Arrivano alla spicciolata che il cielo non è ancora rigonfio di pioggia. Le nuvole sono un manto color bianco sporco che strofina l’aria del primo pomeriggio. La visuale è appannata se si volge lo sguardo verso l’alto, ma agli occhi dei visitatori non pare interessare più di tanto. Il percorso, alcuni lo hanno letto su una guida, altri lo conoscono grazie al passaparola. In ogni caso, anche la rete è prodiga di informazioni. I turisti, fra i quali parecchi stranieri, allungano il passo nel vicolo del Gambone dando un’occhiata all’orologio. Attraversano il cancello e si riparano all’ombra sotto il porticato. Il giardino alla loro destra è spoglio del vecchio ciliegio. Il tempo trascorso ne ha fiaccato irrimediabilmente la tempra, al punto che un paio d’anni fa hanno deciso di piantarne uno nuovo. Il senso della fioritura, nel monastero di Sant’Antonio in Polesine, si lega a quello della pazienza e della preghiera. D’altronde «Ora et labora» è la formula latina secolare che regola la vita delle monache benedettine di clausura, che vi abitano dalla metà del duecento.

Il cartello con gli orari delle visite pomeridiane indica la riapertura alle 15.15. Mancano ancora pochi minuti, ma qualcuno dei turisti preme sul tasto a destra del portone. Il suono squillante del campanello sembra stridere con il silenzio di un luogo che trasuda antichità dalle sue pietre. Appena un istante e il volto di una monaca anziana fa capolino da dietro la grata. Poche istruzioni, pronunciate a voce bassa e risoluta, e il gruppuscolo può varcare la soglia. Il corridoio si schiude lasciandosi fuori un lieve scroscio di pioggia. La religiosa dalla carnagione chiara cammina con il passo deciso di chi vive il rigore della sua scelta, mentre comincia a illustrare l’area dell’edificio aperta al pubblico. Una turista americana chiede del chiostro interno. La suora l’accontenta aprendo le finestra che sporge sul giardino. Un autentico polmone verde si spalanca alla vista dei visitatori.

Clero e nobiltà s’intrecciano nella storia del monastero di Sant’Antonio in Polesine. «Ancora prima dell’anno Mille – si legge sul cartello di fronte all’ingresso – gli eremitani di Sant’Agostino costruirono il loro convento ceduto poi nel 1257 al marchese Azzo VII d’Este che ne fece dono alla figlia Beatrice, monaca benedettina». A confermarlo, anche la toponomastica di Ferrara, che dedica alla donna la strada che interseca via del Gambone. La storia del luogo ricorda anche le modifiche strutturali avvenute nel quattrocento e la suddivisione in due parti della chiesa interna. Quella esterna, in stile barocco, venne invece interamente trasformata nella metà del seicento. I secoli trascorsi sono pezzi di un mosaico che ricompongono il credo cristiano, declinandolo ciascuno in funzione delle proprie influenze artistiche.

Foto di Giacomo Brini

L’itinerario, intanto, prosegue spedito senza pause. Oltrepassa una porta per convergere nella sala del ‘coro delle monache’, che si affaccia sulle tre cappelle affrescate. «Quella centrale e più ampia – chiarisce la religiosa – è decorata con affreschi della scuola ferrarese. Le due laterali, di dimensioni minori, invece, sono opera della scuola di Giotto». In cima alle cappelle, a livello di quella posta nel mezzo, campeggia un architrave su cui poggia un grande crocifisso. La crocifissione è una tematica ricorrente negli affreschi sottostanti, che seguono comunque, da sinistra verso destra, le vicende biografiche conosciute della vita di Gesù. La narrazione grafica degli epigoni di Giotto esordisce sulle pareti della prima cappella, con alcuni momenti della sua infanzia. I volti di San Giuseppe, di Maria e del bambino sono ormai familiari alla monaca benedettina che assolve da tempo alla funzione di guida per i turisti. Eppure il suo sguardo sembra tradire l’emozione quando descrive le immagini del provvedimento di Erode e della strage degli innocenti. Meticolosamente commenta ogni dettaglio che a un occhio più superficiale magari sarebbe sfuggito. Ecco allora Maria con gli occhi chiusi che muore e, nella medesima raffigurazione, il suo alter ego, celebrato nella sua essenza di anima immortale. Non mancano inoltre particolari legati alla realizzazione degli affreschi. Come l’aggiunta successiva del quadro dell’eremita San Paolo. Oppure Maria Maddalena «dal viso dolce», rappresentata su un pilastro.

Gli affreschi che ornano la cappella centrale danno un profondo risalto al martirio dei santi. Ciascuno alle prese con la sua sofferenza, direttamente proporzionale alla propria fede, sono riconoscibili Sant’Antonio Abate, Santa Margherita di Antiochia, San Francesco d’Assisi, Sant’Agata, Sant’Onofrio, Sant’Ambrogio e Sant’Agostino. Dall’altro lato del muro un ritratto comprendente Sant’Anna, Maria e il bambino cattura l’attenzione della monaca. «Se la osservate – si rivolge al pubblico – vi susciterà l’impressione di una foto di famiglia».

L’arrivo all’ultima cappella segna il passaggio alla passione di Cristo. Un crescendo di pathos accompagna il bacio di Giuda e l’arrivo dei soldati romani. Artisti anonimi della scuola di Giotto che nell’apparente armonia di immagini statiche ne hanno però sviscerato una sorta di entropia. La sequenza illustra infatti la crudeltà di un’imboscata con – ulteriore dettaglio a margine – «San Pietro nell’atto di staccare un orecchio al primo nemico sotto tiro». Spazio poi all’umiliazione della corona di spine, alle offese del popolo, e a una crocifissione – forse nell’intenzione dell’autore dell’affresco – addirittura volontaria. «Gesù non si tira indietro e sale da solo la scala a pioli che lo conduce alla croce», commenta la religiosa l’immagine rappresentata sulla parete opposta. «Vicino a lui, le donne piangono con i propri occhi a mandorla, tratto caratteristico della scuola giottesca». L’ultimo atto del percorso pone l’accento sulla speranza cristiana nella resurrezione. «Per i morti le porte del paradiso erano sempre rimaste chiuse. In questo affresco, Gesù prende Adamo dal polso e lo porta verso la salvezza. Il diavolo, simbolo del peccato, in questa occasione, non viene raffigurato con sembianze umane, ma come una bestia destinata a essere schiacciata», conclude la monaca benedettina, le cui spiegazioni vengono talvolta interrotte dal suono del campanello e dall’accoglienza al prossimo turista.

I visitatori, durante il pomeriggio del sabato, avranno tempo fino alle 16.30. Dal lunedì al venerdì, l’orario della mattina va dalle 9.30 alle 11.30. Quello pomeridiano, invece, dalle 15.15 alle 17. Sabato mattina, infine, dalle 9.30 alle 11.30. Terminata la visita, le monache benedettine invitano il pubblico a rimanere ad ascoltare i canti.

Un’esperienza insolita e interessante, che se da un lato arricchisce il proprio bagaglio culturale, dall’altro pone riflessioni sulla condizione di chi ha consacrato la propria esistenza alla preghiera. E gioisce della bellezza di un’opera d’arte grazie al solo strumento della contemplazione.

2 Commenti

  1. Arch. lanfranco Viola scrive:

    desidero complimentarmi per l’articolo che bene raccontano l’atmosfera di quei luoghi.
    Mi auguro che altri analoghi reportage vengano pubblicati.

  2. Susanna Gavagna scrive:

    Ho letto soltanto adesso questo splendido articolo! Mi complimento con l’Autore! Ho appena visitato il Santo Monastero e la descrizione corrisponde perfettamente!

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