Alla fine arriva sempre maggio. Il meteo polline dà plumi di pioppo a tre pallini quasi quattro. Rinazina in tasca. Maggio, il mese dei mille impegni.

Ogni fine settimana le diverse piazze ospitano a turno un evento del Palio. Gare musici e sbandieratori (sostenute dal topone-mascotte della Vitaldent, così gentile da sponsorizzare dopo anni di assenza le gradinate) in Piazza Municipale, il giuramento in Piazza Castello e il Palio in Piazza Ariostea. Cosa? Si va a votare a fine maggio? Nessun problema. Allunghiamo il mese per farci stare tutto.

Inizia anche il festival di Altroconsumo, che in pompa magna partirà con un concerto che profuma di epicità, Elio e le Storie Tese sul Listone. A mio avviso potrebbe rimanere nella storia. Già mi immagino un Listone nuovo di zecca, tutto in ghingheri e stracolmo di Eliofans, un astronauta pasticcione che ci guarda dall’alto della stazione internazionale.

E allora perché non approfittare dell’effervescenza della città per osare qualcosa che mai prima avevo osato? Faccio un giro per piazza di lunedì mattina. È da venerdì che giro con la macchina per trovare parcheggio. Buon segno, penso. Fa sempre piacere muoversi a spintoni per le vie del centro. Nel mio vagare mi capita di passare, per caso, davanti al mercato coperto. Mi torna in mente di quando ero bambino. Quando passavo le tiepide mattine di primavera con i nonni, che abitavano affianco all’acquedotto, e si andava a fare la spesa giorno per giorno.

Il pane caldo, con quel profumo unico che non lo trovi nei panifici degli altri posti. E poi il mercato coperto. C’era tutto ed era vivo, era bello, era puro, quasi medioevale. Fruttaroli, macellari e alimentari. Tutto lì. Una ribellione alla comodità fittizia del supermercato, città tentacolare, che ti assorbe nella sua tela con la finta promessa che con il tre per due al chilo risparmierai sicuro.

Adesso, a distanza di due lustri e più, entro, così, per nostalgia e per necessità di potassio e vitamina C. Un pugnale arrugginito mi squarcia il petto. Ci sono tre bancarelle che aspettano solo che qualcuno entri, anche solo per una chiacchiera. Scenario da villaggio fantasma del West americano di Ford. Mancano solo i cespugli di salsola secca che rotolano nella polvere della desolazione. La dignità nell’attesa dell’arrivo di qualche acquirente che ha il proprietario dell’alimentari sopravvissuto è immensa. Aspetta con le mani intrecciate dietro la schiena, nel suo bel camice bianco, gli occhi tristi di chi sa che non se lo merita. Oltre alla rucola campagnola e gli asparagi, compro dal fruttivendolo un pochino di ciliegie, le prime della stagione.

Metà stabile è vuoto, deserto, dove stavano le macellerie. Una lunga fila di pannelli di legno copre l’horror vacui che vorrei baroccamente riempire dei ricordi che ho di quando ero un metro più basso e mezzo metro più largo. Guardo in alto, per combattere le lacrime che mi escono autonome dagli occhi con la gravità, ma le piastrelle e i vetri lordi e rotti mi suggeriscono di lasciarle sgorgare.

Cos’è successo ai miei ricordi? Sono mescolati ad un presente che non vorrei riconoscere come tale. Perché non sono più tornato qui? È colpa mia. È anche colpa mia. Ho abbandonato quel bambino paffuto che ero, qui, e non sono mai tornato a riprenderlo. Le cose cambiano, lo so. Vorresti fosse tutto come lo ricordi, ma a pensarci, magari prima di come lo ricordavi tu era anche meglio, dai racconti dei nonni al bar, che adesso però la frutta la vanno a comprare dal bangla lì affianco e non più li dentro.

Non è meglio, non è peggio, non è brutto né bello. È diverso e continuerà a cambiare. Non vince mai nessuno, questo è sicuro. Tra dieci anni, forse, farò il mio ritorno sotto queste travi di ferro per scoprire che è tornato ad accogliere e proteggere la piccola ma industriosa economia ferrarese. Nel frattempo, nel mio piccolo, mi sparo un sacchetto di ciliegie.

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