Maria, sono le sette e mezza!. Al tono pratico di Rosa Cimmaruta fanno eco i movimenti lenti della cameriera ancora addormentata, preda di un sonno tanto lungo quanto non ristoratore. Così si apre Le voci di dentro, diretto e interpretato da Toni Servillo, con la compagnia del Piccolo di Milano. Il teatro è pieno, persino le seconde file, e da giorni. Certo il richiamo dato dall’istrionico protagonista di un film da Oscar come La grande bellezza non va trascurato, ma Servillo non è nuovo ad un pubblico vasto a Ferrara, dalla Trilogia della villeggiatura, penultimo lavoro con la stessa compagnia presentato in città nel 2008.

Gli spazi in cui si muovono i personaggi della commedia amarissima di Eduardo, in un ritratto di famiglia di una società inquieta, tormentata dal reciproco sospetto, sono fedeli a quelli della versione televisiva curata dallo stesso De Filippo, che alludono all’inconscio collettivo: Casa Cimmaruta è un ambiente essenziale, di un bianco che vira al grigio, piatto e incombente, cui fa da contraltare la casa/magazzino dei fratelli Saporito, un bailamme di vecchi oggetti in equilibrio precario dove vive lo straordinario Zi’ Nicola, che ha rinunciato alle parole perché “non ci possiamo capire più”, e per mantenere una comunicazione con il nipote si serve di segni, fuochi d’artificio che per Alberto e il pubblico assumono un significato profondo e innescheranno la riflessione finale sulla società di un dopoguerra così simile all’oggi.

E proprio mentre va in scena l’incomunicabilità tra gli uomini, Toni Servillo stabilisce un contatto diretto con lo spettatore, vibrazioni che vanno oltre la parola, senza mediazione. E’ una sensazione che arriva allo stomaco fin dal suo ingresso, ben prima dello sguardo dritto alla platea che chiude, dopo una girandola di equivoci ed accuse reciproche, Le voci, ad indicare che non si è spettatori in questa commedia nera, ma persone vive davanti ad uno specchio, che nel suo essere deformante coglie senza pietà la deriva possibile dell’incomprensione tra simili.

Ecco allora che è chiaro, al di là della qualità dell’opera proposta, scritta in così poco tempo che a tratti resta abbozzata, come il lavoro di attore sia quello che più è necessario per dare senso a una varietà di caratteri in questo caso volutamente semplici, quasi “lacerti di coscienze stracciate”, come li definisce Servillo, e che arriva a conquistare il pubblico.

Come non sempre accade, fuori dalla sala, mentre gli echi della commedia accendono pensieri, ecco che si parla degli attori più che dell’opera.

“Grazie tesoro che mi hai portato a teatro!”

sento esclamare, e nel semplice grazie si percepisce tutta la gioia e  la sensazione intima di aver assistito ad un “buon teatro, fatto con passione”, e di avere capito davvero cosa Eduardo volesse suggerire; e ancora:

“più vicinanza fisica di così… era una sensazione bellissima (…), ho sentito il peso di ogni parola detta e anche sussurrata, dei momenti che sembravano scritti esattamente sul copione e che magari non c’erano, della gestualità che sembra esagerata e invece non lo è”

dice Luciana dopo aver visto lo spettacolo, al termine di una giornata dove ha potuto sedere abbastanza vicino all’attore che più le regala emozioni, durante il consueto incontro con la compagnia. Un momento irrinunciabile, per chi voglia sapere di più sul lavoro dei protagonisti, ma anche un’occasione per scoprire il lato umano di chi fa un mestiere molto particolare, che li rende in scena “vicini eppure irraggiungibili”.

Foto di Lucia Ligniti

“Toni ha la sensibilità di avvicinare persone che hanno piacere di stare insieme, hanno qualcosa da dirsi, e questo è fondamentale in tournée”, racconta Chiara Baffi (Maria) durante l’incontro, inoltre “è un regista che cura e fa crescere lo spettacolo, tanto che durante la Trilogia le ultime indicazioni le ha date alla penultima replica di 345”.

“Lavorare con Toni è un’esperienza piacevole”, continua Gigio Morra (Pasquale Cimmaruta), “ha dato continuità al mio modo di fare teatro. Questo è un testo che lascia molte porte aperte”, ecco perché bisogna costruirlo con cura.

E per cura Toni Servillo intende “interpretare il teatro come mestiere, come pratica quotidiana. Festeggiando a Ferrara la 200esima replica delle Voci di dentro, lo spettacolo è già rodato ma conserviamo la felicità di farlo bene, insieme”, sottolinea con un sorriso dopo avere preso posto in sala. “Il teatro ha il potere di allontanare l’angoscia”, continua, ecco perché sceglie opere apparentemente leggere, ma che fanno pensare.

Durante le sue parole fa il suo ingresso in fondo alla sala il fratello Peppe, splendido gregario, ma solo in scena, dove l’alchimia tra fratelli è evidente specialmente nella gestualità, che Peppe Servillo doma e piega volontariamente ai fini della rappresentazione e che pure a tratti lascia trasparire una ritualità originaria, consolidata ben oltre il tempo di una tournée teatrale.

“Essere realmente fratelli”, spiega Toni incalzato da una domanda del pubblico, “crea una zona di promiscuità, un’energia e intesa particolari. A volte scopro di ricorrere alla memoria biologica anche in scena, e questo rende il testo privo di accademismi e perciò più autentico”.

All’ultima curiosità sul suo doppio ruolo di attore cinematografico e teatrale, Servillo risponde che “le due arti si nutrono l’una dell’altra, nella piena consapevolezza che sono due modi di recitare diversi e indipendenti” e lascia intravedere il dubbio che se c’è una preferenza, cada sul teatro, che definisce “un modo bello di stare insieme, che dovrebbe illuminare l’intelligenza e scaldare il cuore”. Un modo di comunicare che va oltre le barriere linguistiche, e dimostra che sì, il teatro è parola, ma anche, come disse Albertazzi chiamato a darne una personale definizione, corporeità: un insieme di vibrazioni che veicolano indissolubilmente contenuti ed emozioni in uno scambio tra attori e pubblico, e li rendono forse in quell’attimo davvero “raggiungibili”.

A chiusura della stagione di prosa, la compagnia si concede alla città, chi li ha visti passeggiare, firmare autografi a chi li attende fuori dal un teatro che dicono di chiamare già casa, con il buon auspicio che i grandi nomi del cinema e del teatro possano essere il volano per avvicinare un pubblico sempre maggiore a quel “modo bello di stare insieme, che dovrebbe illuminare l’intelligenza e scaldare il cuore” che è un buon fare teatro.

2 Commenti

  1. marco scrive:

    Complimenti per l articolo Lara

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