Ho sempre ammirato questo luogo cittadino che agli occhi dei più piccoli può sembrare un immenso castello, dove bimbe di otto anni fanno improvvisati mercatini dell’usato, i maschietti si rincorrono giocando alla guerra e i nonni si ritrovano tra una chiacchiera e l’altra. E tra urla e bisbigli arriva lui, Robert, con calma, sorridente, in bici. Si siede vicino a me, ai piedi dell’Acquedotto, e subito un bimbo gli si avvicina e lo guarda sorridente, come se lo conoscesse da sempre. “Vengono sempre da me i bambini e i cani, ma soprattutto i bambini” afferma mentre lo osservo. “Sarà perché ho tre fratelli più piccoli, ma i bimbi vedono diversamente” dice sorridendo mentre il bambino se ne frega dell’arrivo del nonno col gelato e continua a fissare beato questo ragazzo dai movimenti serafici, dalla voce buona.

Robert Bisha – che da quel che si dice in giro suona praticamente ogni strumento gli venga sottomano – è tornato giusto il giorno prima il nostro incontro da un viaggio a Shkodra in Albania, ovvero Scutari, la sua città natale.

Robert cosa ci sei andato a fare a Scutari? Ti mancava la tua città?

No, io ho latte materno ma non ho radici (sorride). Sono tornato a Scutari per raccontare storie con gli Αιών Teatër (Aion Teater), una compagnia di Roma dove suono e che si propone di unire il teatro alla musica e alla danza, creando ogni volta un’esperienza nuova e irripetibile tra noi e il pubblico (www.aionteater.com). A Scutari abbiamo portato La leggenda di Rozafa, che in italiano si può tradurre con ‘il fato rosa’. È una delle storie più antiche dell’Albania e fa più o meno così:“si racconta di tre fratelli impegnati a costruire una fortezza. Passano i giorni, ma ciò che loro edificano nelle ore di sole, viene fatto crollare da alcune forze oscure la notte. Un vecchio saggio della città allora dice loro che le mura, per essere forti e solide, necessitano del sacrificio di una delle loro mogli. Si deve dunque immortalare per il bene della comunità colei che per prima l’indomani porterà il pranzo ai lavoratori, che si danno il besa, una parola intraducibile che suona in italiano come ‘la parola data’, quella cosa che pur di mantenerla devi morire, se necessario. Ma due di loro non ce la fanno e dicono tutto alle rispettive consorti. Rimane solo Rozafa, moglie del più giovane dei fratelli e madre di un bambino. Gli uomini le spiegano quale sarà il suo destino e lei accetta di essere murata viva all’interno della costruzione, a una condizione però: che le rimanga fuori un braccio, un seno, una gamba e un occhio. Un braccio per poter cullare il proprio bambino, una mammella per poterlo allattare, una gamba per poterlo cullare e un occhio per poterlo vedere crescere”. Bella, vero?

Bella, un po’ triste forse. Povera Rozafa…

In realtà la vecchia cultura albanese ha un sacco di altre storie da raccontare, tra cui quella delle “donne-uomo” (Robert mi traduce il termine albanese alla lettera, in italiano), donne che decidevano di combattere coi mariti in guerra e alle quali veniva data la possibilità di proclamarsi uomo e di acquisire così tutti i diritti che il codice riservava esclusivamente al genere maschile, cambiando insomma sesso sociale. A pensarci, al tempo c’era una spiccata percezione della sensibilità, invece dai Greci in poi è stato razionalizzato tutto in Occidente, tanto che ora non c’è poi tanta differenza tra vivere a Ferrara, a Roma o in Albania.

Robert, guarda che le formiche stanno arrivando da tutta Ferrara per mangiarti il gelato!

(pacato e tranquillo si gira verso la sua coppetta di gelato e le osserva) Beh, devono mangiare anche loro… La natura deve essere rispettata, noi stessi siamo natura e siamo connessi a lei. Una volta si diceva: ‘il mondo non può appartenere agli umani’, e io ci credo profondamente. In Albania, per esempio, le montagne erano considerate sacre e venivano dati loro i nomi in base alle forme che avevano. C’è quella che si chiama Collo di ciliegia, quell’altra che si chiama Velo della sposa (dipingendone i contorni nell’aria con la mano). Tutte queste montagne esprimono il carattere della gente del posto, dure ma anche sincere. Nobili d’animo, e fedeli. Pensa che mia nonna mi raccontava degli Zana, gli spiriti della montagna che vivono nelle acque dove gli uomini non possono camminare e dove lei li sentiva cantare… E sai, che sia vero oppure no non ha poi molta importanza.

Foto di Giacomo Brini

Tu a 15 anni sei scappato dal tuo paese, sei salito su una di quelle barche che ancora oggi molti si ricordano dai tg o dai giornali e sei giunto in Italia. Come era l’Albania allora?

Se penso all’Albania penso a come l’ignoranza abbia partorito arroganza che ha partorito a sua volta violenza. Ho un ricordo ben preciso tra i molti che può aiutare a capire come fosse la situazione. Si viveva tutti insieme ed erano state istituite delle mense comuni e quella nel palazzo dove vivevamo noi era al primo piano, che poi in Albania si conta come secondo piano. Mi ricordo che passavano le ore e nessuno ci chiamava per pranzare allora mi arrampicavo perché avevo molta fame e volevo vedere se qualcuno ci stesse preparando da mangiare, e gli altri bambini giù mi urlavano: c’è qualcuno? E io rispondevo loro a malincuore: no, nessuno.

E di Ferrara invece cosa mi racconti? Ormai abiti qui da moltissimo tempo, come ti trovi?

(portandosi l’indice vicino alla bocca) Ssssh… Ferrara è la bella addormentata, bisogna parlarne poco altrimenti si sveglia (facendomi segno di parlare basso). Ferrara è bella e tranquilla per riposare. Dopo il viaggio dall’Albania potevo stare a Roma, ma sono voluto ritornare qui per dormire perché non ha tanti rumori, anche se vivo nella – come si dice qui, turbolenta – zona stazione. E poi mi piacciono le biciclette, andare in bicicletta. Ho provato a pedalare a Roma, ma stavo per morire dallo smog e in più ha delle salite che con la mia bici non riesco ad affrontare. Io anche in Albania vivevo in una città delle biciclette, poi il comunismo l’ha distrutta. Era un misto tra lo stile veneziano, orientale, e le case che si trovano ad Amsterdam. La stessa cosa vale per la musica: in Albania si inventavano generi musicali, prendendo dalle aree turche, da quelle indiane, dal genere arabo e da quello persiano. Con strutture anche complesse, in un equilibrio perfetto tra i suoni dell’oriente e la pulizia occidentale. E tutto questo accadeva vicino al lago più grande dei Balcani. Tanto grande da sembrare un mare…

Vedi?! Si ritorna a parlare dell’Albania insomma. Dici di non aver radici, ma nel frattempo mi stai spiegando, traducendomeli, tanti termini della tua lingua…

È una lingua che non è mai stata scritta, se non sulla pietra. Sarà per questo che vado sempre ad orecchio, perché l’albanese è orale, bisogna semplicemente ascoltare il suono delle sue parole. La scrittura è il nostro specchio, ma ci deve far andare oltre, sennò rimane schematizzata e fissa, perde di qualsiasi valore. Come è successo al padre dell’italiano, che ha schematizzato questa lingua che era ed è così potente da dover essere la lingua saputa in tutto il mondo; una lingua che se ci pensi ha tutte le vocali, dal nord alla Sicilia, tralasciando solo un po’ la Sardegna! Nella scrittura si è così persa la ricchezza timbrica che le mantiene vive, le lingue. L’italiano poteva essere potente, di più dell’inglese, che in fondo è banale. Penso che tutti gli albanesi abbiano imparato l’italiano facendo una traduzione orale di ciò che sentivano.

Robert, io mi ricordo di te in giro per Ferrara, in biblioteca Ariostea a studiare spartiti o fuori dall’enoteca al Brindisi, dove hai lavorato per anni come cameriere. Anche se non ti conosco bene, mi sembri diverso da allora, come se qualcosa in te fosse cambiato…

Tutti abbiamo delle sovrastrutture, ce le avevo anche io. Io negli ultimi due, tre anni ho voluto togliere dalla mia vita tutti i vizi che appartenevano all’ego, con l’unica volontà di cercare di ascoltare con le proprie orecchie, osservare fino in fondo tutto, togliendo il giudizio e il pregiudizio. È solo allora che l’uomo trova la natura, perché ritorna natura. Non è una scelta voluta per diventare artista, per diventare mestierante. Anche perché se e quando diventerò musicista non suonerò più. Bisogna solo cercare di diventare dei canali, diventare un tipo di canale perché tanto lo senti quando sei in contraddizione con te stesso. A me succedeva quando studiavo musica classica e analizzavo le armonie, capitava che un po’ mi atteggiassi. Poi ho capito che dovevo uscire da tutto questo. È per questo che con il gruppo non seguiamo dei generi, come il jazz o la classica. Abbiamo scelto fin da subito una direzione diversa: Marcel (Lesko, poeta e regista del gruppo) crea suoni lunghissimi con l’hammond, l’attrice (Magda Saba) non è più un’attrice ma indossa archetipi. E il pubblico che è lì, che è parte, sente quando c’è la volontà di prendere un piano rispetto a un altro strumento. Nel jazz si cerca invece di soddisfare solo le proprie aspettative, i propri risultati. Quello che facciamo noi è emozionante perché è un rituale. Si piange anche. È un rito che quando faccio i concerti con il pianoforte non posso fare, appunto perché sono da solo! Interessanti sono anche gli strumenti che utilizziamo, proprio perché sono scelti tutti da noi, anzi, a volte li costruiamo anche! Non c’è la chitarra, ma l’arpa. Non c’è la batteria, ma ci sono i timpani ad orchestra, che ricordano dei suoni più arcaici. Il piano c’è ma è suonato poco, lo usiamo giusto da ponte, da respiro tra un brano e l’altro o per accogliere i partecipanti. Tanti musicisti si bloccano già con la scelta del loro strumento; possono far filtrare lo stesso le emozioni, ma non saranno così dirette come potrebbero essere con il giusto strumento.

Sarà che sei fresco di spettacolo col gruppo, ma dalle tue parole sembra quasi che adesso ti interessi di più il lavoro con gli Aion Teater piuttosto che il tuo progetto solista.

Si vedrà. Dicevano una volta i vecchi: ‘ogni cosa viene per il bene’. Tu devi essere filtro e dare, il resto viene da sé. Così penso usciranno quando sarà ora. Mi piace un aforisma di Marcel che dice: ‘l’unica certezza è il mistero’. Forse siamo troppo pieni di desideri da alimentare, e questi ci impediscono di ascoltare noi stessi. Anche la visione che abbiamo delle cose, le stesse letture, gli stessi ascolti… tutto questo impedisce il flusso. Spesso penso ai pellerossa, che cambiavano nome ad ogni evoluzione. È questo che dobbiamo condividere, la nostra evoluzione, ed ascoltare il momento, solo così non ci si ferma all’intelletto, alle cose da comprare, al prodotto da vendere. In un certo senso, se assecondiamo noi stessi, tutto diventa una autoesclusione, ovvero eliminiamo già da noi ciò che ci è superfluo.

Io purtroppo non sono mai riuscita a vederti dal vivo, ma tutti quelli che hanno assistito a un tuo spettacolo – anche da solista, al piano – parlano di pura magia…

In realtà, l’azione di mettere le dita nelle corde che ci sono dentro a un piano è già stata fatta e rifatta nel ‘900; lo facevano per rompere col passato, per creare un prima e un dopo. Io invece lo volevo fare per condividere e trasformare la musica con l’archetto, esclamando io stesso ‘ma che suono pazzesco che viene fuori!’. Infatti, in questo modo si crea un suono che viene da lontano e che usa la cassa del piano per amplificarsi. L’archetto è tipico negli strumenti folkloristici persiani, il suo utilizzo caratterizza in maniera più timbrica il suono. Tutto nella vita è ritmo, specialmente quello cardiaco. Il ritmo del cuore è importante, praticamente tutti i generi attuali non vanno al ritmo del cuore, che non è affatto regolare. Prova a metterti la mano sul petto e dimmi se va regolare, prova!

(avvicino la mano al cuore) Ora provo! No, hai ragione Robert, non va affatto a un ritmo da metronomo.

Ecco, non è regolare, anzi, è tutto irregolare e non c’è nessun genere in Italia che mantenga questo tempo. Il tun tun tun della discoteca vuole essere un rituale, la pizzica nel suo ta ta ta tà ta ta ta tà (battendo le mani sulle gambe dandone il ritmo) è circolare. In tutto questo il corpo non sa più come muoversi, la mente dice al corpo ‘muoviti!’, ma non è quello del tuo cuore. Questi sono esempi, ma tutte le musiche esistenti sono funzionali solo al passo della danza, e tradiscono il cuore. Con gli Aion Teater è diverso, con loro si è nel folklore, si vive nell’archetipo. Se ne può accorgere di più il pubblico quando qualcosa accade lì nello spettacolo, se ne ha voglia e desiderio. Qualcosa si trasforma e si crea una forma di respiro collettivo. Siamo collegati tra di noi e il pubblico con noi, quando cambia il mio respiro cambia anche il loro, perché siamo in relazione. Dalla razionalizzazione apportata dai Greci purtroppo il mondo vive di una luce riflessa. Dio siamo noi qui, ma ci vuole tempo per capirlo…

È stato un piacere Robert, ho scoperto tante cose di te che non sapevo.

(sorride) Anche per me è stato un piacere… scoprirle.

5 Commenti

  1. Matteo pazzi scrive:

    Molto interessante

  2. Giuliano malaguti scrive:

    mi piace sapere che dall’acquedotto parta questa acqua fresca un’estate di bambini ancora curiosi e puri

  3. Emanuela Bassan scrive:

    Bell’articolo e belle foto. E’ sempre interessante incontrare o leggere di persone che vengono da altre culture, con un bagaglio umano e culturale diverso dal nostro, c’è sempre da imparare.

  4. adino rossi scrive:

    Albania terre di mille sorgenti,terra di Gheni e altri sognatori…

  5. Fabio scrive:

    Robert Bisha è un artista straordinario di importanza mondiale e presto ne sentiremo ancora parlare. Comunque dal vivo è incredibile, magico.

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