– Posso vederti domani?
Lei continua a sorridere nei pochi secondi di silenzio che precedono la sua risposta. E la sua voce è priva di qualsiasi emozione quando parla.
– Domani entro in convento di clausura.

Che stupendo inizio di film. Ma è un film che per me finisce qui.

Sono, queste, parole di Michelangelo Antonioni. Nella sua raccolta di racconti Quel bowling sul Tevere narra di una sceneggiatura che non ha mai visto la luce, ma la cui storia, qualche anno fa, è stata riscoperta e presentata pubblicamente. Si tratta di Patire o morire, scritta dal regista ferrarese a metà degli anni ‘70 grazie all’aiuto di Silvia Ronchey, allora giovane studiosa bizantinista. Ho incontrato, nel grigiore di questi pomeriggi proto-primaverili, la nipote di Michelangelo, Elisabetta, Presidente e fondatrice, due anni fa, dell’Associazione Michelangelo Antonioni, per ripercorrere insieme la nascita di quest’opera mai nata. Come ritrovo abbiamo scelto la sede dell’associazione, all’interno della Villa Horti della Fasanara, edificio ottocentesco immerso in un’atmosfera anomala rispetto al paesaggio urbano, all’interno di quella che un tempo fu la riserva di caccia degli Estensi. La sceneggiatura è stata presentata proprio da Elisabetta, insieme con Silvia Ronchey e Paolo Mereghetti, critico del Corriere della Sera, al Festival Internazionale del Film di Roma nell’autunno del 2011.

Negli anni ‘70 è un altro regista, Francesco Rosi, a presentare la Ronchey ad Antonioni. É proprio lei, qualche anno fa, a ritrovare il copione. «Silvia Ronchey viene contattata da mio zio – mi racconta la sig.ra Elisabetta – per avere un aiuto su che cosa potesse studiare per avvicinarsi alla mistica femminile occidentale. Con l’insolenza di una ragazza di diciassette anni, gli dice che non ha tempo, che andasse alla Biblioteca Vaticana e si leggesse la patristica!». Allora Michelangelo va dove gli viene indicato, chiede ciò che lo interessa, «ma gli viene mostrata un’intera parete di libri scritti in latino. Perciò si dispera alquanto, le riscrive nuovamente e lei, quindi, vista l’umiltà di questo personaggio famoso, si commuove, cambia atteggiamento e si dimostra disponibile», aiutandolo nella scelta dei testi e nella traduzione di quelli in latino. «Mio zio si era documentato in modo serio e rigoroso, perché tutte le volte che doveva affrontare un argomento che non conosceva, si rivolgeva a persone davvero competenti, a veri e propri esperti. Possedeva quest’umiltà di ammettere di non sapere».

La storia narra di un architetto in crisi – l’alterego di Michelangelo -, il quale deve restaurare un ex-convento di clausura femminile per conto di un ricco proprietario. Siamo in Spagna, patria della mistica Santa Teresa D’Avila, morta nel 1582, la quale è citata da Antonioni nel titolo, Patire o morire. Il protagonista – che sarebbe stato interpretato da Giancarlo Giannini – inizia a interessarsi alla storia del convento. È proprio nella Biblioteca Vaticana che conosce Roberta, giovane studiosa di diciannove anni la quale lo avvicina al misticismo, in particolare alla teologia negativa. La realtà s’intreccia strettamente con la finzione, l’alimenta e ne è a sua volta alimentata. È chiaro che il personaggio di Roberta è ispirato a quello della Ronchey. «Quando gliel’ho fatto notare – continua Elisabetta – lei si è emozionata e al tempo stesso ha provato – senza motivo! – vergogna, in quanto Roberta nel testo cerca di provocare un interesse anche sessuale nell’architetto».

Foto di Giulia Paratelli

Nel finale del racconto il protagonista incontra un’altra ragazza, la quale gli annuncia che il giorno seguente sarebbe entrata in un convento di clausura. Come si è visto, questo passaggio è presente anche in un racconto intitolato Questo corpo di fango, omonimo titolo del quarto e ultimo episodio del film Al di là delle nuvole, uscito nel ‘95, con protagonisti Irène Jacob e Vincent Pérez. Da qui Elisabetta inizia la narrazione dei viaggi che Michelangelo fa durante la preparazione della sceneggiatura per visitare diversi monasteri umbri.

In particolare a Spello e ad Assisi entra in contatto con alcune suore di clausura, soprattutto clarisse, «entra in un rapporto intimo con alcune di loro – mi spiega -, le va a trovare, con loro fa lunghe conversazioni, mantiene anche un contatto epistolare. Inoltre mio zio possedeva una casa proprio a Spello, dove si recava in alcuni periodi dell’anno, soprattutto in estate». Appena poteva, Michelangelo ritornava nella sua amata Ferrara, a trovare la sua famiglia. «Quando tornava amava raccontarci alcuni aneddoti di questi incontri con le religiose. Una volta riferisce a me, ai miei genitori e a mio marito – siamo circa alla fine degli anni ’70 – un episodio molto interessante. Ci racconta di essere rimasto affascinato da una monaca, alla quale ha chiesto: «Se io per caso mi innamorassi di te, tu come reagiresti?», allora la suora gli ha risposto: «Sarebbe come se tu accendessi un cerino in una stanza inondata da una luce prodigiosa». Questo dialogo lo ritroviamo proprio nel sopracitato episodio conclusivo di Al di là delle nuvole.

Nelle lettere a lui indirizzate, alcune clarisse gli dicono che pregano continuamente per lui, perché vogliono «salvargli l’anima», e gli chiedono del perché non abbia fede, vogliono capire. E lui in una di queste lettere risponde a una suora dicendole: «Io la ringrazio di pregare per me, ma se credere nella bellezza del creato, della natura, è credere, allora posso dire di credere anch’io». Continua Elisabetta: «Alcuni anni dopo la morte di mio zio, Enrica Fico, la sua ultima moglie, mi ha regalato un crocifisso che gli avevano portato dei frati, da Spello, per conto delle suore di clausura».

Nel caso di Antonioni, dunque, non si può parlare con sicurezza di fede in senso religioso, però «era sicuramente presente in lui un’attenzione, un rispetto per la fede, per la religione». Nell’ultima intervista prima dell’ictus che lo colpisce nel 1985, Maurizio Costanzo gli domanda se crede in Dio. Lui risponde: «Qualche volta, di notte», espressione solo apparentemente superficiale. Poi continua dicendo: «…a me sembra che nonostante tutti i crimini e le cose malfatte che succedono, nel mondo esista, come posso chiamarlo, un proposito morale che ci assiste, che ci conforta. Se mi è consentito identificare questa entità chiamata Dio con questo proposito morale, io ci credo in Dio».

«Evidentemente era un pensiero che lui aveva, non era una semplice battuta» – mi dice Elisabetta  «altrimenti avrebbe risposto: io non ci penso mai, non m’interessa. Secondo me, invece, già questa risposta è indice di qualcosa, se non altro del dubbio, del tarlo che lui aveva».
Da persona riservata quale era, Michelangelo non affrontava con nessuno il tema religioso, «provava pudore per questo argomento, voleva preservarlo, aveva paura a trattarlo, probabilmente non voleva banalizzarlo».

Chi non nutriva pregiudizi nei suoi confronti questa profondità, questo slancio verso il sacro, di sicuro, non poteva non notarlo. In una lettera presente nel Fondo a lui dedicato, Antonioni parla della sua visita alla Biblioteca Vaticana e della frase di un prete, il quale gli viene incontro, gli allunga la mano e gli dice: “Lei è Antonioni, quello che cerca la verità”.

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