marina Gardini scrive:

    Caro Feliciano, credo che pure Nerone avrebbe avuto qualcosa da ridire e chissà quanti altri, ma siamo nel XXI secolo e non capisco se senso possa avere immaginare l’ipotetico commento di personaggi di altri tempi.
    Mi interesserebbe di più leggere il suo di commento.
    saluti

  6. Roberto scrive:

    Articolo di assoluto spessore e verità.
    Semplice da capire e sarebbe semplicissimo da attuare, ma esistono persone come lei, Gardini, che sono figlie di accademismi morbosi e malati mutati e venerati in questi 50 anni.

  7. Marina Gardini scrive:

    Beato lei, tal Roberto, che ha letto un “articolo di assoluto spessore e verità”.
    Non so da dove provenga la sua protervia, ma da ciò che sostiene si può desumere che le sue letture abituali siano la guida TV della settimana o magari fumetti fantasy con morbosi mutanti malati come protagonisti…

  8. Marina Gardini scrive:

    Vedo con piacere che le sue fonti sono di “assoluto spessore e verità”, beato lei..

    • Roberto scrive:

      É molto triste osservare che tra i modernisti come lei aleggi questo grigiore, piattezza d’umorismo e ironia. Si, sono ancora ironico, è tutto, in realtà, assolutamente congeniale e logico vista la vostra sublime architettura del grigio – trasparente.

      Nel momento in cui privati come Disney o il Principe Del Galles, Carlo, investono in Poundbury soldi propri in una architettura assolutamente tradizionale e umana, direi che la fonte è di assoluto spessore ed il successo è altrettanto dimostrato dalle continue lottizzazioni che fanno accrescere Poundbury, mentre sono altresì dimostrati i vostri continui insuccessi.

      #stiaserenamarina

  9. Marina Gardini scrive:

    ..ironico è diverso da ridicolo

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