Incontro Rita Bertoncini ai piedi del grande albero piantato sulle mura vicino al Torrione di San Giovanni. Arrivo in ritardo, con le Moretti nella sporta di plastica che tintinnano ad ogni passo. Lei si è già accomodata sui mattoni muschiosi del baluardo, si è tolta le scarpe e mi accoglie col sorriso in quello che chiama con affetto il suo “ufficio”. Tartine e patatine gusto pizza, alcune candele protette da un barattolo di vetro, mi siedo assieme a lei e respiro l’aria della sera. Siamo decisamente nel posto giusto per parlare del suo ultimo documentario, “Una nuova scintilla”, un lavoro sulle donne nella Resistenza che è soprattutto una storia di radici e rami, di affondi e protesi.

Il primo affondo nel passato, nel terreno nutriente della storia, è casuale: nel 2010 Rita scoprì quasi per caso di avere un nonno partigiano, un uomo a detta di tutti schivo e silenzioso, che non conobbe mai perché mori quando lei era ancora in fasce, tipografo clandestino negli anni della guerra. «Trovai la foto di mio nonno in un posto strano e iniziai a fare domande, nessuno mi aveva mai parlato di questa sua attività, a casa mia questa vicenda non veniva ritenuta importante. Appresi che lui stesso dopo la Liberazione smise di parlarne: aveva fatto quello che doveva e buonanotte. Era un artigiano, continuò nel suo mestiere. Io però volevo saperne di più. Aiutata da Daniele Cevolani dell’Anpi cominciai a intervistare su e giù per la provincia ferrarese tutti i testimoni ancora vivi, ancora sani di mente. Volevo salvare la loro memoria, per questo iniziai a documentare con ottica compilativa».

La ricerca a ritroso nel tempo coincise per Rita in una sorta di rinascita, le permise di entrare più serenamente in contatto con il proprio passato, di ripensare sé stessa. Lei ha quarantuno anni ma quando parla di sé si definisce con la spensieratezza di una bambina, «perché nel 2010 sono nata per la seconda volta. Abitavo in Romagna quando la mia vita esplose, persi in solo momento l’amore, il lavoro, la casa. Decisi di cambiare tutto, svoltare completamente. Tornai a Ferrara e inizia a dedicarmi al video, uno strumento che avevo iniziato a usare da una decina d’anni ma in modo amatoriale. Mi iscrissi a dei corsi di cinema della realtà, al master di Marco Bellocchio, conobbi Daniele Segré e fu un evento importantissimo». Il ritrovamento della foto del nonno ebbe un peso decisivo nell’orientare la sterzata, la resurrezione della fenice: «Ho scoperto un signore gentile e rilassato, ma anche rischioso e combattivo. Quando gli dicevano che aveva tempo due settimane per stampare qualcosa lui rispondeva che avrebbe stampato la sera stessa, perché oggi siamo vivi ma domani non si sa. Ho ritrovato in lui tanti aspetti del mio carattere, è stata una sorpresa. Ho sempre vissuto in modo problematico con la mia famiglia, grazie a lui ho potuto riallacciarmi alle radici… e capire che è questo il lavoro che voglio fare, ad ogni costo: mettermi a disposizione della realtà».

Foto di Giacomo Brini

Rita cominciò a dedicarsi a “Una nuova scintilla” nel 2011, raccogliendo innumerevoli testimonianze ma decidendo infine di inserire nel filmato solo pochi stralci di queste lunghe conversazioni. Una lavorazione faticosa e meditata, più volte sviluppata e poi disfatta, ripresa e rivista. Alla fine il focus scelto per la versione definitiva, quella che è stata presentata per la prima volta a Wunderkammer giovedì 17 aprile, è stato quello delle donne, del loro ruolo nella Resistenza: «la questione di genere mi è estremamente cara per almeno tre motivi. Perché sono una donna, perché sono una donna che lavora, perché sono una donna che lavora e sono gay. Quello che ho imparato lavorando a questo documentario è che le donne nella Resistenza hanno avuto un ruolo fondamentale, e hanno potuto fare quello che hanno fatto perché tutti le consideravano inferiori. Nessuno immaginava che la contadina avesse tanto coraggio da portare nella cesta, nascoste sotto i cetrioli, delle pistole».

Rita vorrebbe che il suo documentario funzionasse come un domino, che fosse capace di trasmettere la memoria soprattutto alle nuove generazioni, per questo nella sua realizzazione ha coinvolto tanti amici ventenni: «a Giacomo ad esempio ho fatto leggere ad alta voce dei testi che non aveva mai letto prima, documenti dell’epoca. Lui nemmeno sapeva quale sarebbe stato l’argomento della lettura: una legge che stabiliva che chiunque sarebbe stato trovato senza documenti sarebbe stato deportato in Germania, e poi alcuni brani dal giornale clandestino che stampava mio nonno, che appunto si chiamava “Nuova scintilla”. Ho filmato Giacomo tenendo l’inquadratura stretta sugli occhi, è stato un esperimento. Volevo vedere la reazione di una persona lontana dai fatti, catapultata dentro i fatti. In alcuni momenti sembra quasi una presa in giro, in altri l’effetto è sconcertante, soprattutto per l’attualità del testo: nel giornale c’è scritto che i giovani hanno bisogno di spazio, che i vecchi si devono spostare. Quando ho intervistato Anja ho cercato di capire cosa le si muove dentro sapendo che ragazze come lei, della sua stessa età, anche loro in giro in bicicletta, trasportavano delle bombe. Mettendo a rischio la loro stessa vita, perché per chi veniva scoperto c’era la fucilazione».

L’obiettivo di Rita – che non vuole essere chiamata regista, si considera piuttosto un’artigiana – è stato quello di veicolare la memoria attraverso la partecipazione attiva dei giovani che l’hanno aiutata a completare l’opera: «è importante che i valori e i ricordi delle persone che hanno fatto la Resistenza vengano tramandati, perché queste persone stanno morendo. Ma non volevo che questi contenuti passassero dalla cattedra, o solo attraverso la parola. Sono stata una persona di tante parole ma adesso non credo più molto nel loro potere,  credo nell’azione, mentre dico una cosa la sto già facendo».

Mentre chiacchieriamo il cielo si fa buio, sopra le nostre teste cominciano a volare i pipistrelli. Un’ultima – inevitabile – domanda prima di salutare Rita e il suo “l’ufficio” sulle mura. Cosa significa oggi per lei Resistenza? «Resistenza è questo albero, che sembra morire tutti gli anni e invece è ancora qui».

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