Non avendo mai avuto particolare dimestichezza con l’aritmetica e con i conti in generale, non avevo dubbi che affidandomi a dei calcoli sarei riuscito a perdermi il giorno che Ferrara aspettava da sedici anni. Sedici anni, mica tre giorni. Questo è solo uno dei tanti numeri che sono in ballo nella gigantesca equazione che ha dato come risultato finale il ritorno della SPAL nella terza serie nazionale. Per capirci la vecchia C1, che ora si chiama Prima Divisione. È la prima promozione sul campo dopo quella datata 1998 (sempre dalla C2 alla C1).

Sul fronte personale i miei calcoli si sono rivelati sbagliati, perché nel giorno della partita decisiva mi trovato 300 chilometri più a sud rispetto allo stadio Paolo Mazza. In ferie nell’unica domenica di 34 consecutive santificate alla SPAL. Com’è possibile? Colpa dell’irrazionale spirito da tifoso che mi ha spinto, nel mese di novembre,  a prenotare un bed&breakfast a Perugia. Calendario alla mano, pensai: “Figurati se la SPAL si riduce a giocarsi il campionato all’ultima giornata”. Inutile aggiungere altro. Ironia della sorte, domenica mi trovavo in un’altra città che aspettava un giorno storico: il Perugia Calcio, vincendo o pareggiando avrebbe guadagnato la promozione in serie B dopo dieci anni di tribolazioni seguite all’era post-Gaucci. Al Renato Curi c’erano 20mila persone per assistere alla partita contro il Frosinone. Considerato che il comune di Perugia conta 166mila abitanti, fate voi le proporzioni. Non a caso per tutta la settimana in città non si è parlato d’altro.

Foto di Alessandro Orlandin e Fabrizio De Simone

Mentre pedalavo da San Giorgio a corso Piave per tentare di mettere una pezza alla mia imperdonabile assenza (grazie alla saggia disciplina delle partenze intelligenti) ho faticato a incontrare lo stesso tipo di facce che avevo scrutato fino a qualche ora prima lungo corso Vannucci e dintorni. Ho faticato ad avvertire la stessa elettricità, la stessa tensione. Le vibrazioni positive si avvertivano solo in prossimità del Paolo Mazza, dove la SPAL si è sbarazzata del Bellaria con una certa facilità, chiudendo sul 3-1. Cinquemila persone hanno esultato, gridato, abbracciato amici e sconosciuti, qualcuno ha versato delle lacrime. Fosse giovane o vecchio, abitudinario o occasionale. La festa si è presto spostata dallo stadio al centro della città, dove ho perso il conto di facce sbalordite e di espressioni interrogative. Al netto dei turisti, mi è sembrato che tanti – troppi – ferraresi si fossero dimenticati che a Ferrara c’è una squadra di calcio che sa addirittura vincere, seppure con preoccupante rarità. “Ma cos’è successo? La SPAL è stata promossa in B?” mi ha chiesto un signore anziano con elle strascicata e disarmante candore. Mi è toccato chiedergli scusa per avergli riso in faccia prima di spiegargli che no, purtroppo è solo C1. Ho scoperto che ha smesso di frequentare lo stadio negli anni Ottanta. Non sapeva nemmeno che la gente non va più in gradinata, visto che è ufficialmente inagibile.

Ecco allora che il senso della festa e dell’esibizione fuori dal perimetro del Paolo Mazza non sta tanto nella pretesa di festeggiare (doverosamente) un risultato sportivo atteso e sofferto, quanto nella necessità di riavvicinare Ferrara e la sua gente alla sua squadra di calcio. Far divampare ancora una volta un rapporto diventato ingiustamente tiepido per via di circostanze che definire sfavorevoli è riduttivo. Sicuramente a questa opera potrà contribuire significativamente Walter Mattioli, che più “uno di noi” – come hanno urlato ripetutamente i tifosi domenica – è davvero difficile trovare. Un ferrarese che ha costruito un miracolo di nome Giacomense e che in estate ha accettato la sfida di prendere le redini della SPAL grazie al sacrificio della famiglia Colombarini. Dalla provincia alla città, dai 100 spettatori di Masi San Giacomo ai 5000 del Mazza. Mattioli di certo è uno che i conti li sa fare. Sicuramente meglio di me. “Ci serviranno 52 punti” disse in inverno. Tanti ne ha fatti la SPAL in 34 giornate, più che sufficienti per dare una nuova pennellata di biancazzurro a una città che forse aveva scordato quanto belli fossero questi colori.

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