Dove eravate l’11 settembre del 2001? Che musica c’era? Che articoli avete letto in quel periodo? Qual era l’opinione dominante? Come vi sentivate? Cosa pensavate?

Tra ottant’anni -anche prima in realtà – la distanza con l’11 settembre sarà enorme. E dico 11 settembre perché, volenti o nolenti, è un evento che abbiamo presente, tutti. Saranno poche le persone che sapranno dare la misura emotiva di quei giorni, in molti invece reciteranno la nozione dell’attentato alle torri gemelle, le conseguenze mondiali, le reazioni dei media e via dicendo. Sarà scritto sui libri di storia, e sicuramente sarà seguito da paragrafi che riassumeranno alcuni nostri anni di vita in un susseguirsi logico e lucido di cause-effetti, tutta roba che noi adesso non riusciamo a sapere, o non vogliamo vedere, o non sappiamo raccordare. Probabilmente a fine capitolo ci saranno gli esercizi di consolidamento.

A noi succede lo stesso con altri avvenimenti storici. Sappiamo tanto dei totalitarismi, sappiamo delle guerre mondiali e del fascismo, sappiamo della persecuzione degli ebrei, sappiamo della limitazione dell’espressione, della cultura e delle arti. Quanti film avremo visto al riguardo? Quanti filmati ci avranno mostrato, a scuola?

Ma se non ci fossero i sopravvissuti, a definirci i confini della tragedia, a darci i dettagli del contesto, saremmo in grado di immaginarla, di sentirne l’ingiustizia, di provare quei sentimenti viscerali che da animali sentiamo di fronte la paura e l’impotenza?

Gli Indifferenti è come avere la radio accesa di sottofondo mentre leggi un giornale, ma nel 1932. O nel 1928. O nel ’38. 

E’ breve, dura settantacinque minuti, ma ti regala un percorso di lettura della storia, un sentire che cresce con l’ingrandirsi delle ingiustizie del fascismo. Soprattutto nei confronti dell’arte. Non è una storia fatta rivivere in teatro, non ci sono gli attori con i costumi, un plot e i nemici, non è confinata allo spazio scenico, la storia che raccontano dal palcoscenico riguarda tutti noi.

Ci sono tre persone in scena, tre artisti. C’è Luisa Prayer, con le sue mani e il suo pianoforte a coda. C’è Monica Bacelli con il suo canto e il suo leggìo. C’è Fabrizio Gifuni, con la sua voce e la sua raccolta di articoli. Uno sfondo che cambia colore a seconda dei capitoli in cui è articolata la narrazione, l’unica concessione scenografica.

Ci sono i passaggi degli articoli, degli scritti, dei telegrammi e delle dichiarazioni ufficiali del periodo che va dalla nascita del fascismo alle leggi razziali, e alcune composizioni del ventennio o che sono strettamente legate alla sorte dei loro autori. Gifuni interpreta gli scritti con le sue voci di attore, mentre Bacelli, una volta conclusa la parte recitata, canta le arie e i motivi dei compositori del periodo, accompagnata da Prayer, la cui musica a volte lega insieme gli interventi degli altri artisti.

Lo spettacolo parte dal prologo, nel quale risuonano le parole di Raffaello Ramat prese dalla rivista Argomenti del 1943 che denunciano la responsabilità degli scrittori nell’ “insinuare la menzogna” (e una signora di fianco a me si agita, si muove, bofonchia e, sentendosi osservata, sgancia un letale “come adesso”), e Bacelli parte con uno dei pochi contributi internazionali, Strauss.

La menzogna, l’ipocrisia, il servilismo, sono il filo rosso che lega questa argomentazione multimediale. Detona nel primo capitolo, che parla degli anni del manganello e della facile violenza, accettata e argomentata come l’unica soluzione possibile rispetto a situazioni critiche; perché è chiaro che dove non arriva la minaccia interviene il manganello, che è ottimo per azzittire irreversibilmente i detrattori del fascismo. E se non può arrivare il santo manganello perché magari uno è troppo in vista e la Dottrina non ne gioverebbe, ecco che parte la claque a svilire chi la schiena la tiene diritta. Nel secondo capitolo si parla proprio di questo, Arte e Regime, e la storia di Arturo Toscanini diventa l’emblema della meschinità. Nel 1931, il direttore di orchestra avrebbe dovuto dirigere un concerto al cospetto di due ministri del governo fascista, Leandro Arpinati e Galeazzo Ciano, che gli fecero pervenire la richiesta di introdurre l’esecuzione con l’inno Giovinezza; Toscanini si rifiutò, quindi venne aggredito da una camicia nera fuori dal teatro e il concerto venne sospeso. Le reazioni furono denigratorie, lo prese di mira la stampa, gli fu ritirato il passaporto e la sua famiglia venne trascinata nell’italico fango con lui. Poco dopo, Arturo Toscanini lasciò l’Italia per gli Stati Uniti. Perché se l’animo si piega, allora anche la schiena lo segue.

Fuggire dall’Italia è una soluzione che prima viene adottata da chi dissente dal regime, e poi da chi è spaventato dal regime perché ebreo. La questione di razza si introduce con tutta la sua soffocante pesantezza ne Gli Indifferenti. Le leggi razziali attestano la superiorità della razza italica, determinando l’inferiorità di tutti gli altri, con quel linguaggio da decreto ufficiale pomposo e sincopato; ma tutto lo sgangherato apparato logico viene smontato da uno scritto di Mario Castelnuovo – Tedesco, compositore ebreo in fuga, che parla del suo distacco dall’Italia e della sensazione che ne deriva: sentire parlare di “prove generali di morte” scaccia via il ridicolo balilla, con il conforto di poterlo pensare e scrivere, e lascia invece la misura dello sconforto di chi ha dovuto confrontarsi con l’irrazionalità dei tempi.

La razza ritorna nel penultimo capitolo, nel quale si tratteggiano le follie del nazionalismo come reazione al diverso, come scusa intellettuale per non aprirsi e continuare a mantenere un livello culturale basso e pure abbietto. E fa ridere allora lo stralcio interpretato con accento milanese di Guido Visconti di Modrone, che se la prende con i neri, con il loro jazz, con i loro cocktail e con i loro vizi, tutta roba che ammoscia gli italiani!, in un crescendo che va verso discorsi che anche noi abbiamo sentito, tremendamente simili, in altri contesti, da certi esponenti e non tanto tempo fa. Sono dettagli rumorosi che il bisogno di sintesi della storia cancellerà senza pensarci due volte, lasciando a noi il dovere di ricordare che gli scemi si ripetono, uguali, di decennio in decennio.

I paradossi dell’epoca sono raccolti nell’ultimo caso, esemplare, di Alfredo Casella, anche lui compositore, inizialmente nazionalista ma poi sposato ad una ebrea: costretto anche lui alla fuga, diventerà per gli scribacchini e l’opinione pubblica un paria, uno che che è bolscevico e amico dei semiti e tante altre cose insieme, in un turbine di ignoranza mozzafiato.

Chiude, Gifuni, con Gramsci e i suoi scritti sugli indifferenti, e ci fa capire che Moravia non c’entra, ma c’entrano le responsabilità che abbiamo, tutti i giorni, per non doverci chiedere, pure noi “se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo?”

Una densa lezione sulla storia e sul peso delle parole, pubbliche, stampate, trasmesse e riprodotte, viste da un oggi di tanti anni fa, con il lusso, a noi del futuro, di avvertire quel brivido che il sapere come sono poi andate le cose dà.


Postilla

L’intero spettacolo parte da un impulso di Monica Bacelli. Poi ha coinvolto Luisa Prayer e infine Fabrizio Gifuni. Lo spiegano loro eh, non l’ho preso da Wikipedia. Bacelli racconta della sua esperienza di interprete di musica da camera, di come le tocchino brani tedeschi e francesi, pur sapendo che esiste una scuola italiana, che però si è sviluppata soprattutto durante gli anni del regime fascista. Per questo, dice, le è sembrato doveroso tirare fuori ciò che è un patrimonio italiano, seppur con le dovute contestualizzazioni. E da lì partono gli interventi di Prayer e Gifuni, e insieme cominciano a modellare la forma de Gli Indifferenti. Lo spettacolo porta in scena tre diversi talenti, che collaborano per dare spessore e tridimensionalità a passaggi storici che altrimenti resterebbero paralizzati nella carta.

In occasione dell’incontro post- spettacolo di venerdì 20 dicembre, il comitato Ferrara per la Costituzione e la sezione locale dell’ANPI hanno deciso di premiare questo felice esperimento con le tessere onorarie delle associazioni. I presidenti delle associazioni hanno puntato dritti verso Gifuni, e hanno consegnato le tessere. Hanno elogiato il suo impegno – ha portato in scena spettacoli su Gadda e Pasolini – e si sono detti felici di avere un membro onorario come lui.

Niente, nessuna parola su Bacelli e Prayer. Bello bello gli indifferenti, complimenti signor Gifuni. Un intero spettacolo sulla malleabilità della massa, sulla difficoltà di tenere la schiena dritta, sul non piegarsi ai facili entusiasmi dettati e decisi a tavolino da altri e poi premiano il più conosciuto di tutti. E’ lecito premiare l’impegno di un professionista, non è questo il punto, ma qualcosa strideva, mentre vedevo i presidenti delle associazioni spostare sedie e farsi spazio per la foto di rito accanto al laureato.

Gli autori erano tre. Tre. Non uno. E anche solo per un principio di educato rispetto sarebbe stato doveroso un passaggio, un indizio, sulla natura collaborativa dello spettacolo: ma niente, noi ce l’abbiamo nel dna questa cosa della persona che da sola fa tutto, di fatto appiattendo il lavoro degli altri.

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