L’importanza del Parlare

29 Maggio 2012, un anno fa.

“In quello che ormai è diventato un panico controllato da dieci giorni a questa parte, ogni mattina, non so perché ho sentito la necessità di farmi la barba, forse perché ho sempre pensato che la barba non curata sia un segno dei giorni che passano, cioè ti da la cifra di quanto poco tempo puoi aver avuto nei giorni precedenti per prendere schiuma e rasoio. La barba del giorno prima o dei giorni prima ti da la cifra del ricordo delle giornate precedenti. Farmi la barba è stato un po’ come cancellare gli ultimi tre giorni e sperare in un giorno nuovo più positivo. Gli ultimi dieci giorni per la mia città sono stati difficili, sono stati da dimenticare, il terremoto che come un giudizio universale ha iniziato a tormentarci il 20 maggio non sembra darci pace, come se la terra debba farci pagare per qualche tremendo delitto nei suoi confronti, cosa per altro vera.  I soprusi, la rabbia, lo sfruttamento e tutto questo immenso tritarifiuti in cui da decine di anni abbiamo sprofondato la nostra terra è giunto forse ad un punto di non ritorno. Stiamo pagando e con gli interessi.  È il nostro Nono giorno di prigionia su questa terra che vuole sputarci via, ma noi ci attacchiamo con tutte le forze, non possiamo lasciarglielo fare, anche se ha ragione, non dobbiamo lasciarci abbattere, dobbiamo superare questa crisi e ritrovarci tra di noi, ritrovarci tra i nostri sentimenti, ritrovare i nostri sorrisi e provare ad andare avanti istante dopo istante, ogni giorno è un buon nuovo primo giorno, teniamo ciò che di utile abbiamo imparato, teniamo il sacrificio, l’abnegazione, il coraggio, la volontà ferrea di resistere, conserviamo l’impegno sociale che stiamo condividendo tra di noi, teniamo i sorrisi, gli abbracci, le confessioni notturne, non dobbiamo temere di aprirci tra di noi, nessuno è impenetrabile, nessuno è irraggiungibile, nessun uomo è un’isola, diceva John Donne.

Oggi, dopo essermi fatto la barba, mentre svariate scosse di assestamento mi ricordavano che c’è ancora qualcuno di ancora molto incazzato, ho deciso di fare le cose come tutti i giorni, colazione, giornale, chiacchiere, e ho pensato che il mio modo per reagire e per rendermi utile, oltre che indossare una maglietta di Superman, è riprendere a parlare, riprendere a connettermi, connetterci e a connettere persone diverse, di età diverse ma con la paura comune di essere vomitati via dalle nostre case.

Io non sono un eroe, non sono nemmeno particolarmente coraggioso, non sono un leader, ho paura del mare dove non tocco, e mi viene da vomitare solo a vedere il Katuun a Mirabilandia,sono uno come tanti, forse lievemente più empatico con il mondo, perché so, e ho capito, che se non condividiamo, se  non ci condividiamo, siamo destinati a perderci e allora gli altri, nell’accezione di qualsiasi cosa o qualsiasi persona che ci opprime, avranno irrimediabilmente vinto. Ma come tante persone che mi conoscono sostengono io sono un ottimista, o meglio diciamo che provo a seppellire nel più profondo possibile il mio pessimismo, e credo fermamente nel potere della parola, nelle persone e nel piccolo gesto salvifico che fa sperare. E credo che continuerò così, proverò a reagire sempre e comunque, a mio modo per carità, ascoltando le altre persone e provando e mettermi nei loro panni, provando a leggerli in me.

Perché, gente, pensandoci siamo tutti sulla stessa barca alla deriva, ci serve una vela, un timone e una direzione. La rotta non ci manca, la rotta è la speranza e la forza d’animo che sappiamo e dobbiamo tirare fuori proprio in questi momenti, proprio quando tutto sembra andare a quel paese, anzi proprio affanculo.

Ecco io non volevo essere retorico, ma forse lo sono stato, perdonatemi non era mia intenzione, sto cercando solo di ricollegare i fili di svariati pensieri che in questi giorni mi stanno affollando e affogando senza farmi respirare, ed ora, a quanto pare, sono tracimati.

Intorno a me sento risate di bimbi e rimbrotti di madri preoccupate, sento splendide analisi di vecchietti  improvvisati sismologici, sento le macchine alle mie spalle che proseguono normalmente la loro strada, le biciclette qui sulle mura scricchiolano davanti a me sulla ghiaia, un cagnetto annusa ogni anfratto di questa vecchia porta cittadina, c’è chi passeggia e ci sono gli uccelli che si scambiano le loro conversazioni segrete, chissà cosa si dicono tra l’altro, a tutto aggiungiamo alcuni insetti ronzanti, il ticchettio delle mie dita sui tasti del portatile e il mio respiro regolare, tutto sembra quasi impercettibilmente bloccato in un’ambra millenaria, nobile, fiera e stoica.

Non ho mai amato così tanto la mia città come in questi momenti, in questi momenti perfetti e inimitabili in cui capisci quanto dentro ti possono entrare due mura, un castello e alcune rovine, my city of ruins cantava qualcuno quasi dieci anni fa, ( dieci anni cazzo quanto passa il tempo), e ora forse per la prima volta capisco quelle parole, capisco quelle frasi, capisco il significato di quella canzone. Ora so quanto si può amare qualcosa nel momento del bisogno, quanto la nostra città abbia bisogno dei nostri polmoni per sopravvivere a questi tremendi giorni, forse solo ora, seduto con le gambe incrociate, con la schiena dolorante dal poco sonno, appoggiata alle secolari mura confortevoli, forse solo ora, si, capisco quanto non si possano negare le proprie origini, quanto queste quattro strade ti abbiano formato, quanto il nostro castello sia stato testimone dei miei stupori fanciulleschi, dei mie dubbi preadolescenziali, dei miei scazzi  adolescenziali, delle mie battaglie giovanili, delle mie sconfitte e delle mie vittorie personali. Si Ferrara le ha vissute tutte, quasi come fossi io stesso  a estendergliele per uno strano processo di osmosi cosmica. Questa è un’immensa questione d karma, se credete al karma, dobbiamo dare il cento per cento per la nostra città se vogliamo che questa vecchia signora ci supporti.

Sono alla Porta degli Angeli, arrivato qui quasi in pellegrinaggio cercando uno spazio a contatto con la terra per capirla, per fare pace con lei, per provare a trovare un accordo, per ascoltare i suoi casini e per raccontargli i miei. E’ un buon posto,questo, dentro il mondo ma anche lievemente fuori asse, come viviamo sempre di questi giorni.

Avete presente quei film catastrofici dove l’umanità è stata distrutta da una qualche piaga/cataclisma/esperimento fallito/ invasione aliena/terza guerra mondiale/ etc. ?

Ecco in questi giorni mi sento così, una sorta di last man standing che deve trovare tutti i modi per ritornare in contatto con altri last men standing sparsi chissà dove, anche in quei film spesso è solo la parola il sentire una voce lontana che ripropone un messaggio registrato, a dare la speranza, a far capire che non siamo da soli, a dare la speranza del condividere un destino, una vita.

Beh, come in quei film, sono qui per dirvi che non siete soli, che nessuno di noi è solo, voglio dirvi che ce la faremo, perché dobbiamo, possiamo e ci è dovuto in qualche assurdo modo cosmico. Voglio dirvi che siamo tutti qui, e che voi siete noi. Dobbiamo tenerci stretti,l’un l’altro, vicini nel cuore, vicini alla nostra volontà di alzare la testa.

Passo e chiudo.”


L’importanza dell’Ascoltare

30 Maggio, 2012, un anno fa.

“Mercoledì, 30 Maggio, decimo giorno di prigionia.

Giravo in bicicletta attraverso una città attonita, rumorosa ma silenziosa nel contempo. Nel caldo, negli occhi dei cittadini c’era una sorta di patina, una tremenda incredulità, un vuoto difficilmente colmabile.

Tra i volti, tra gli sguardi c’è una comprensione, una condivisione che non ho mai percepito, forse non sapevo dove guardare, o come guardare, quanto in profondità scavare, forse avevo solo timore di percepire sensazioni ed emozioni che non sarei riuscito a gestire.

Ora so che qualcosa è andato perso per sempre, e che dobbiamo lottare per riappropriarci di quello che è nostro, delle nostre luci, delle nostre ombre, dei dubbi e delle piccole vittorie. Il desiderio profondo, sconfinato, intrattenibile, irrinunciabile di alzare la testa c’è, spinge, pulsa in maniera quasi dolorosa e vitale, vuole nascere a tutti i costi.

Ero in anticipo per quello che dovevo fare, avevo appena saccheggiato Feltrinelli, comprando libri di Tabucchi e Lucarelli per progetti futuri, intorno un caldo insostenibile, palpabile. La maglietta appiccicata alla schiena umida, i jeans così caldi da raschiare le gambe, e un dannato tarlo nell’animo che sfregava.

Dovevo far passare del tempo e mi sono tuffato nel Giardino delle Duchesse, splendido, incastrato tra la pesante mole del castello e via Garibaldi. Ci si accede da un androne buio, sembra di entrare in un altro mondo, in un’altra realtà, una piacevole sacca spazio-temporale.

Passi la volta e….

Niente. Vuoto. Deserto. Un triste albero sulla destra che sembra dire, -Ma chi me lo fa fare di stare qui con sto caldo-, alcuni muri circondati dal nastro bianco e rosso, ahimè così famigliare di questi giorni a Ferrara, e null’altro.

Muri stanchi e ombra parca.

Sono davvero in un Altrove incredibile, dove sono l’unico abitante e unico sovrano.

Ho fermato la bicicletta vicino ad una panchina al sole e mi sono seduto sullo zainetto sotto il triste albero, e ancora nessuno intorno.

Dov’erano tutti?

Solo fantasmi traslucidi e accaldati di emozioni fin troppo sprofondate in abissi di cupezza e solitudine.

In questi momenti in cui ti sembra veramente di stare in una di quelle ghost town  del Far West, ti attacchi ancora di più al nocciolo imprescindibile di quello che sei.

Ho aperto Notturno Indiano di Tabucchi e ho iniziato a leggere, nonostante il caldo, nonostante i fantasmi e nonostante l’esigua ombra. Ho condiviso questo momento. Non c’era nessuno intorno, ma ho fatto un omaggio alla mia città, le ho dedicato questi minuti di lettura per farla sentire meno sola, meno incazzata con il mondo, e meno dimenticata dagli estraniati concittadini.

Non so se abbia apprezzato. Io mi sono riappropriato di un altro piccolo pezzo di terra, un lembo di città, l’ho sfiorata, accarezzata, coccolata e ascoltata come si fa con una ragazza triste che incespica in questa dissestata vita.

C’è un tempo per parlare e forse non è questo.

C’è un tempo per sorridere e forse non è questo.

C’è un tempo per piangere e forse non è questo.

C’è un tempo per la rabbia e forse non è questo.

Questo è il momento di ascoltare.

Beh eccomi qui, ti ascolto….

Passo…”

 

Per non dimenticare, per ricordare che siamo tutti sotto lo stesso sole. 

L’anno scorso, come ora, come l’anno prossimo. 

Nessun uomo è un’isola.

 

“Nessun uomo è un’isola,
completo in sé stesso;
ogni uomo è un pezzo del continente,
una parte del tutto.
Se anche solo una zolla
venisse lavata via dal mare,
l’Europa ne sarebbe diminuita,
come se le mancasse un promontorio,
come se venisse a mancare
una dimora di amici tuoi,
o la tua stessa casa.

La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce,
perché io sono parte dell’umanità.
E dunque non chiedere mai
per chi suona la campana:
essa suona per te.”

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