Mentre Ferrara attende quelli di natura cavalleresca, propri del Carnevale rinascimentale, c’è un altro duello che che si consuma in città. Un duello dialettico che anima il palcoscenico del Teatro Comunale per poco più di un’ora, davanti agli occhi rapiti di una folta platea di spettatori. Il pretesto per osservare questa sfida verbale, che ha il sapore di una contesa antica e forse ancora irrisolta, lo offre lo spettacolo ‘Il nipote di Rameau’. L’opera, adattata dall’attore e regista Silvio Orlando insieme a Edoardo Erba, è un dialogo satirico, scritto da Denis Diderot fra il 1762 e il 1773. A ‘duettare’ sul palco sono lo stesso filosofo Diderot, interpretato da Amerigo Fontani, e appunto il nipote del musicista Rameau, di cui Silvio Orlando veste abilmente i panni.

Se il Rameau zio deve la sua fama al fatto di comporre brani musicali, il Rameau nipote impiega il proprio tempo a comporre tutt’altro genere di trame. Quella dell’adulatore, per lui, è un’autentica arte nobile e, quasi alla stregua di un lavoro a cui spetta una retribuzione, necessita di essere coltivata con abnegazione, sacrificio e pazienza. Solo in tale maniera sarà destinata a produrre i suoi frutti nei pranzi di gala, nei salotti di corte, nei palazzi del potere. Il luogo dove invece Rameau sceglie di perorare apertamente la propria causa, mettendola drasticamente a nudo, è un caffè settecentesco del Palais Royal. Proprio di fronte a un illuminista come Diderot, decide di rendere trasparente la sua mediocrità e imbastisce con lui un dialogo serrato che affronta i temi più disparati, dalla libertà alla virtù, dalla povertà al senso stesso della vita. A un’iniziale simmetria fra le due argomentazioni di tenore opposto, piano piano sembra che quella di Rameau prenda materialmente più corpo.

Quasi a corroborare la sua tesi, gli stessi sensi del pubblico finiscono con l’essere sollecitati. C’è il profumo ammiccante dell’incenso, la penombra incerta del locale, il richiamo attraente della musica. Sul palco, allestito con le scene di Giancarlo Basili, infatti, c’è posto anche per Luca Testa e il suo clavicembalo, sul quale poggia un candelabro a due bracci. Così come, lo spazio, lasciato vuoto fra Diderot e Rameau, è di tanto in tanto attraversato dai passi di una cameriera, il cui ruolo è affidato a Maria Laura Rondanini. Uno spazio percorso a intermittenza, quasi una metafora di quella società che inevitabilmente si trova a passare in mezzo fra il filosofo e l’uomo amorale. E che la società tenda inconsciamente a propendere per quest’ultimo e per il suo modus vivendi, è Rameau stesso a evidenziarlo quando con argomenti di pettegolezzo suscita la curiosità della donna, tanto attenta alle dinamiche della cronaca rosa dei tempi quanto tuttavia placidamente ignara di chi sia Voltaire.

I costumi di Giovanna Buzzi arricchiscono uno spettacolo che pare brillare oggi più che mai per la sua attualità. Le domande che Rameau si pone a voce alta, e le conseguenti risposte che rivolge a se stesso e al pubblico, spiazzano il filosofo Diderot e il suo ricordo da narratore in prima persona del dialogo. Dialogo condito dalla verve comica di Rameau. «Che differenza c’è fra marcire sotto il marmo o marcire sottoterra?», si chiede il nipote a proposito dell’aspirazione degli uomini a compiere grandi imprese, una volta che tutto è appianato dalla morte. Il suono napoletano della voce di Orlando pare un richiamo suggestivo alla poesia  ‘La livella’ di Totò, e rivela la natura quasi filosofica, dell’approccio alla vita di Rameau. Che non risparmia critiche a se stesso, ma con un naturalezza della quale è invece sprovvista la maggior parte dei suoi contemporanei. Davanti alle perplessità di Diderot, non esita ad affermare con sincerità di essere un invidioso, afflitto dalla propria mediocrità, di ambire a essere circondato da lecchini. La stessa sincerità che invece manca ai cittadini di quei popoli che non hanno bisogno di verità, ma di bugie.

Bugie che quando lusingano, l’essere umano tende a ingoiare d’un fiato. A differenza delle amare verità che preferiscono essere servite con il contagocce. Il fascino che la bugia esercita sugli uomini e sulle donne è un terreno fertile dove coltivare l’adulazione. E qui Rameau dà il meglio di sé, parodiando il modo con cui si dedica, da conoscitore profondo degli spartiti, benché sia un musicista fallito, a impartire lezioni simulate di clavicembalo ai figli dei signori di corte. Ennesima trovata per mettere in luce la sua arte affabulatoria. Il sentimento di Diderot è contraddittorio. Come può un uomo decidere di rinunciare alla propria dignità per cedere all’asservimento? La risposta arriva proprio da Rameau quando ammette che la sua libertà consiste nella consapevolezza di avere una dignità, e nella scelta di metterla da parte.

La voce della coscienza di uomo libero si ribellerebbe, ma quella della fame sembra urlare più forte. D’altronde è lo stesso Rameau a chiedere al filosofo che senso abbia studiare a scuola materie prive di utilità pratica, o insegnare ai figli a diventare poveri. E il figlio di Rameau, entra in scena di lì a poco, e forse rappresenta il suo vero nervo scoperto. Sebbene Rameau precisi che asseconderà ogni sua inclinazione senza tarpare la sua libertà, è emblematico che il bambino venga rappresentato da una marionetta.

I momenti comici di intrattenimento s’intervallano a quelli più cupi della riflessione. Come quando viene raccontata la drammatica vicenda del rinnegato di Avignone. La storia di un lucido e crudele tradimento che provoca lo sgomento in Diderot. Il filosofo non sa se inorridire per l’azione malvagia narrata o per il compiacimento verso il suo autore da parte di Rameau. «Si loda la virtù, ma la si odia», è la cinica reazione del suo interlocutore che confessa di ammirare coloro che eccellono nel compiere il male.

Le bordate di Rameau si infrangono sui pilastri dove poggia la morale del filosofo, che para i colpi, ma non sembra riuscire a contrattaccare. Chissà come andrebbe a finire se Rameau volesse dare una svolta alla propria esistenza, cercando magari un aiuto da parte dell’altro. L’addio risoluto del filosofo marca una distinzione fra i due personaggi simbolo della contesa. Gli applausi scroscianti del pubblico apprezzano l’interpretazione degli attori, ma forse involontariamente rivelano un rischio. Che le parole di Rameau, in fondo, lo abbiano un po’ sedotto.

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