Tredici, numero fortunato. E l’High Foundation terminato ieri è arrivato alla sua tredicesima edizione. Dal venti giugno al tre luglio il Parco Urbano è diventato un po’ il centro della cultura black. Perché i ragazzi qui sono questo. Credono, vivono ed esprimono se stessi attraverso la cultura legata alla musica Black: soul, r’n’b, rap, reggae, funk. Yo. Ormai una consolidata abitudine nell’estate di Ferrara.
Aspettative? Nessuna. Dj Afghan, sommo maestro delle cerimonie e organizzatore instancabile, non si aspettava nulla dal festival, come sempre, se non creare l’incontro tra persone, costrette ormai dai “tempi” a vivere in un limbo di incomunicabilità e isolamento, in nome della musica.
Un impegno sociale del festival. Un raduno comunitario. La colonna sonora, idealmente, della loro vita, quella di chi vive secondo uno stile di vita hip hop messa a disposizione di tutti, come punto di incontro. Comunicare tramite e grazie ad essa.

Non è soltato un appuntamento giovanile per adolescenti in fase “quanto spacca Bob Marley”: è catechesi musicale. Arriva gente da tutte le parti per la “Funda”, proprio davanti al Camelot Cafè. Gente di ogni dove, non parlo solo di chi ci va per fare serata. Grazie all’etichetta del festival, alle molte amicizie e collaborazioni durante gli anni, il palco ogni sera ospita artisti di tutta Italia e non solo, (ecco che butta la briscola) del mondo.
Ad aprire la prima serata ad esempio c’è stato Mc Navigator, se vi fidate di me un Mc navigato. Ospite anche Skarra Mucci, direttamente dalla Jamaica, più black culture di così.

Foto di Giulia Paratelli

Un salto all’High Foundation lo si fa sempre. Vuoi perché il Parco Urbano la sera d’estate. Vuoi perché tanto vale stare lì a passare una serata che comunque avresti fatto cerchio davanti al Duomo e ti ascolti pure un po’ di musica, o fai un giro alle bancarelle, o nella piscinona gonfiabile che hanno messo quest’anno. Vuoi che il soul food migliore rimarrà sempre la piadina… Vuoi che ascolti black music e vivi black… oppure ti si è rotto il Ghetto Blaster.

Appena arrivi ti trovi writers con le loro bombolette Montana in mano, al lavoro su incredibili opere d’arte figurative moderne: si rimane sempre sbalorditi da quello che uno spray nero può fare. Questo porta alla riflessione per me alquanto logica che effettivamente la cultura black, aldilà dell’opalescente figura dell’artista “genio” fuori da schemi e strutture ma alla fine sempre trasformato in bestia borghese, porti arte dalle strade e arte nelle strade e arte di strada. La forma più pura di concetto creativo e della libertà di espressione dell’individuo.

Ora, non voglio dire che tutti quelli che vanno alla Funda consapevolmente apprezzino questo aspetto. Anche perché le bancarelle sennò non venderebbero tutti quei bong (stanno benissimo in casa come vasi). Il dancefloor inizia a riempirsi intorno alle undici di sera, quando ormai le crew si sono acclimatate e hanno preso istintivamente confidenza con le panche e i tavoli. Ritmo tribale fa pulsare a tempo le vene di ragazzi di ogni età. Un’aria metafisica tra i fumi della vernice, i fumi della piastra per le salsicce, lo schiumare della spinatrice, i fumi, la musica nativa bambajambas.
E tutti sono tranquilli e si parla senza problemi (il mefistofelico cerchio ferrarese dov’è?).

Io e Giulia scappiamo dopo che Nabu treccine africane le fa fare un servizio fotografico alla sua bancarella perché deve aggiornare il sito internet.
E vuole le foto entro le undici della mattina dopo chè l’aggiornamento è previsto per mezzogiorno. Compenso un braccialetto.
Se non ti piace la black culture, che ti devo dire. Manco a me fa impazzire. Ma c’è sempre da imparare.

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