«Indossare il velo è stata una scelta egoistica, mi ha aiutato a parlare in modo diverso, a comportarmi in modo diverso, a focalizzare. Decisi di coprirmi il capo da un giorno all’altro. I parenti, soprattutto mia madre, furono fortemente choccati. Lo feci, in verità, non tanto per aderire al precetto islamico quanto per supportare me stessa nel cambiamento. In Italia andare in giro con l’hijab rappresenta un biglietto da visita molto forte. Non basta avere coraggio, serve coerenza, perché ti pone immediatamente sotto i riflettori. Con il velo addosso non sono più solamente una donna, sono evidentemente una musulmana. Se in macchina commetto un’effrazione le persone non pensano “guarda quella stupida cosa fa!”, pensano “guarda quella musulmana cosa fa!”. L’hijab implica l’assunzione di precise responsabilità, altrimenti si rischia di diventare un cattivo esempio».

A parlare è Cinzia Aisha Rodolfi, donna minuta e sorridente, una “milanese testona” come si definisce lei stessa, invitata a Ferrara per presentare il libro “Dalle sfilate di moda al velo”. Durante l’evento – svoltosi in giugno ed organizzato al Barco dall’associazione Giovani musulmani ferraresi – Cinzia Aisha ha avuto modo di raccontare il proprio particolarissimo percorso di italiana convertita all’islam, un percorso che comincia negli showroom di Krizia e Valentino jeans, attraversa la professionalità cosmopolita e frenetica delle assistenti turistiche e approda inaspettatamente al Corano. Complice un viaggio nell’entroterra tunisino e l’incontro con l’attuale marito, anche se – come la scrittrice ha voluto più volte sottolineare – «il matrimonio non è legato alle conversione, la quale è stata il frutto di una ricerca spirituale lunga e complessa, cominciata diversi anni dopo aver pronunciato il fatidico sì».

Ad ascoltare questi racconti c’era un nutrito pubblico di musulmani ferraresi: padri di famiglia, adolescenti in braghe corte, ragazzi immigrati l’anno scorso assieme a coetanei nati e cresciuti all’interno delle mura estensi. Tantissime signore e giovinette con il capo coperto da fazzoletti variopinti, le gonne lunghe fino alle caviglie. Sotto l’orlo delle sottane tradizionali capitava di intravedere qualche paia di Converse All Star. La serata è stata dedicata soprattutto a loro, alle donne. Focus dell’incontro erano proprio gli stereotipi associativi alla presenza femminile musulmana in Italia.

Foto di Lucia Ligniti

«Essere musulmani a Ferrara è sicuramente più difficile per una ragazza che per un ragazzo» racconta Ghizlane, trenta anni, venti dei quali passati in Italia, attualmente impiegata come educatrice in un asilo nido. Originaria del Marocco, cresciuta al Barco, anche per lei la scelta di indossare il velo è stata frutto di attenta ponderazione: «era tanto che desideravo indossare l’hijab ma avevo paura di non essere accettata, di essere esclusa anche dal gruppo degli amici. Quando mi sono decisa era verso Natale, ho pensato: bene, incontrerò degli ostacoli ma li affronterò. Mi sono preparata psicologicamente approfittando delle giornate di festa e sono tornata al lavoro col velo. Grazie a Dio non ci sono state reazioni negative, né da parte dei colleghi, né da parte dei genitori, nemmeno da parte dei bambini. Sono stata felice. Mi conoscevano da tanto tempo, il loro sguardo su di me non è cambiato». Diversa la situazione quando invece di interfacciarsi all’ambiente professionale – un micromondo dove le persone hanno la possibilità di confrontarsi giorno dopo giorno – la ragazza deve rapportarsi con l’ambiente cittadino: «c’è ancora molta diffidenza e altrettanta cattiva informazione. I commenti che si sentono sono sempre gli stessi: “poverina,  è sottomessa”, “sei così giovane, ma chi te l’ha fatto fare?”, “se vuoi mettere il velo lo fai al tuo Paese, non qui”. I ragazzi musulmani da questo punto di vista hanno meno problemi, sono più liberi».

Anche Sara, che ha 21 anni e studia scienze dell’educazione, è dello stesso avviso: «se sei donna e sei musulmana hai gli occhi di tutti addosso, per gli uomini è diverso». Originaria del Marocco, era una bambina quando la sua famiglia si è trasferita a Ferrara. Della città e dei suoi abitanti è contenta: «qui si vive benissimo, i servizi sono buoni. Ogni tanto capita che, in certi uffici, gli impiegati con me si comportino diversamente da come si comportano con le altre persone. Usano un tono particolare, fanno dei gesti con le mani per farsi capire. Quando si accorgono che parlo la loro stessa lingua sorridono». Le battute sul velo non mancano mai: «spesso mi chiedono come faccio a restare coperta con questo caldo, qualcuno davanti all’hijab sbuffa, dipende dal carattere. Quando mi dicono che al posto mio morirebbero a causa dell’afa rispondo che d’estate nemmeno le persone svestite sentono freddo». A proposito del pregiudizio che vorrebbe le donne musulmane sottomesse ai padri e ai mariti, commenta: «è un pensiero abbastanza comune che spesso, soprattutto agli sportelli, si traduce in atteggiamenti di maggiore tenerezza. Viene dato per scontato il fatto che una ragazza velata viva in modo subalterno, e quindi la si aiuta di più».

La questione del velo non è ovviamente l’unica pratica confessionale che differenzia la femminilità occidentale dalla femminilità islamica, e rispetto ad altre prassi religiose maggiormente distanti dalla quotidianità italiana (come ad esempio il divieto di bere alcolici) l’adozione dell’hijab potrebbe essere considerata una caratterizzazione culturale di importanza marginale. Ricordando come fino a qualche decennio fa anche le donne italiane erano abituate a uscire di casa solo a capo coperto, l’attenzione attribuita dal discorso comune al velo islamico può apparire spropositata. Eppure è proprio su quel ritaglio di stoffa che sembra svolgersi buona parte della partita giocata da autoctoni e immigrati sul tema dell’integrazione possibile o impossibile.

Per Cinzia Aisha la rilevanza di questo argomento è centrale: «il velo oggi è parte di me, niente potrebbe convincermi a togliermelo dalla testa, e non è vero che col passare degli anni ci si abitua a portarlo e non lo si percepisce più. L’hijab si sente sempre: è il nostro rapporto più stretto con Dio, è manifestazione di fede. Non possiamo dimenticarlo, come non possiamo dimenticare di essere musulmane. Ho amiche cattoliche molto credenti che senza turbamento alcuno vanno in spiaggia in costume da bagno. Per me il pudore è arrivato quando è cresciuta la fede».

Alla presentazione del libro hanno partecipato anche alcune donne non musulmane, che hanno approfittato dello spazio riservato alle domande aperte per cercare di capire le dinamiche interne a una relazione di coppia avvertita spesso molto distante dalla loro consuetudine. «Cosa comporta, nella vita di tutti i giorni, avere una legge che determina l’inferiorità della moglie nei confronti del marito?», ha domandato una signora. «Inizialmente avevo anche io diverse perplessità in merito – ha risposto Cinzia Aisha -. Studiando l’islam ho scoperto i tanti diritti che questa religione riserva alle donne, le quali ad esempio hanno il diritto ad essere mantenute dal marito. Se vogliono sono libere di trovarsi un’occupazione ma non sono obbligate a versare i soldi guadagnati per la famiglia, il sostentamento del nucleo familiare spetta all’uomo».

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