Invitato all’inaugurazione della stagione del Teatro comunale di Occhiobello, vorrei scrivere della serata non tanto riportando il programma – per gli interessati c’è il sito ufficiale, oltre ovviamente alla sezione eventi di Listone Mag, basta spostare lo sguardo un poco a destra – ma delle cose che non pensavo di trovare e che invece ho trovato, cose che non appartengono a ciò che solitamente evoca alla mente la parola teatro.

Dove non si dovrebbe fare

Per chi non ci fosse mai stato, a Occhiobello la stagione di prosa passa da un circolo anziani, in una grande sala dove il giorno dopo lo spettacolo i volontari smontano il palco per liberare la platea al liscio, facendo riemergere i tavolini nascosti sotto il piano della scena per restituirli al gioco della briscola. Per l’inaugurazione della stagione gli organizzatori hanno evitato di installare i teli che solitamente coprono le quinte per far vedere al pubblico cosa in realtà c’è dietro: il bancone di un bar con relative bottiglie di amaro Averna e Lucano. Scoprirlo per lo spettatore può comportare una perdita in termini di immedesimazione, ma sicuramente anche un guadagno. La prossimità agli ambienti più familiari aiuta a sentire gli attori più vicini, a sentire che quello che rappresentano non è “altro”. Bellissimo pensare che il teatro sia qualcosa che sta fra noi e le bottiglie di amaro sul bancone di un bar.

Come non ci si dovrebbe andare

Il teatro nell’immaginario comune è un mondo fatto di buona borghesia che solamente finge di aprirsi al nuovo, è l’abitudine consolidata che nulla vuole sapere di ciò che le capita affianco. È un ambiente dove certo parole spesso non sono nemmeno conosciute, parole come carpooling ad esempio. Il teatro di Occhiobello non solo conosce queste parole ma se ne appropria, le propone come la cosa più ovvia del mondo. Se si è giovani e si decide di andare con una macchina piena, si rischia una bella serata di prosa spendendo quanto una birra media.

Come non bisognerebbe parlare

La cultura è in crisi, vengono meno i finanziamenti, la gente non spende più per questo settore e la concorrenza tra strutture dedicate si fa quindi sempre più aggressiva. Protezionismo, gelosia e fidelizzazione verso il proprio pubblico sembrano dappertutto una logica risposta. Qui no. Qui nuovamente c’è qualcosa che non ti aspetti: una rete di convenzioni lega il palco di Occhiobello a quello del Comunale estense e quello del De Micheli di Copparo. L’invito a frequentare altri teatri arriva sotto forma di riduzione sul biglietto. Probabilmente chi di dovere non ha fatto gli opportuni sopralluoghi, perché fino a quando si parla di allacciare la stagione ferrarese a quella di Copparo i conti tornano, ma il Teatro comunale di Occhiobello… è a Occhiobello, in Veneto, sotto Rovigo, oltre il Po. Errore o svista che sia il gioco è stato fatto: le stagioni si promuovono a vicenda, fregandosene dei confini amministrativi e tornando a far prevalere le affinità culturali.

Come non si dovrebbe mangiare

Durante la serata anche un buffet nel foyer. Basterebbe ripetere mentalmente due o tre volte “buffet nel foyer” per raffigurarsi piccolissime porzioni spacciate per cibo e flûte spacciati per bicchieri. L’ennesima sorpresa: convivialità, somarino, polenta, frittate, formaggi, dolci, vino e caffè.

Come non ci si dovrebbe vestire

Siamo d’accordo sul fatto che da chi presenta una stagione teatrale, di fronte a trecento persone, ci si aspetta quantomeno una giacca, un bel maglioncino nero a collo alto? Perfetto. Marco Sgarbi, direttore artistico, non solo indossava per l’occasione una maglietta, ma con fierezza la grondava di sudore. Alla faccia del dress code. Alla faccia dell’etichetta. Il suo alterato equilibrio termico era in realtà dovuto all’aver partecipato allo spettacolo “Finto contatto” nel quale interpretava, assieme a Jorge Alberto Pompè, lo scontro tra un ex-pugile e un aspirante combattente. La rappresentazione fa parte di un più ampio progetto intitolato “Manufatti artigiani”, regia di Giulio Costa, che si è meritato nel 2012 il premio “L’inutile del teatro”, ed è stato così definito da Massimo Marino sul Corriere della Sera: «un interessantissimo ciclo sui mestieri […] capace di rinominare cose abituali, di rendere sogno, ipotesi, moltiplicazione mentale architetture e atti quotidiani». Semplice ma denso di metafore, tuttavia non mi lancerò in interpretazioni. Cioè: lo potrei anche fare, ma poi sembrerebbe soltanto teatro.

1 Commento

  1. Eccezionali! e loro dimostrano che tutto ciò è possibile per tutti!

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