in collaborazione con Davide Nanni

Avete mai sentito parlare della “Donna del Popolo”? Laica Giovanna d’Arco ad nualtar, pronta a sacrificarsi a fianco dei garibaldini per cacciare lo straniero dal Bel Paese, sempre alla testa delle plebi diseredate che chiedevano “pane e lavoro” (e in cambio ricevevano piombo e sciabolate), rinchiusa e torturata nelle patrie galere. Eppure mai doma, pronta a scagliarsi contro nuove ingiustizie nonostante l’affanno di una non più giovane età. Insomma, una vera e propria Wonder Woman della Ferrara ottocentesca.

Non la conoscete Rosa Angelini? Vendeva rose sul listone quando i vostri nonni non erano ancora nati. Vide la luce in una bella giornata di maggio, nell’anno del Signore 1824, figlia di un impiegato pontificio e di una fioraia ambulante. Dalla madre imparò presto i trucchi del mestiere che si sarebbe portato dietro per tutta la vita. Si sposò a sedici anni, con un soldato del Papa-re che allora governava la città estense. Di nome faceva Ercole – e non avrebbe potuto chiamarsi altrimenti per sposare una come lei -, di cognome Casali, fresco reduce dal servizio militare sotto Gregorio XVI. Si conobbero proprio sul listone, dove entrambi tenevano negozio durante i giorni di mercato. Fecero ben sedici figli e insieme inaugurarono un nuovo banchetto di frutta. Così Rosa passò dai fiori alle mele. Mestiere faticoso ma che aveva i suoi pregi, primo fra tutti una maggiore indipendenza lavorativa ed economica, per una ragazza che – come quasi l’80% degli italiani all’epoca – non sapeva manco leggere e scrivere.

Nei primi, turbolenti, decenni dell’Ottocento l’Italia non c’era ancora. O meglio, c’era solo “sulle carte geografiche” per usare una celebre espressione del conte Metternich. Ma c’era anche nei sogni dei patrioti italiani, e quei sogni stavano quasi per realizzarsi nel 1848. Il vento della libertà e della rivoluzione soffiò forte in faccia a tutti, in quella mirabile “primavera dei popoli”. Anche in faccia a Rosa. C’era da fare l’Italia, liberarla dallo straniero e dai principi al suo soldo. Mazzini e Garibaldi erano lì per quello no?

Rosa Angelini, ambulante, moglie e mamma di sedici figli. Pare sia stata una delle prime a spiegare il tricolore italiano sulla propria bancarella di frutta, sbattendola in faccia ai gendarmi austriaci che occupavano la vicina Fortezza, quando venivano a fare provviste al mercato. Di fegato da vendere ne aveva eccome, la Rosa. Una lettera risalente ai primi anni del Novecento, probabilmente scritta da uno dei figli poiché reca in calce le iniziali C.N., oggi conservata presso il Museo cittadino del Risorgimento e della Resistenza, ci permette di ricostruire quelle convulse giornate e gli anni seguenti: «La Rosa fu una delle prime che alzò la bandiera italiana – scrive l’anonimo biografo – andando incontro al battaglione, detto i Zamboniani; come altrettanto fece per i Bersaglieri che varcarono il Po. Fu miracolo, o la sua scaltrezza se non si fece prendere dagli austriaci dopo il disastro della Patria. Nel 1853 fu una di quelle che col suo cuore seppe persuadere la povera madre e mogli dei tre martiri: Succi Malaguti e Parmeggiani. Nel 1859 con l’intervento di altri patrioti seppe far disertare soldati Austriaci dalla Cittadella».

Foto di Davide Nanni e tratte da Fotografie ferraresi (1850 – 1920),
Storia illustrata di Ferrara, a cura di F. Bocchi, Vol. III,

Ma Rosa non era mica soddisfatta. Garibaldi e l’Italia le avevano rapito il cuore. Così, quando nel 1866 la giovane patria dichiarò nuovamente guerra agli austriaci per liberare Venezia, non seppe proprio resistere. Rosa lasciò tutto e tutti: i cesti di frutta, il listone, i figlioli che affidò alle cure di una sorella. Successivamente la troviamo sui campi di battaglia del Veneto e del Trentino, abile e arruolata nella Iª Compagnia della IXª Divisione di volontari garibaldini, guidata dal figlio dell’Eroe dei due mondi: il generale Menotti Garibaldi. Come riuscì a raggiungerli – a piedi, in calesse, chiedendo passaggi ai contadini, a groppa di un’asina – rimarrà per sempre un mistero. Sappiamo solo che operava come vivandiera al seguito della truppa, poiché a quel tempo solo le brigantesse portavano lo schioppo.

Le avevano dato una mula con cui tirare il suo carretto, se la trascinava dietro anche durante i combattimenti. Non se le risparmiò le mischie, Rosa. E fu proprio durante la battaglia di Bezzecca, in Trentino, che la sua povera mula schiantò a terra colpita da una fucilata alla testa. Anche se non c’era nessuno ad aiutarla a tirare il carretto, la nostra eroina non si perse d’animo. Raccolse quante più garze e liquori possibili e corse a fasciare alla meno peggio i feriti. Si stracciò persino la sottana e la camicia rossa per bendare gli infermi. Un’infermiera da campo improvvisata. Terminata la battaglia riuscì a comprare un’altra mula da un montanaro per 40 lire. Così poté tornare a Ferrara.

Le sue imprese però non finiscono qui. Passata la guerra anche Ferrara soffriva, come il resto d’Italia, il forte rincaro dei prodotti alimentari. La fame bussava soprattutto alle porte delle case vecchie e fatiscenti dove vive la maggior parte della popolazione, e un nuovo conflitto già si delineava all’orizzonte: guerra sociale, guerra di classe. Entro e fuori le mura cittadine. Rosa, ancora una volta, si gettò nella mischia. Radunò gente e organizzò una manifestazione di protesta davanti ai forni al grido di «Abbiamo fame, abbassate i prezzi!» per 24 ore – riportano le cronache – ebbe letteralmente in mano la città.

Ma la situazione non tardò a precipitare, con l’arrivo della cavalleria. Allo sbocco di via Colomba un tenente diede ordine di caricare i manifestanti inermi. Ma Rosa fece un balzo e afferrò per le briglia il suo cavallo, evitando un bagno di sangue. Come finì possiamo immaginarlo. Fu arrestata e portata nelle prigioni di Novi Ligure, in Piemonte. Lì venne interrogata, forse torturata. C.N., l’autore della lettera, scrive che «sofferse» molto, ma non confessò mai i nomi dei compagni rivoltosi. Dopo tre mesi venne trasferita alla Rocca di Cento dove «pure la sofferse, ma nulla disse». Passati altri quattro mesi venne rinchiusa nelle carceri ferraresi di San Paolo. Finalmente, il 28 giugno del 1862, comparve di fronte alla corte con il suo avvocato, Eugenio Ferrioni. Stavolta le cose presero una bella piega. Dopo una difesa brillante fu scagionata da ogni reato e portata in trionfo dal popolo che si era accalcato fuori dal tribunale per assistere al processo. Piazza delle Erbe (oggi Trento Trieste, ndr) era talmente stipata di gente che «non si poteva fare un grano di miglio».

Il confine tra verità e leggenda è spesso labile e le vicende di Rosa spesso hanno quasi dell’incredibile. Pare che durante un incendio scoppiato nella casa di tale dottor Bargelesi, si fosse distinta tanto negli aiuti da guadagnarsi la medaglia d’argento al valor civile. Non solo: pochi anni dopo salvò una persona che stava per affogare nella fossa del Castello. Ogni giorno poi stazionava all’entrata dell’ospedale e delle carceri portando frutta e generi di conforto a quei poveri cristi. L’oscuro cronista che abbiamo citato, narra inoltre che l’Angelini fosse solita accogliere nella sua casa gli alluvionati, ed avesse pure intentato una raccolta fondi per i poveri riscuotendo un successo che lasciò di stucco i notabili del Municipio. Riportiamo fedelmente: «In alla propria baracca teneva una cassetta che tutti ponevano l’obolo che se ne serviva per quelle persone che fame avevano». Così facendo si era guadagnata il bel nome di “Donna del Popolo”.

Un brutto giorno i figli partirono per le Americhe in cerca del grande sogno. Era il 1891 e l’Italia appena nata aveva già poco da offrire ai suoi giovani. Rosa non riuscì a elaborare il lutto della partenza. Come nel bellissimo film Nuovo Mondo di Crialese, la nave che si stacca dal porto segna per sempre la distanza tra due mondi, sottolineando un addio che è quasi una morte, una lontananza che oggi, nell’epoca di Facebook e di Skype, non riusciamo nemmeno più a concepire. Nella notte tra il 3 al 4 ottobre 1891 Rosa morì, sola. Dopo appena un mese dall’addio ai figli. Del marito Ercole abbiamo perso le tracce, forse morto prima di lei durante la grande epidemia di colera che aveva imperversato nel ferrarese alcuni anni addietro.

Cinque anni dopo uno dei figli fece ritorno in patria. Quando scoprì che la madre era stata seppellita nella fossa comunale, come avveniva al tempo per gli indigenti, fece di tutto per recuperarne i resti e darle miglior riposo. Riuscì a interessare della faccenda l’allora Sindaco e Onorevole Pietro Niccolini che, seppur di idee radicalmente opposte a quella della vecchia garibaldina, ne riconosceva i meriti patriottici. Rosa ottenne così un posto di riserbo nel cimitero della Certosa, dove tuttora riposa.

I cimiteri sono pieni di persone insostituibili.

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