In un Paese come l’Italia, dove le ultime statistiche Istat stabiliscono un tasso di disoccupazione under25 vicino al 39%, coniugare in uno stesso discorso la parola “arte” e la parola “giovani” può non essere esattamente semplice. Eppure c’è chi ci prova, non limitandosi alla chiacchiera ma costruendo occasioni concrete di confronto e di crescita. È il caso di “The Scientist”, il festival internazionale di videoarte che quest’anno festeggerà la sua settima edizione a Ferrara: una tre giorni di incontri e proiezioni dedicata all’esplorazione di un mezzo espressivo tanto diffuso quanto spesso confuso o misconosciuto.

«L’obiettivo è stimolare la produzione dei nostri giovani talenti – spiega il direttore artistico Vitaliano Teti – facendogli conoscere le opere che altri ragazzi come loro stanno realizzando in diverse parti del mondo, favorendo un diretto contatto con artisti appena più grandi di loro ma affermati, riconosciuti. Offrire un appuntamento informativo e formativo al tempo stesso, trasmettere un po’di fiducia».

Vitaliano ha insegnato per lunghi anni presso l’Università di Ferrara, docente di tecniche di produzione audiovisiva e multimediale. Ora il corso per il quale lavorava non esiste più – “Tecnologo della comunicazione” è stato soppresso durante la recente scompaginazione di facoltà e dipartimenti – e la sua attività in ateneo si è orientata maggiormente verso la produzione, ma la vocazione a supportare la creatività delle nuove generazioni non è venuta meno.

«Il festival è nato nel 2007 per capire se la videoarte, che per tanti anni ha trovato nel capoluogo estense un pioneristico nucleo propulsore, potesse ancora suscitare interesse nei ragazzi» spiega Vitaliano, ricordando il Centro Videoarte fondato da Lola Bonora, Carlo Ansaloni e Giovanni Grandi all’interno di Palazzo Diamanti. Un’esperienza trentennale – il centro fu attivo dal 1972 al 1997 – che portò in città i nomi più importanti del pantheon contemporaneo: da Marina Abramović a Nam June Paik, da Emilio Vedova a Fabrizio Plessi (solo per citarne alcuni). «In occasione del primo lancio di “The Scientist” – ricorda Vitaliano – riuscimmo a proporre una retrospettiva, proiettando una quarantina di filmati selezionati dall’archivio del centro. La risposta fu molto buona e si decise di continuare, fondando un’associazione che gestisse le successive edizioni della manifestazioni, si chiama Ferrara Video&Arte».

Caratteristiche principali del festival sono state fin dal principio, e rimangono tuttora, l’attenzione al pubblico delle scuole, delle università e delle accademie, come pure la ricerca di spunti e collaborazioni internazionali. Per l’edizione 2013, che si svolgerà tra l’11 e il 13 ottobre presso la Porta degli Angeli, è stato deciso di presentare esclusivamente lavori realizzati da artisti under35; inoltre saranno parte integrante del programma delle selezioni speciali curate da accademici e critici provenienti da altri paesi europei come Wilfried Agricola de Cologne, ideatore del “New Media festival” di Colonia, Dionisio Gonzalez e Mariana Hormaechea della Facultad di Bellas Artes di Siviglia.

«Ogni anno cerchiamo di aprirci un po’di più – commenta Vitaliano. Negli anni scorsi siamo riusciti ad invitare nomi come Alessandro Amaducci, Giorgio Cattani, Alice Guareschi, Alice Cattaneo, Botto&Bruno. Gli ospiti speciali di quest’anno saranno alcuni membri del collettivo Alterazioni Video. I loro lavori sono lisergici, veri e propri viaggi nella surrealtà. Violentano il linguaggio audiovisivo, lo sporcano in modo irriverente e caustico. L’attitudine è punk. Spesso nel mondo della videoarte il glamour va per la maggiore: immagini rarefatte e sofisticate, tecnicamente ineccepibili, molto costruite. Loro sono agli antipodi: totalmente immediati, dissacranti. Il modo in cui, nel 2013, utilizzano il chroma kay è sconvolgente, rasenta il cinematografico. Non per niente le loro opere si chiamano “turbofilm”. Chiederemo loro di spiegarci dal vivo che senso ha questa definizione. Sono degli artisti tout cour, anzi: sono cineasti alterati dalle arti elettroniche».

Chi ha partecipato alla scorsa edizione di “The Scientist” sicuramente non avrà dimenticato “Black Rain”, l’opera che ironizza e allo stesso tempo denuncia l’incapacità tutta italiana di rapportarsi al fenomeno globale e irreversibile della migrazione. Ambientata a Lampedusa, la pellicola mostra letteralmente una “pioggia di neri”: gli immigrati approdano sull’isola cadendo direttamente dal cielo. Quest’anno il focus si sposta verso un altro tema scottante per il Belpaese: lo scempio delle grandi opere incompiute, raccontate attraverso “Per troppo amore” e “Incompiuto siciliano”. Il primo titolo racconta il viaggio di un extraterrestre a Giarre, paesino del catanese detentore di un triste record: ben dodici opere pubbliche interrotte nello stesso Comune. Il secondo titolo si rifà esteticamente al Carosello degli anni Sessanta ma, invece di mostrare le belle immagini della Torre di Pisa o degli Uffizi di Firenze, documenta scheletri vuoti e paesaggi deturpati.

«La crisi, le emergenze, i diritti umani: tutti questi temi sono molto presenti nelle opere degli artisti più giovani – commenta Ada Patrizia Fiorillo, docente di storia dell’arte per l’università estense, curatrice e da sempre preziosa collaboratrice di “The Scientist”. Nelle persone c’è un forte bisogno di condividere, anche attraverso la creatività, il cui linguaggio è peculiarmente più leggero e allo stesso tempo più pieno. Il coinvolgimento del pubblico è forte, la gente ha voglia di sentirsi partecipe. L’arte diventa un veicolo per rendere note determinate difficoltà, un po’come succedeva negli anni Settanta, quando i creativi non volevano essere definiti artisti ma operatori sociali. Era un periodo molto buio e gli artisti non volevano restare chiusi nei loro studi, scendevano nelle piazze, diventavano promotori di iniziative, penso ad esempio all’apertura degli ospedali psichiatrici. I giovani artisti di oggi spesso capiscono molto bene il sistema dell’arte e se ne servono, non raramente eccedendo. Tuttavia raccolgono molte delle sollecitazioni che arrivano loro dal contesto, attraverso le loro opere pongono delle domande e credo che questo sia da apprezzare».

Sulle difficoltà incontrate ogni giorno dagli emergenti – a caccia di spazio, strumenti, risorse – la docente sospira e racconta: «i nomi che ricorrono sulle riviste sono sempre gli stessi, di fatto il sistema dell’arte contemporanea si può definire un monopolio. Non si spiegano altrimenti le cifre astronomiche a cui vengono vendute alcune firme, mentre altre assolutamente dignitose e meritevoli di pari interesse – per qualità e contenuti delle opere proposte – restano nell’ombra. Non è un problema italiano, è un problema globale, e non è nemmeno nuovo. Esiste da sempre. Nell’Ottocento in Francia si cercò di aggirare l’ostacolo inventando il Salone dei Rifiutati, per offrire visibilità agli artisti cui veniva negato l’accesso al Salone ufficiale dell’Accademia».

Sicuramente “The Scientist” – seppur nella dimensione forzatamente limitata che vive un piccolo festival in una piccola città – prova a remare in direzione contraria al sistema. Chiude Vitaliano sottolineando il grande apporto dato dagli studenti o ex studenti Unife: «la manifestazione ha sempre cercato di offrire visibilità agli alunni più intraprendenti e capaci. Quest’anno ad esempio proporrà  i lavori di Bruno Leggieri, Matteo Bevilacqua  Giovanni Tutti. Le riprese di Leggieri sono quelle che più si avvicino al tema che tratteremo in occasione della giornata di studi, ovvero l’intreccio tra videoarte e cinema di finzione. Hanno meritato buone posizioni sul podio di diversi concorsi. Bevilacqua è giovanissimo, si deve ancora laureare, attualmente è orientato soprattutto verso il videoclip, un genere che si è sempre distinto per il forte carattere sperimentale, in cui si sono cimentati molti artisti. Tutti è il più eclettico, attraversa diversi linguaggi, dall’animazione al reportage».

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