Chi si ricorda la vecchia pubblicità della Pirelli che mostrava un giovane e aitante Carl Lewis arrampicarsi, a piedi nudi, fino in cima alla Statua della Libertà? “La potenza è nulla senza controllo”, tuonava in chiusura la voce fuori campo, e io che all’epoca avevo sì e no dieci anni pensavo: “urca!”.  Se ora dovessi sintetizzare in una frase cosa ho imparato, assistendo per la prima volta ad un allenamento di parkour, citerei lo stesso identico slogan (con lo stesso meravigliato “urca!” finale).

Prima di incontrare i Flow Lines avevo un’idea abbastanza vaga di cosa fosse questa disciplina, la riferivo semplicemente all’utilizzo creativo dell’arredo urbano, inteso come una palestra a cielo aperto dove allenarsi in modo ganzo. L’associavo – complice probabilmente Besson e “L’odio” di Kassovitz – a tutta quella serie di manifestazioni culturali underground orbitanti attorno al circuito semantico delle banlieue parigine: minorenni acrobatici, street art, hip hop all’europea, chiacchiere in verlan, sgangherata delinquenza adolescenziale. E poi? Poi ho conosciuto quattro ragazzi,  ferraresi più o meno, che si allenano tutte le domeniche nei pressi dello studentato di via Putinati, che hanno completamente rovesciato le mie vaghissime competenze sul tema.

Marcello, Giovanni, Vadim e Davide – Flow Lines è il nome che hanno scelto per il gruppo – mi hanno edotto sull’argomento partendo proprio dall’abc: «parkour significa tracciare un percorso nel modo più lineare possibile,  spostarsi da un punto A fino ad un punto B senza aggirare gli ostacoli ma, nei limiti di quelle che sono le proprie capacità fisiche, superandoli. A differenza del free running, disciplina con la quale viene spesso confuso, il parkour non ricerca la spettacolarità: niente salti mortali, niente effetti speciali. Il primo obiettivo è l’efficienza». Dunque pochi fronzoli, si bada alla sostanza: «il parkour è stato inventato da David Belle, pompiere francese, sul finire degli anni Novanta. Belle lo creò ispirandosi al durissimo addestramento militare di Georges Hébert, insegnante di educazione fisica, ufficiale di marina durante la prima guerra mondiale». Questa proprio non me l’aspettavo. Altro che sottocultura popolare, fughe dalla polizia, scorribande sui tetti! Cercando on line qualche notizia su Hébert scopro che, impiegato di stanza in Martinica, egli sviluppò il suo sistema di esercizi basandosi sull’osservazione delle flessuose e prestanti muscolature indigene, convinto che solo sviluppando movimenti naturali si potesse concretamente migliorare da un punto di vista energetico e morale. Morale?  Sì, morale. Perché Hébert – che nel 1902 si distinse, a Saint Pierre, per aver coordinato il soccorso di centinaia di persone a seguito di una catastrofica eruzione vulcanica – non credeva nella competizione sportiva fine a sé stessa, il suo motto era: “essere forti per essere utili”.

Foto di Astrid Nielsen

Questi possono sembrare discorsi fuori dal tempo, ma sono proprio i ragazzi a confermarmi quanto il parkour oltrepassi la semplice pratica sportiva e sia d’aiuto nella vita di tutti i giorni. «In questa disciplina non si improvvisa niente – mi ha spiegato Vadim, originario della Moldavia -. Prima di affrontare un salto impegnativo si prova e riprova lo stesso movimento innumerevoli volte, si affronta la sfida gradualmente, inizialmente da altezze minori. Si sblocca un’azione, si tenta per la prima volta qualcosa di mai fatto prima solo quando ci si sente pronti, sicuri delle abilità che si è provveduto pazientemente a incrementare. Lavorare in questo modo permette, nel quotidiano, di acquistare più sicurezza in sé stessi e nelle proprie potenzialità. Sia a scuola che al lavoro, o in famiglia, è inevitabile trovarsi di fronte a delle difficoltà. Il parkour insegna a non lasciarsi spaventare, a non aggirare gli ostacoli ma a superarli grazie alla propria tenacia, con fiducia. Si trasforma il problema in un appoggio, uno strumento per trovare ulteriore slancio in avanti».

Più chiacchiero con i tracciatori (così si chiamano in gergo tecnico i praticanti parkour) più mi incuriosisco. Cosa li avrà spinti verso questa disciplina, in Italia ancora poco diffusa? Le risposte sono diverse ma il filo condutture resta il web e in generale le nuove tecnologie: c’è chi l’ha conosciuta attraverso i videogiochi (lo storico “Prince of Persia”, per citare il più famoso), chi attraverso i video amatoriali caricati su Youtube, chi ha cominciato anni fa spronato da uno sparuto gruppo di pionieri ferraresi, che nel tempo però hanno abbandonato. Questo è il caso di Marcello, ventiseienne, il più “anziano” del gruppo: «per tanto tempo ho continuato a tracciare da solo. Per fortuna poi ho incontrato altri ragazzi decisi a intraprendere questa strada, e ora ci alleniamo assieme tutte le domeniche pomeriggio. Vorremmo creare una vera e propria associazione sportiva dilettantistica». Attualmente i Flow Lines insegnano in modo completamente libero e informale a un buon numero di principianti, hanno formato una “banda” di aspiranti tracciatori sia a Ferrara che a Cento (quest’ultima guidata dal giovanissimo Davide, appena diciottenne). Il loro obiettivo è dare continuità alla formazione, fare in modo che le nuove generazioni conoscano e apprendano il parkour, affiancare i neofiti e spiegare loro – come non ha mancato di sottolineare Giovanni – «la differenza tra improvvisare un salto in modo spericolato e tracciare».

L’ideale sarebbe trovare una palestra che ospitasse l’associazione durante l’inverno, in questo modo si potrebbero garantire gli allenamenti durante tutto l’arco dell’anno e dare agli interessati un punto di riferimento; «il contesto urbano resta imprescindibile: ci chiamiamo Flow Lines proprio in virtù del principio che il tracciatore dovrebbe muoversi attraverso la città come l’acqua nel fiume. Tuttavia poter contare su un ambiente al coperto sarebbe molto utile». In attesa che il progetto si concretizzi – io incrocio le dita e faccio il tifo -, chiunque volesse contattare il gruppo potrà trovare news, contatti e informazioni alla pagina Facebook Flowlines – ParkourFerrara. «Il parkour è veramente per tutti – è Giovanni a parlare -. Io prima giocavo a calcetto in serie A, facevo il portiere e avevo diversi chili in più di adesso. Mi sarebbe piaciuto tracciare ma mi chiedevo se ce l’avrei fatta. Quando in internet ho visto il filmato di un uomo di 120 chili che tracciava, correndo e saltando in modo incredibile, mi sono convinto. Se ce la fa lui ce la faccio anche io».

1 Commento

  1. Franco Colla scrive:

    Vi faccio i complimenti per i vostri articoli sempre affascinanti…e soprattutto per farmi scoprire tante cose che nemmeno immaginavo si praticassero nella nostra città ! 😉

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