A meno che tu non sia un bambino di otto anni o un insegnante, difficilmente entri nelle aule delle elementari. Magari come genitore o come bidello, ma sono rapidi istanti, giusto il tempo di una consegna o una comunicazione e via, ad altre mansioni. Fare quasi 24 ore filate in un’aula elementare come scrutatrice mi ha dato quindi un privilegio prezioso (per non parlare poi dei carabinieri, che invece sono rimasti tutto il tempo a sorvegliare i seggi, dormire mangiare e il resto incluso, estremi come un’isola dei famosi versione elettorale).

Entrare nelle scuole è un aspetto, piccolo, del fascino delle elezioni. È un mondo lillipuziano, dove tutto riprende i sapori di un mondo antico che ci ha cullato quando era tempo, che ci ha trasmesso a intermittenza delle usanze che, anche se non ce ne ricordiamo direttamente, quando le rivediamo espresse sulle pareti di un’aula le riconosciamo come famigliari, già viste, già vissute ma accantonate da qualche parte nella memoria. Entrata nell’aula di una scuola elementare di Ferrara, non ho potuto fare a meno di notare la mappa del mondo, gigante, colorata con abbinamenti che solo le cartine sanno avere, aggiornata alla politica dei tardi anni novanta, ma questo perché era proprietà di una maestra, come sottolineava una didascalia a pennarello rosso. E i cartelloni con i disegni dei bambini, con le calligrafie a pennarello tremolanti che chissà come si evolveranno. E il Presidente della Repubblica che sbuca con un’espressione da fototessera da un quadretto improvvisato sopra la lavagna, a pochi centimetri dalla foto del papa, in una posa più plastica ma meno naturale. E più in là, sempre appeso, un A4 con Falcone e Borsellino in quella famosa foto in bianco e nero da colleghi amici e complici, separato solo da una croce di cartone con la scritta PACE al posto dell’uomo morto – un capolavoro di redesign bambino che  i vertici cattolici dovrebbero tenere in considerazione – a fare da spartiacque tra loro e i vivi. Deve essere intenso, trasmettere la nostra storia a chi ancora la deve sentire per la prima volta, e ho pensato a quante volte si sarà posato lo sguardo su quei due uomini in bianco e nero, magari a volte per noia, o per paura di un’interrogazione, o semplicemente mentre si radunano i pensieri per un tema vagando con gli occhi senza vedere davvero nulla.

Così andare a votare, o fare la scrutatrice ha preso un peso diverso, credo principalmente per una piacevole noia: nelle stesse aule dove si educano i bambini si svolge un rito nazionale che ci accomuna, tutti, sulla base di un indirizzario diviso sulla base di un criterio a me ancora misterioso. Praticamente come sentirsi pronti per la nazionale al suo debutto al mondiale, solo che per una causa civica, invece che calcistica. 

L’ho osservata bene, questa tornata elettorale. Ho fatto caso a chi entrava, ho potuto guardare i documenti di identità – ma con rapidità, ché mica potevo spionare – , ho potuto indulgere sulle loro vite mentre annotavo i numeri di tessera elettorale, mi sono chiesta un’infinità di volte chi avrebbero votato, ho cercato di capire da un segno, qualsiasi, cosa pensassero e da dove arrivassero al seggio, se dal mare, da casa, dal parco dai monti, se sapessero già chi votare e se quando guardavano il cartellone con i nominativi era per una conferma o per un ultimo ripasso. Ho fatto caso ai dettagli, ho giocato a ricostruire percorsi attraverso indizi di stile. Un intero seggio elettorale a disposizione della mia curiosità. Sono rimasta estasiata dalle signore anziane, lente come le lumache in qualsiasi movimento ma orgogliosamente pronte a difendere la loro autonomia anche di fronte code infinite, donne che appena incroci il loro sguardo si accendono per chiederti i dati d’affluenza e augurarsi che tutto vada bene; e tu a replicare che sì, speriamo, senza nemmeno sapere a quale bene si riferiscano, ma con la sensazione che per un giorno si è tutti chiamati a fare uno strappo alla regola e dedicarsi alla cura della repubblica. Alcune mi hanno colpita per i loro vezzi, dei lussi a cui puoi accedere a cuor leggero solo con un po’ di maturità (tipo il colore dei riflessi dei capelli o il dettaglio-leopardo) e per la vanità finto noncurante con cui presentavano carte di identità in custodie plastificate straboccanti di fototessere in bianco e nero di loro da giovani; non solo una eh, più di una. Mi ha fatto ridere invece una signora minuta, bassina, piuttosto anziana e con un certo piglio che, evidentemente andata da sola a fare la foto per il documento, di fronte all’impossibilità di alzare lo sgabello per la fototessera si sarà vista costretta ad accettare la sua foto così come era: mezza faccia tagliata in un tentativo di abboccare nel riquadro.

Alcune arrivavano accompagnate dai figli, fotocopie ringiovanite dei loro tratti somatici. Una, in particolare, con capelli bianchissimi, è arrivata accompagnata da un omone ben vestito, canuto come lei che, dopo averla accompagnata all’imbocco della cabina, si è messo a guardare le pareti girando su sé stesso. Dopo una pausa studiata si è rivolto a noi, a tutta la fila di scrutatori seduti dietro i tavoli dicendoci che quella, da piccolo, era la sua aula. Che se la ricordava bene, e sapeva che era seduto vicino alla lavagna ma dalla parte opposta alle finestre, chè quando si distraeva guardava fuori e vedeva il Museo di Storia naturale, e che forse da quel museo, dove andava spesso a vedere lo scheletro del tirannosauro, era nata la sua passione per la medicina. E dopo averci lasciato così, con questo assaggio teatrale, ha aspettato che la madre infilasse le tessere nelle urne per poi mettersela sottobraccio e salutare.

Poi ci sono le signore, ma non le donne in generale, le signore proprio. Quelle che per prima cosa le riconosci dall’odore e dal rumore, ciondoli pendagli e tacchi in una scia di profumi pieni che restano a mezz’aria. Quelle che quando aprono la borsa per prendere i documenti senti che odore hanno i salotti di casa loro. I modi misurati, affinati da professioni esigenti o da icone di altri tempi. E poi ci sono i genitori, alcuni con i bambini piccoli affascinati dal rituale del voto e dal segreto della cabina, che insistono per vedere, per fare la croce, mamma posso venire con te? papà se io lo indico in silenzio mi fai scegliere a me? e altri invece con ragazzi ai primi voti, delle bozze di essere umani che i genitori seguono con lo sguardo in un religioso silenzio, in un misto che sembra di orgoglio e apprensione.

Nel rito dei registri ogni tanto incontri nomi che riconosci, che richiamano vite passate e cicli conclusi. Ci sono i residenti all’estero, ché non sai mai come ci sono finiti, a risiedere all’estero. Ci sono pochi ragazzi – e non è una polemica ma un dato di fatto – e quelli che votano per la prima volta ti porgono la scheda elettorale non ancora piegata, magari quelli più spavaldi chiedono pure come si fa, i più timidi ti fissano seguendo la sequela dei passaggi di mano come se dovessero imparare un codice segreto. Ho trovato dei miei professori delle medie, al seggio, con i quali ho fatto outing solo dopo un paio di cicli elettorali nella stessa sezione (e per scoprire che no, dopo quasi vent’anni non hanno memoria della classe IIIA, né tantomeno di me), e conoscenti che continuo a salutare con piacere grazie proprio alle elezioni. C’è chi arriva già polemico, con la battuta che sembra provata allo specchio; chi invece sgancia sornione degli auguri assolutamente tendenziosi, e quelli sì che un po’ sono i nemici. Nel seggio si intuisce chi vota cosa, ma non si dice, soprattutto con i rappresentanti di lista che si aggirano annoiati pure loro a caccia di argomenti.

È un rito collettivo al quale è possibile sottrarsi ma è meglio scegliere di non farlo, e il seggio diventa, davvero, un incrocio di umanità diverse; però non sono distanti, alcune persone le conosciamo, altre le incrociamo per strada rimanendo in religioso silenzio, alcuni volti li riconosciamo nei negozi dove capitiamo, dietro le scrivanie degli uffici o nei capannelli di commentatori di lavori urbani.

Un’ultima cosa: nell’aula in cui ero c’era un poster con tutti gli apparati che formano il corpo umano, respiratorio, digerente, circolatorio ecceteraecceteraeccetera. Però mancava quello riproduttivo, e pensare che dei bambini non debbano sapere come si riproducono gli umani mi è sembrata una cosa un po’ arcaica. Ecco.

1 Commento

  1. Marcello scrive:

    Molto carino :)…è un modo diversi di rivivere momenti che sono stati l’inizio della nostra vita…complimenti davvero 🙂

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