Che strano contenitore, quello della fotografia! Ingloba tutto e tutti. Ogni tanto, però, nel costante flusso di immagini e di colori che quotidianamente ci travolgono, capita di cogliere qualcuno che ha ancora il coraggio di fotografare con la mente. Qualcuno come Mustafa Sabbagh, che con amore e devozione reclama la (forza della) cultura come arma, si meraviglia ancora di fronte al potere del vero, e sa intravedere una certa magia nella luce flebile della sua città.

Ma andiamo con ordine e partiamo dall’inizio.

Robert Capa voleva diventare uno scrittore, e Richard Avedon era iscritto a Filosofia. Henri Cartier-Bresson era un pittore, Irving Penn un grafico pubblicitario e Ansel Adams amava il pianoforte. Insomma, nella storia dei grandi autori la fotografia sembra sempre essere capitata nel loro percorso per sbaglio. È anche il tuo caso, o già da piccolo dicevi: “da grande voglio fare il fotografo”?
Da piccolo ero multitasking, cambiavo idea ogni giorno… Fino a quando, poi, non ho incontrato una vecchia macchina fotografica, ed è subito nato un grande amore. Un amore che mi porta a dire, oggi, che io non solo faccio ciò che volevo fare, ma soprattutto che io sono ciò che fotografo.

Dei tuoi studi veneziani in Architettura cosa ne hai fatto? C’è qualcosa, della formazione di quegli anni, che hai poi impiegato nelle tue opere creative?
Ti risponderò con due pensieri che provengono da un grande dell’architettura:
«New York è riuscita a produrre la cultura della congestione e, inoltre, è riuscita a esprimere la tecnologia del fantastico, un ideale che forse ha poco a che vedere con le regole della composizione architettonica ma che, in effetti, riesce a produrre manufatti…»
«Tutte insieme, queste rotture – con la scala metrica, con la composizione architettonica, con la tradizione, con la trasparenza, con l’etica – implicano la rottura definitiva, quella radicale: la ‘bigness’ non fa più parte di alcun tessuto»
I pensieri di Remment Koolhaas sono condivisibili per ogni atto creativo, compresa la fotografia. È la cultura, l’unica arma per vincere la banalità, ed ecco che, seguendo il suo solco, ci troviamo ad andare tutti nella stessa direzione.

Sicuramente tutti ti chiedono di Avedon, tuo maestro, e altrettanto sicuramente questo grande nome della fotografia avrà lasciato in te molti stimoli e una notevole eredità, ma quali sono state le esperienze e le persone che ritieni abbiano maggiormente influenzato il tuo percorso?
Non amo parlare dei miei intimi amori/maestri: lavorare con il più grande fotografo ti fa sempre sentire piccolo, ed io voglio crescere.
E poi, ogni individuo incontrato mi lascia un piccolo, o grande, segno sul quale riflettere. Ed io, spesso, fotografo con la mente.

Da qualche anno hai deciso di non essere più catalogato come fotografo di moda. La moda, per sua stessa natura, deve precorrere i tempi, e così – penso – anche la fotografia che la rappresenta, diventando una forma di avanguardia. Quanto spazio per l’arte c’è, o c’era, nella fotografia di moda? Da dove è nata questa tua scelta? C’è qualcosa di cui hai fatto tesoro da allora, che ora metti nei tuoi nuovi lavori?
La moda è uno specchio del tempo, ed in questo momento di crisi, economica e culturale, non può essere una forma di avanguardia – se non in rari casi. La moda insegna la progettualità, e senza un progetto non può esistere nessuna meta.
Per quanto più propriamente mi riguarda, essendo un nomade, io cambio per esigenza emotiva, non scelgo. Allo stesso modo non amo le etichette, né la spartizione tra i generi: una fotografia, semplicemente ma autenticamente, o è buona o è scadente.

Nel 2000, gli Einstürzende Neubauten uscirono con l’album “Silence is sexy”. L’ho riascoltato qualche giorno fa e l’ho collegato alle tue foto, perché entrambe rendono l’atmosfera poetica, ma al contempo disturbante (“Silence is sexy/ So sexy/ As sexy as death/ So sexy / Just your silence is not sexy at all”). Se per loro era il silenzio, per te cosa si può definire sexy?
Sexy è la verità.

La tua idea di bellezza non è certo quella canonica che solitamente si ha di essa. Una persona che conosco, vedendo le tue opere, mi ha detto: “Sembra una fotografia fatta di lividi, una bellezza da obitorio”. Scrutando pori, nei e peli, la tua ricerca arriva ad esplorare una bellezza che spesso turba, o che non piace. Come è iniziata la tua ricerca attraverso i difetti della pelle, e cosa vuoi raccontare attraverso di essa?
Federico Chiara, di Vogue, ha scritto su di me: “Nella sua estetica, l’abito sublima in feticcio, muta di segno, migra di genere e spesso si accompagna a maschere ora buffe, ora inquietanti; mentre i soggetti (modelli, ma anche persone comuni) mostrano con orgoglio le loro imperfezioni fisiche, o esibiscono una nudità contemporaneamente fragile e aggressiva. Il suo universo narrativo è oscuro, pervaso da una luce fredda che mette in evidenza tutte le ombre del sentire contemporaneo, e una sessualità che sfida le convenzioni emerge come sottotesto in ogni scatto. Sia in quelli destinati alle mostre fotografiche nelle gallerie, sia in quelle dei redazionali per i fashion magazine. Ora, però, il suo immaginario potente cerca l’inedito”.
Il mio pensiero sul bello è che, in fondo, esso non è la sinuosità di un corpo costruito, ma la carnalità della pelle – con i suoi pori, i nervi, le vene.
Bello non è il semplice bagnarsi, ma immergersi a fondo, un attimo prima di affogare.
La Bellezza è, per me, un’eiaculazione di immagini che sfogano da un amplesso intenso e tormentato, è lo sforzo intuitivo sotteso al deciframento di un’espressività nascosta da un velo. Niente sorrisi costruiti, ma maschere che li coprono; non ci sono pose plastiche, se non quella – naturale, umana – della crocifissione.
La Bellezza più autentica è autistica, vive in un mondo a sé, destabilizzando il conforto – banale e massivo – dello status quo del mercato della moda…
La bellezza, in definitiva, è una strada da trovare. Una rivoluzione dell’autenticità.

Courtesy Mustafa Sabbagh


Gli indiani d’America – e, come loro, anche molte civiltà arcaiche – temevano che la fotografia potesse rubare l’anima del soggetto fotografato. Questa credenza risale ai tempi dei dagherrotipi, che venivano considerati quasi una sorta di magia. Spesso, il volto e l’espressione del viso sono indizi molto importanti per capire l’interiorità del soggetto che si ritrae. Tu usi spesso le maschere… perché? Che valore ha per te il corpo, e perché ne nascondi spesso una parte così importante?

Max Pohlenz scrisse «I Greci avevano da tempo esteso il termine πρόσωπον, “faccia”, “maschera”, all’uomo rappresentato, e i Romani, traducendo πρόσωπον con “persona”, tennero loro dietro». Fino ad oggi, ed oggi più che mai, la società impone una maschera ad ogni individuo nel momento in cui, sistematicamente, non gli dà la libertà di essere se stesso fino in fondo. Quella sociale è una maschera onnipresente, falsificante, subdola, vigliacca.
La stessa espressione, del resto, è il primo atto di inganno che l’uomo usa; credo che la morfologia sia più sincera. La fotografia non ruba l’anima, ma restituisce le sensazioni inconsce. Così, il ruolo che conferisco alle mie maschere – e l’uso che ne faccio – è assolutamente principale: è un atto di rifiuto per quelle maschere suddette, imposte, invisibili e mistificanti.
Io scelgo di immortalare maschere/opere d’arte per sentirci più liberi.
Scelgo di ritrarre maschere, per farci sentire ancora più individui.

Le tue immagini mi ricordano il mondo del teatro, la sua irripetibilità e, dunque, anche la sua intrinseca e necessaria decadenza. Che ruolo ha per te il travestimento?
Solitamente non amo il travestimento – o meglio, non amo l’errore che troppo spesso esso veicola, quando lo si confonde con ogni forma di diversità. Il teatro, in fondo, non è altro che andare in mille direzioni, pur restando fermi…

Nei tuoi dittici, spesso un’immagine figurativa viene messa in relazione ad un’immagine naturalistica. Così avviene che un mare in tempesta, o un bosco oscuro, dialoghino con l’altra parte del dittico, esprimendo la stessa atmosfera ma – al contempo – amplificandola. La natura che tu rappresenti mi ricorda molto il concetto caro a Lucrezio, e poi anche a Leopardi. Che ruolo ha per te la natura? Nei tuoi dittici è madre o matrigna?
Sono convinto che è la forma a fare la sostanza, e che il contesto rafforzi qualsiasi atto. Di conseguenza, il dialogo che cerco di creare attraverso i dittici è semplicemente il mio modo romantico di raccontare l’indiviso. Il mio modo di proclamare: “Io sono quello che abito. E sono quello che vivo”.

Come vivi la fotografia? Quanto incide nell’arco della tua giornata?
È un amore, e come tutti gli amori veri è pieno di conflitti, ma se manca lo vado a cercare…

Molti trovano nella fotografia uno sfogo dopo ore e ore passate alla scrivania di un grigio ufficio. Tu, invece, cosa fai quando non fotografi? Che attività ami fare nel tempo libero?
Ognuno ha un suo proprio, personale, autentico modo per essere felice, ben venga dunque anche una macchina fotografica.
Io nel mio tempo libero? Dormo, faccio sesso, leggo…

Un mezzo con il quale ti confronti sempre più spesso è il video. Personalmente Utopya, da te diretto, mi è piaciuto moltissimo. Oltre alle immagini, nei tuoi video molto spazio viene lasciato a suoni e musiche. Cosa ti affascina di questo mezzo?
Mi affascina il fatto stesso che non riesco neanche per un attimo ad immaginare la mia vita senza suoni, senza rumori. La musica è decisamente una delle mie panacee, ed una delle medicine più potenti contro quel male avido che è la noia.

Qualche settimana fa, su Il Post, è uscito un articolo firmato da Renata Ferri (“Il web salverà la fotografia?”), in cui l’autrice si interrogava – insieme ad altre photo-editors – sul futuro della fotografia. Nell’articolo si parla del forte impatto che dagli anni ’80 in poi hanno avuto le riviste femminili, del peso della pubblicità, dell’evoluzione del digitale. Mi ha colpito soprattutto l’analisi che fa la Ferri in questo passo: “L’evoluzione del mezzo e la tecnologia digitale hanno fatto il resto, creando una sorta di euforia da manipolazione che ha coinvolto tutti – fotografi e creativi – nell’utilizzo dell’artificio che, mentre cercava di compiacere, si allontanava inevitabilmente dalla realtà, dalla documentazione e dalla forza dell’immediatezza del linguaggio stesso. Per questo siamo finiti tutti col credere sempre meno alle fotografie”.
Leggendo questo passo, non può che tornarmi in mente il concetto di “inversione della vita” teorizzato in un saggio illuminante, uno dei miei favoriti, che consiglio a tutti di leggere: “La società dello spettacolo”, dello scrittore e filosofo francese Guy Debord.
Nello specifico, «Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra individui, mediato dalle immagini», una «visione del mondo che si è oggettivata».
Ecco, mi piace pensare che il web sia uno strumento. Non riesco a concepirlo come un fine in sé.

Per quanto riguarda il tuo lavoro, so che tu non ami fare della post-produzione sulle tue immagini. Come mai questa scelta? È sempre stato così?
Come ti ho anticipato prima, io amo la verità.

La fotografia riflette il mondo e lo rappresenta. Internet e le nuove tecnologie hanno indubbiamente cambiato il modo di percepire la realtà, e la qualità sembra non essere più un valore aggiunto. Come ti immagini la fotografia del domani? Quale sarà il ruolo del fotografo del futuro?
A mio avviso, la qualità è un fatto da non mettere mai, mai in discussione – né in passato, né ora, né tantomeno in futuro, qualunque sia il medium veicolante. Ed Internet non è da meno. La qualità è fondamentale – nel conoscere il mezzo e nel padroneggiare la tecnica, al fine poi di poterle dissacrare.
Del resto, il fatto che quasi il 90% della popolazione abbia un’automobile, non fa sì che tutti diventino per incanto piloti di formula uno…

Cosa consiglieresti ad un giovane che scelga oggi la strada della fotografia ad alto livello?
Di non fermarsi al primo no. La fotografia non è un lavoro, è una scelta di vita. Una volta incamminatisi sulla sua strada occorre andare avanti, con coraggio e con tanta cultura.
E certo, anche un po’ di “culo” non guasta…

Il tuo paese d’origine è la Giordania, territorio antichissimo al confine con Israele, da tempo luogo attraversato da conflitti. C’è qualcosa che ti lega alla Giordania e alla sua millenaria cultura?
Sono nato in Giordania, ma sono di origini palestinesi, figlio di tante culture, nomade per pensiero. Ogni cultura incontrata mi ha lasciato un segno, mi ha inciso l’anima. E va bene così: il mondo è troppo piccolo per dividerlo in settori ed in camere stagne, e l’anima troppo grande per lasciarvi attecchire un solo arbusto.

Tu sei cittadino del mondo. Come vedi la fotografia al di fuori delle mura italiane?
In Italia la fotografia è imprigionata in un limbo, all’interno del quale l’ha costretta la scarsa generosità nei confronti di una cosa tanto meravigliosa, e che in passato ci ha reso tanto celebri, quale è l’arte. Lo vivo e lo soffro, trovando a dir poco paradossale questa mancanza. Per farti un esempio: mentre in quasi tutto il mondo esistono corsi di laurea in fotografia, in Italia sei costretto ad essere un autodidatta.
È desolante pensare che i nostri giovani, immersi più di tutti gli altri nell’arte passata – della quale, tuttavia, sono e saranno sempre meno consapevoli, per strani giochi di potere politici – debbano faticare molto di più, rispetto ai loro coetanei europei, per potere vivere d’arte futura.

Tu sei cittadino del mondo (vol. II). Vivi in molti luoghi sparsi per il globo, ma la tua casa è qui. Perché ritorni a Ferrara? Cosa ami di questa città, e in cosa invece pensi essa debba migliorare?
Ferrara è magica! Qui ho amici che amo, qui adoro la luce morbida, che accarezza tutto e tutti… ti senti sempre coccolato, da quella sua magica luce grigia.
E probabilmente non sono in grado di enuclearti i bisogni di questa città, ma c’è una cosa che percepisco io per primo: una città come la nostra ha il compito, se non lo stretto dovere, di abbattere quelle barriere spazio/mentali che intercorrono tra “evento” e “quotidiano”. Manca cioè, a mio avviso, un luogo tangibile e democratico che sappia aggregare i giovani intorno alla creatività ed alla cultura .
La cultura deve essere come l’aria: bisogna poterla respirare, e non andarne alla sua spasmodica ricerca.

La tua esposizione alla MLB Home Gallery, qui a Ferrara, si intitola “Burqa moderni. Un dialogo inventato con Matisse”. Il burqa, oltre ad essere tradizionalmente un simbolo religioso, è anche quel mezzo che rende la bellezza visibile solo al “legittimo proprietario”. Afferma infatti la norma coranica che esso è “il velo, di colore nero o blu, che copre completamente il volto delle donne, in modo da non mostrare il loro volto ad altri se non ai rispettivi mariti”. Cosa esprimono i tuoi burqa moderni?
Esattamente il contrario, ed esattamente la stessa cosa: sono protezione e proclama di sé, sono riserbo e denuncia, timoratezza e fierezza, silenziatori e megafoni. Posti in una condizione di dialogo impossibile, eppure mai così reale, con le opere di Matisse, si rispecchiano in esse e ad esse si oppongono.
Proprio come le mie maschere – mediante le quali acceco per autenticare – questi burqa sono amplificatori dell’anima, e l’anima non è mai riducibile ad una categoria: è individuata ed irripetibile, è tutto ed è niente.
D’altronde, per me, è proprio questo il monito più bello dell’arte: quello di esortare a non fermarsi mai a quella coltre, tanto confortante quanto mistificante, fornita da quel grande imbroglio di massa denominato “apparenza”.

2 Commenti

  1. bassan emanuela scrive:

    Ho letto con attenzione l’intervista. Ho trovato molto intelligenti le domande ed altrettanto le risposte. Non conoscevo l’artista, è bene che Listone Mag valorizzi queste persone e le faccia conoscere ad un pubblico più vasto ed eterogeneo.

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