«Ho conosciuto i Sigur Rós grazie a Jimmy Page, il chitarrista dei Led Zeppelin. Lui in alcuni pezzi suonava La chitarra con l’archetto di violino, ad esempio in “Dazed and confused”, ma anche in “How many more times”. Scoprire questa tecnica mi ha sorpreso e ho cercato quali altri gruppi la utilizzassero. Ho trovato i Sigur Rós e ho cominciato ad ascoltarli, mi sono piaciuti da subito». Marco ha diciannove anni e il concerto che si è svolto ieri sera in piazza Castello, a Ferrara, è il primo grande live della sua vita. Abita nella periferia milanese, ha appena concluso gli esami di maturità e si appresta al grande salto verso il mondo universitario. Non è ancora detta l’ultima parola, ma molto probabilmente si iscriverà a Scienze dei beni culturali. L’estate 2013 resterà nei suoi ricordi come un limbo sicuramente afoso, possibilmente proficuo, significativo. Un limbo carico di stimoli e suggestioni, esperienze. La prima vacanza con gli amici a Cesenatico, il primo viaggio da solo, il concertone incastonato nel mezzo come una gemma preziosa.

«Non è la prima volta che visito Ferrara, ci ero già venuto con la scuola. Questo posto mi piace tantissimo, perché più che una città sembra un paesone. Sono arrivato da un paio di giorni, mi sembra che qui tutti si conoscano. Di Ferrara sotto le stelle avevo già sentito parlare, avevo guardato i programmi delle scorse edizioni e mi sembra che contino sempre dei grandi artisti. L’hanno scorso hanno suonato i Kasabian e avrei voluto venire». Marco suona la chitarra in un gruppo che si chiama Herock. Ascolta blues anni Sessanta e rock & roll, Pink Floyd e Rolling Stones, Jafferson Airplane, Eric Clapton. Grandi classici che scoperti all’età giusta funzionano come chiavi pass partout: aprono le porte di infiniti universi musicali paralleli. E l’universo dei Sigur Rós, trio islandese famoso per le sonorità rarefatte e distorte, delicatissime, è tra questi: «l’atmosfera creata dalla canzoni dei Sigur Rós è straordinaria, difficile da descrivere». E per non perdere una vibrazione di quell’atmosfera, Marco il concerto se l’è goduto tutto da sotto il palco, da solo, a quindici metri dai musicisti.

La puntata ferrarese non è stata l’unica data italiana del gruppo, ma ha costituito comunque un sold out annunciato, senza se e senza ma. Sebbene album come “Von” e “Ágætis Byrjun” non abbiano mai raggiunto la platea del main stream, negli anni la formazione di Reykjavík ha saputo raccogliere attorno a sé un solido e diffuso pubblico di estimatori. Oltre 5mila persone gremivano la piazza, affaticate e sudate, non si muoveva un filo d’aria. Gli aficionados della rassegna cercavano conforto scambiandosi caritatevoli bottiglioni di acqua calda, passandosi volantini pubblicitari per sventolarsi in faccia un alito di vita. E mentre gli ascoltatori più anziani, fan non esattamente di primo pelo, uscivano stremati dall’esibizione – il commento più gettonato: «avevo dimenticato quanto fosse umida Ferrara» – Marco ammette senza pudore che se il gruppo avesse continuato a suonare per un’altra ora e mezza sarebbe stato contento. Avrebbe retto senza problemi, «anche se un tizio vicino a me è svenuto ancora prima che i musicisti cominciassero a suonare». I Sigur Ros evidentemente a suonare in condizioni climatiche estreme sono abituati, se dal freddo delle loro città natali sono riusciti a inserire il capoluogo estense nella topten delle loro mete privilegiate. Il concerto in faccia al Castello non è stato un debutto per loro, ma un felice ritorno.

Per l’estate 2013 la scaletta (rimasta top secret fino all’ultimo) è stata delle più semplici, prevedibili ed efficaci: hit come “Hoppípolla” e “Glósoli” si sono alternate a brani storici ma meno conosciuti – la carriera della band è quasi ventennale, il repertorio vastissimo – e a pezzi più recenti tratti da “Kveikur”, settimo e ultimo album, uscito solo pochi mesi fa. «Il crescendo iniziale di Glósóli è stata la parte che mi è piaciuta di più, strepitoso, assieme all’entrata della batteria in Popplagið, ma ho apprezzato molto anche le canzoni del nuovo album, più elettroniche e dure – commenta Marco, a concerto concluso -. Il loro stile è cambiato molto col tempo ma credo che questo non sia né un vantaggio né uno svantaggio. Possono mescolare in una stessa serata le composizioni più malinconiche, dolci e tranquille, quelle che inizialmente li hanno reso famosi, a pezzi più ritmati, energici. Il risultato è bello, un alternarsi di emozioni diverse». Oltre alla musica, cos’ha la colpito di più dell’evento? «Mi è piaciuto lo switch off finale. Il chitarrista se n’è andato dal palco dopo aver dato l’ultimo colpo di archetto al suo strumento, lasciato acceso e vicino alle casse. Il feedback ha riempito lo spazio lasciato vuoto dai musicisti. Nell’esatto momento in cui un tecnico staccava il jack della presa e il rumore si è interrotto, nel maxischermo è stato proiettata quella specie di linea strana che compare quando si spengono i televisori. È stato come se avessero spento lo spettacolo».

Marco tornerà domenica a casa propria, nel milanese, con un piccolo obbligatorio feticcio – la maglietta di “Kveikur” – e un rimpianto: «i musicisti tiravano al pubblico i fogli con la scaletta, e uno sono riuscito a prenderlo. A un certo punto il batterista ha lanciato verso le prime file anche le bacchette, una mi è passata a fianco ma non sono riuscito a prenderla al volo». Chi ha seguito il concerto dalle retrovie, schiacciato sui sanpietrini dall’afa penetrante, potrebbe a ragione pensare: «beata gioventù».

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