La vita di una persona può spesso diventare la miglior via per carpire i misteriosi ed incerti meccanismi che sostanziano il vivere umano, la nostra condizione terrena. Vi sono esistenze, normali e poco note, che sono simboli di una catena – elementare e complessa al tempo stesso – di abbandono, rabbia e perdono, emblematica dell’animo umano. Una di queste è la storia di Adriana Valles – parrucchiera e fondatrice dell’omonimo salone – raccontata da Francesca Boari nel suo ultimo romanzo, Le orme dell’orso[1].

«È da venticinque anni che vado da lei come cliente – mi racconta Francesca -, è stata proprio lei a chiedermi di raccontare la propria vita». È stata, per entrambe, un’esperienza molto significativa, durante la quale «abbiamo anche pianto molto, un pianto liberatorio», non di tristezza.

Un’opera composta quasi a quattro mani, dunque, un libro le cui pagine traboccano corporeità e spiritualità, lacrime tanto di disperazione quanto di speranza. Un grande, unico omaggio al modo più corporeo e divino di vivere nel mondo: quello dell’essere donna, dell’essere madre.

LA PERDITA E L’ATTESA

Il racconto della vita di Adriana inizia in Argentina, sua terra natia. La madre, Luciana, di origini ferraresi, a tre anni dalla nascita l’abbandona. È il principio di un lungo calvario, di una sofferta ricerca. «Non trovare risposte mi faceva precipitare in una disperazione senza via d’uscita[2]», scrive Francesca/Adriana. Il padre, Victor, scompare e Adriana risentirà parlare di lui solo quando morirà. Rimane con i nonni materni, in particolare è nonna Celestina a prendersi cura di lei. Proprio quando perde una figlia, Celestina deve tornare a essere madre, a riscoprirsi tale. Luciana sembrava felice e invece «non ti bastava niente[3]». Il trasferimento a Ferrara insieme ai nonni avviene quando Adriana ha appena tredici anni. Qui inizia a costruirsi una vita, lavora come parrucchiera, si sposa con Sergio. Quando di anni ne ha venticinque, arriva l’incontro con la madre, difficile e inaspettato, come un lampo. Non vi è ancora perdono, ma qualcosa inizia a sbloccarsi.

L’attesa/lontananza della madre dopo poco si accompagnerà all’attesa/vicinanza del figlio in arrivo, Giacomo. «Sapevo che la nostra vita di adulti, seppure pienamente gratificata sul piano professionale, non sarebbe mai stata completa e autentica senza te. Ci sono persone che possono vivere bene anche senza figli, ma io no. Questo lo avevo sempre saputo[4]». L’essere madre, dunque, come completamento necessario per la propria persona, per il matrimonio, per la propria vita. Si ristabilisce, così, quella trinità segno di totalità: il nucleo originario Luciana-Victor-Adriana, poi forzatamente trasformatasi in nonna Celestina-nonno-Adriana, è ora ricomposto in Adriana-Sergio-Giacomo. Ci vorrà invece più tempo e fatica per ricomporre il legame verticale e femmineo Celestina-Luciana-Adriana.

INTERMEZZO: PRIMO SOGNO

È la verità onirica, il linguaggio del sogno ad annunciare la svolta nella sua vita. Due lunghe braccia senza volto né corpo che Adriana non riesce ad afferrare, ad abbracciare, a far sue. Le braccia di un neonato si confondono con una madre ancora inafferrabile e lontana e con un Mistero che, una volta riconosciuto, sconvolgerà tutto. Intanto, il miracolo è la nascita di Giacomo, «creatura divina[5]», segno di rinascita e speranza.

Foto di Pier Paolo Giacomoni

DAL SILENZIO ALLA SPERANZA

Nonostante la maternità, il matrimonio, i successi professionali, Adriana pensa: «ho creduto di non farcela […] Avevo un nodo che mi strozzava la gola[6]». Le conseguenze dell’assenza si fanno ancora sentire, il vuoto pare incolmabile. La mancanza è il silenzio di Dio, al quale si sovrappone quello della madre. Un Dio «onnipotente e silenzioso[7]», «chiamavo Dio da sempre ma non ero mai riuscita a riconoscerlo[8]». Quel silenzio – per dirla con Woytila – di un Dio che «non si rivela più e sembra essersi rinchiuso nel suo cielo, quasi disgustato dell’agire dell’umanità. Ci si sente soli e abbandonati, privi di pace, di salvezza, di speranza. (…) Non è forse questa solitudine esistenziale la sorgente profonda di tanta insoddisfazione (…)?[9]».

È a questo punto che due figure maschili, il figlio Giacomo e il sacerdote che lo segue, Don Alessandro, la aiutano a completare quel cammino. Una domenica, mentre aspetta il figlio durante la Messa per riportarlo a casa, ascolta alcuni passi del Vangelo: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. (…) Che giova all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi si perde o rovina se stesso?[10]». Segue la domanda di Don Alessandro ai bambini presenti: «Avete mai visto delle orme?[11]» e la risposta del figlio: «Io ho visto le orme dell’orso[12]». Questa frase commuove Adriana, spalancandole un nuovo universo di senso. «Anche Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme[13]», dice un altro passo del Nuovo Testamento. «Le orme di Gesù, l’impresa più difficile e più sensata, diventano da oggi la mia prima sfida autentica[14]», continua Adriana.

Sarà sempre Don Alessandro a consigliarle di partire, insieme alla madre, verso Santiago di Compostela. Certo, Santiago, meta per molte persone, punto d’arrivo dopo un percorso lungo e tormentato. “Santiago” ovvero “San Giacomo”, come il figlio, ad indicarle la via. Ora la strada è tracciata, s’intravede una conclusione non scontata né retorica, il dolore ha ritrovato il suo senso, la fede illumina questa riscoperta di sé e questa comprensione del mondo. Fede che la aiuta a riconoscere come tali gli aspetti essenziali dell’esistenza.

INTERMEZZO: SECONDO SOGNO

La madre morirà a Buenos Aires, lasciando come ogni perdita di questo tipo, un vuoto incolmabile. Morirà, però, con sulle labbra l’ultima richiesta di perdono ad Adriana, comunque già concesso. Sull’aereo che la riporta in Italia, Adriana, per la seconda volta, vive un’esperienza onirica fondamentale. Questa volta c’è una luce lontana, lei è insieme alla madre e a Giacomo, sono come privi di sostanza. La luce, però, diviene sempre più forte: la luce è Dio, è la Verità, è ciò che lei ha accolto, e che ora accoglie sua madre.

LA GRAZIA E IL PERDONO

Il libro termina con un “grazie” alla madre, a Dio, alla vita. La gratuità del perdono, dell’amore pieno e disinteressato ora è possibile. «Mamma ti vorrei adesso, nell’abbraccio del perdono che mi è costato tanto[15]».Col perdono inizia davvero il percorso di fede, infatti «il perdono è il gesto supremo della libertà. È il gesto con cui l’uomo rompe il puro ordine naturale segnato dalla casualità, con cui interrompe la naturale catena di risposta al male con il male. Il perdono, gesto massimamente desiderato e massimamente gratuito, è il momento in cui si esprime la libertà al grado più alto[16]».

Questo romanzo è, dunque, una lunga lettera alla madre, una “supplica” a chi, dopo averle dato la vita, è fuggita. È l’orgoglio, appassionato e sofferto, di Adriana nello scoprirsi figlia, orfana, madre e di nuovo figlia. Un cammino sacrificale per comprendere veramente il senso profondo della femminilità, per acquisire un’autentica percezione di quale tremenda e affascinante sfida sia la maternità, l’essere al tempo stesso figlia e madre, vita creata e vita che dona la vita, figlia di Dio e madre di un uomo.

È una storia sull’essere “a immagine di Dio” nella gratitudine e nel perdono. Sul trovare, al centro del proprio essere, della propria fragilità, il nodo della propria esistenza. Sulla fede negli uomini e in Dio, la prima più debole e incerta, la seconda assoluta, ma entrambe necessarie.

È una storia che vale la pena conoscere.

 

[1] F. BOARI, Le orme dell’orso, 2014.

[2] Ivi, p. 9.

[3] Ivi, p. 10.

[4] Ivi, p. 31.

[5] Ibid.

[6] Ivi, p. 12.

[7] Ivi, p. 42.

[8] Ivi, p. 37.

[9] PAPA GIOVANNI PAOLO II, Udienza Generale, 11 dicembre 2002.

[10] Vangelo secondo Luca, 9, 23-25.

[11] F. BOARI, Le orme dell’orso, 2014, p. 39.

[12] Ibid.

[13] Prima lettera di Pietro, 2, 21.

[14] F. BOARI, Le orme dell’orso, 2014, p. 40.

[15] Ivi, p. 10.

[16] D. RONDONI, “L’arte, per conoscere la presenza dell’uomo nel mondo”, in AA. VV., La sfida antropologica, 2010, p. 141.

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