Pronunciare la parola “Superbowl” in Italia significa nella maggior parte dei casi evocare uno degli stereotipi più significativi della cultura americana, se non proprio derubricare la questione tra le americanate più popolari al mondo: l’evento sportivo globale, le cheerleaders, gli spettacoli di metà partita pieni di star del pop, le grigliate, gli hot dog e i fiumi di birra. Non a caso di fronte ai quei servizi di telegiornale triti e ritriti sui costi record di uno spot pubblicitario durante il Superbowl, mio padre soleva liquidare la questione dicendo che “’i americani i xé tutti mati”. Certo, un po’ matti bisogna esserlo per giocare a football americano, viste le botte che si rimediano durante una partita; a maggior ragione in Italia, dove questa disciplina non può certo contare su ingaggi milionari o su pubblici oceanici. Eppure non è parso per nulla una follia pensare di giocare un Superbowl italiano a Ferrara, considerato che proprio dentro le mura estensi è nata nel 1979 la squadra delle Aquile, una delle realtà pionieristiche del football americano tricolore. La finalissima del campionato IFL (Italian Football League) è stata giocata il 6 luglio dentro il vecchio Paolo Mazza, luogo di antiche imprese di football inteso all’europea. Lì, per una sera, i metri sono diventati iarde e i punti sono stati chiamati touchdown.

È stato un successo? Decisamente sì, nonostante la spietata concorrenza in contemporanea di Notte Rosa e concerto della PFM in piazza Castello. C’era tutto il necessario per tentare di replicare l’enormità dell’omologo evento americano: l’inno statunitense cantato con tanto di accompagnamento di chitarra elettrica, i tifosi schierati su due lati diversi della tribuna, la musica assordante a ogni punto segnato, gli arbitri con la maglia a strisce che potrebbero essere confusi con i commessi di Foot Locker (ma è l’esatto contrario), le telecamere a inquadrare ogni dettaglio e il maxischermo a riprodurlo fedelmente in diretta. Solo lo show di metà partita non ha riservato una di quelle produzioni titaniche in stile Usa, fatte nella migliore delle ipotesi di un concerto di qualche star del pop e nella peggiore di Justin Timberlake che crea un incidente storico scoprendo una tetta a Janet Jackson in diretta tv planetaria. Protagonista al di sopra di tutto il resto la palla ovale, oggetto quasi mitologico al centro di sceneggiature cinematografiche più o meno felici: giusto per citarne alcune, Quella Sporca Ultima Meta, Ogni Maledetta Domenica, Jerry Maguire e una popolare serie chiamata Friday Night Lights che in Italia non si è filato quasi nessuno. Ma anche di declinazioni triviali come “Uomo colpito da una pallonata”, e qui la citazione è talmente popolare da non dover richiedere spiegazioni.

A sfidarsi in campo c’erano due squadre alquanto diverse per storia e blasone: da una parte i superfavoriti Panthers Parma, dall’altra i più classici degli underdogs – sfavoriti, per dirla all’italiana – i Seamen Milano. Il divario tecnico e di titoli non impedisce alle due squadre di essere accomunate dal fatto di disporre di storie affascinanti da raccontare. I Panthers, a esempio, possono vantarsi di avere come presidente onorario nientemeno che John Grisham: il popolare scrittore americano ha infatti scelto di ambientare a Parma parte del suo romanzo “Playing for Pizza” (tradotto in Italia con il titolo “Il Professionista”) dopo aver assistito proprio a una partita della squadra di coach Papoccia mentre si trovava nel nostro paese. Pensate a cosa sarebbe potuto succedere se avesse assistito a una partita della Spal. Meglio non pensarci. Divagazioni a parte, anche Milano ha la sua storia da raccontare, anzi, ne ha due: la prima riguarda il luogo in cui i Seamen disputano le loro partite interne, quel velodromo Vigorelli immortalato nelle cronache sportive degli anni Cinquanta e Sessanta grazie ai grandi eventi del ciclismo su pista. Al Vigorelli Fausto Coppi stabilì un primato mondiale dell’ora e tra le altre cose nel 1965 vi si esibirono quattro sbarbati conosciuti come i Beatles. Dalla parte di Milano non solo l’archeologia sportiva, ma anche l’orgoglio di aver portato in Italia il primo coach con trascorsi NFL: Joe Avezzano, già vincitore di un Superbowl (americano) con i Dallas Cowboys e autorità riconosciuta dall’altra parte dell’Atlantico. Purtroppo, e qui il suo connazionale Grisham c’entra nulla, la sua esperienza italiana ha assunto toni drammatici: coach Avezzano è morto il 5 aprile 2012, a 68 anni, durante una corsa sul tapis-roulant. I Seamen non sono riusciti nell’intento di dedicargli la vittoria finale nel Superbowl ferrarese: Parma ha rispettato il pronostico imponendosi 51 a 28 dopo tre ore complessive di battaglia, conquistando il quarto titolo italiano consecutivo. Di fatto l’equilibrio è durato solo un quarto di gioco, poi i Panthers hanno preso il largo sfruttando al meglio le qualità dei suoi uomini d’attacco. Nonostante l’evidente rilevanza del contributo dei (pochi) giocatori statunitensi in campo, il premio di migliore in campo (MVP, Most Valuable Player) è andato a un italiano, Alessandro Malpeli Avalli, anni ventitre da compiere il prossimo dieci agosto, di ruolo running back. Per i profani il running back è il tizio che si incarica di prendere in consegna il pallone e portarlo avanti di corsa, evitando la caccia spietata dei difensori, di norma uomini estremamente più corpulenti della preda in questione.

Non ho i mezzi per dire se il Superbowl abbia effettivamente contribuito a incuriosire nuovi potenziali appassionati: di certo al momento della consegna del riepilogo statistico dell’incontro – rigorosamente in lingua inglese – molte sopracciglia si sono alzate dalle parti della tribuna stampa, a indicare una comprensione limitata del fenomeno, almeno per quanto concerne il lato tecnico. Di sicuro qualcuno in più avrà notato che anche a Ferrara il football americano si pratica e con profitto: prima della gara sul prato del Paolo Mazza hanno sfilato quasi trecento tra giocatori ed ex giocatori delle Aquile, la squadra di Ferrara che quest’anno ha conquistato il titolo italiano della disciplina a nove giocatori. In campo più di trent’anni di storia, a testimonianza di un impegno costante e di una passione genuina che a quanto pare continua a crescere. Il Superbowl vero e proprio è stato solo l’atto finale di una due giorni vissuta a 360 gradi dalla città: a partire dal venerdì precedente si è giocato l’equivalente femminile al campo di via Veneziani, si è tenuto un convegno di specialisti sulla commozione cerebrale (l’infortunio più frequente nel football americano), si è potuto mangiare e bere nel villaggio di piazza Acquedotto e si è potuto sperimentare la pratica del football in piazza municipale, grazie anche alla collaborazione delle stesse Aquile. In altre parole Ferrara ha dimostrato ancora una volta, se ce ne fosse stato bisogno, di poter fare non solo da palcoscenico per eventi importanti, ma anche di potervi contribuire attivamente con i suoi attori. Non è poco. Se poi ci aggiungiamo che nessun spettatore ha scelto di tenersi come souvenir i palloni ovali calciati in tribuna, si può dire che si è trattato di un vero successo. Il mio unico rammarico è di non essere riuscito a procurarmi una di quelle manone di spugna giganti con l’indice alzato, l’avrei conservata con piacere.

Lascia un commento

Prima di lasciare il tuo commento, ricordati di respirare. Non saranno ospitati negli spazi di discussione termini che non seguano le norme di rispetto e buona educazione. Post con contenuti violenti, scurrili o aggressivi non verranno pubblicati: in fondo, basta un pizzico di buon senso. Grazie.