«O sei dentro o sei fuori. L’arte contemporanea funziona così. É un teatrino pazzesco, la meritocrazia inesistente. Per me la creatività è comunicazione, altrimenti perché qualcuno dovrebbe guardare l’opera che qualcun’altro ha fatto?»

Una colazione con Emiliano Ponzi può durare quasi tre ore. Lui ha trentacinque anni ed è attualmente riconosciuto come uno dei migliori illustratori del pianeta. Non si contano le sue collaborazione, dal “New York Times” a “Le Monde”, da Feltrinelli a La Repubblica, e neppure i premi ricevuti. Lavora sulle immagini tenendo bene a mente la lezione del designer Jhon Maeda sulla differenza tra semplicità e semplificazione – «la semplificazione deriva dalla consapevolezza di un mondo complesso. Quando si lavora per una rappresentazione semplificata la complessità non scompare, resta sullo sfondo» – la stessa lezione che i lettori dovrebbero ricordare leggendo questa intervista. Emiliano Ponzi non è una persona semplice, l’intervista sintetizza una lunga conversazione, è per ovvi motivi semplificata.

Nato a Reggio Emilia, trasferitosi con la famiglia a Ferrara all’età di cinque anni, Emiliano ha trascorso tra le mura estensi gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza (piccolo momento di commozione quando al tavolino del bar arriva la ricciola). «Sapevo disegnare, mi è sempre piaciuto – così comincia la sua storia – ma negli anni del liceo non sapevo cosa fosse l’illustrazione, Ferrara non è New York. Frequentavo un negozio di fumetti, guardavo i manifesti, conoscevo la pittura e le avanguardie, ma non avevo un’idea precisa di cosa significasse fare l’illustratore». Studente dell’Ariosto, iscritto all’indirizzo psicopedagogico, ricorda i corsi di disegno organizzati nella campagna di Terraviva, a due passi da piazza Ariostea: «mi colpì soprattutto un corso dedicato alla teoria di Betty Edwards per disegnare con la parte destra del cervello, quella meno razionale. È molto famosa. A lezione cercavamo di ritrarre alcuni oggetti dal vero ma sviluppando l’immagine a partire dagli spazi negativi».

Dopo la maturità è il momento delle prove di ingresso per iscriversi all’università, scienze della comunicazione. Test a Padova, test a Bologna: niente da fare. Bocciato ad entrambe le selezioni, «così nel 1997 sono finito a Milano all’Istituto Europeo di Design – racconta –  ma è stato un ripiego, o forse una scelta inconsapevole. Non avevo aperto una pagina dei testi che andavano studiati per le prove».

Foto di Giacomo Brini Illustrazioni di Emiliano Ponzi

È a partire dai contatti presi durante gli anni dello Ied che Emiliano ha realizzato le sue prime opere: «da qualche parte bisogna iniziare, anche il viaggio di mille miglia comincia con un passo. Adesso mi capita di rifiutare un lavoro per mille motivi, perché ho altri impegni, perché non mi piace il tema, perché viene pagato poco. All’inizio era diverso: dovevo dimostrare di valere e avevo un disperato bisogno degli altri. In verità questo bisogno è una costante. Nessuno lavora senza un interlocutore, si impara a lavorare solo lavorando. Ma all’inizio la necessità del confronto è totale, bisogna fare gavetta, non dico che sia giusto accettare qualsiasi commissione ma quasi».

Emiliano parla con grande pacatezza e tranquillità, per nulla affaticato nonostante l’intervista fissata alle nove di sabato mattina. Lui stesso ammette di essersi svegliato, come tutti i giorni, verso le sette. Viene voglia di chiedergli qualche consiglio. Da dove scaturisce tanta equilibrata e operosa serenità? «Non sono fatalista, non credo nel destino, è importante abituarsi a portare a casa qualcosa ogni giorno. Questo non significa che nella vita non si possa cazzeggiare, significa trovare quotidianamente qualcosa di nutriente. È tanto banale quanto vero, anche perché le abitudini si trascinano. Ed è meglio avere abitudini virtuose che non averle».

La conversazione continua, si sposta su un terreno a dir poco scivoloso, differenze e affinità tra illustrazione ed espressione artistica, mercato e mondanità: «nell’arte contemporanea si è creato un effetto perverso, per intrattenersi lo spettatore deve prima leggere quaranta righe di spiegazione. Sono stato all’ultima Biennale di Venezia e ne sono uscito sconvolto, a tratti allucinato, per l’inconsistenza di tanti lavori. Credo che l’oggetto d’arte per essere tale dovrebbe poter essere decontestualizzato e trasmettere ugualmente, la comunicazione dovrebbe funzionare a prescindere dalle letture. Credo questo ma allo stesso tempo accetto quello che mi circonda: ciò che per me dovrebbe essere la norma appartiene ad un mondo ideale, la realtà non è così. Sono convinto che la maggior parte degli artisti coltivi le migliori intenzioni ma per me il genio resta Cattelan, che esponendo un’installazione del Papa colpito da un meteorite fa i miliardi. Quest’opera è ovviamente il punto d’arrivo di un lungo percorso. Lui a mano non ha fatto niente, ha solo messo l’idea: è un comunicatore, come Damian Hirst e il suo teschio di diamanti».

Scatta la domanda, quasi obbligatoria, per conoscere quali siano i suoi riferimenti, i suoi modelli. La risposta è ondivaga: «sono resistente nel fare nomi, o entri dichiaratamente nel filone di qualcuno oppure l’ispirazione arriva da tutto, da Warhol a Tiziano. Hopper è senza dubbio un artista a cui guardo. Un giornalista del Corriere mi ha avvicinato alla linea di Magritte, io non ci avevo mai pensato. Per la generazione successiva alla nostra i maestri non ci saranno più: vedranno tutto tramite il web ma non conosceranno le fonti».

Ripercorrendo la galleria delle sue collaborazioni si sofferma su uno degli ultimi progetti, le copertine commissionate da Feltrinelli per la nuova edizione dei romanzi di Charles “Hank” Bukovski, dove non mancano organi genitali elegantemente disegnati a forma di rosa, rapporti orali in piscina, nudità e bottiglie: «con quelle copertine ho vinto la medaglia d’oro della Society of Illustrators di New York, un premio veramente importantissimo. Per me è stata una grande vittoria, anche un caso emblematico considerato il sostrato di puritanesimo esistente negli Stati Uniti. Sono felice perché quello che cerco è l’universalità del messaggio. L’illustrazione deve essere democratica, arrivare a tutti».

Emiliano non vuole anticipare i prossimi progetti, ma coglie l’occasione per commentare la necessità di coniugare senza rigidità passato, presente e futuro: «spesso mi chiedono tra i miei lavori qual è quello che mi piace di più. Dopo tredici anni ho imparato a rispondere: quello che farò domani. Il rischio per un creativo è sempre quello di standardizzarsi, io vengo chiamato perché sono conosciuto per una certa identità. Ma la prospettiva, l’evoluzione, è una compagna di viaggio indispensabile. All’inizio non sai esattamente cosa sei, ma poi ci si chiarisce. L’identità si costruisce anche passando attraverso a cose diverse da quello che pensi di essere».

Infine un appunto metodologico, da cassetta degli attrezzi. Che regole segue l’artigiano Emiliano al lavoro? «Less is more è un concetto banalissimo ma complicato. Ne “Le regole della semplicità” di John Maeda si parla della differenza fondamentale esistente tra la semplicità e la semplificazione. La semplificazione deriva dalla consapevolezza di un mondo complesso. Quando si lavora per una rappresentazione semplificata la complessità non scompare, resta sullo sfondo. Il mio obiettivo nell’illustrazione è togliere tutti i vezzi, spogliare il lavoro di tutti gli elementi inutili ma fermarmi un attimo prima di eliminare il senso.  Non mi è mai capitato di pensare “ho tolto troppo”, semmai di pensare “ho tolto troppo poco”. Sottrarre è un atto di coraggio incredibile, non ce la faccio sempre a sottrarre quanto vorrei. Anche perché i miei lavori hanno appunto anche una funzione di intrattenimento, devono restituire qualcosa di estetico».

1 Commento

  1. Matteo pazzi scrive:

    Bellissima intervista! Complimenti a Ponzi!!!

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