La cosa fastidiosa di Ferrara è che ad un prima occhiata sembra che sia tutto piatto, senza alcun affondo.
Il cielo è piatto, l’orizzonte è piatto, cammini per la strada e calma piatta.
Sembra che la pianura non sia solo una condizione geografica.
Eppure Ferrara ha una storia corposa, e la sua cultura cittadina si è formata incrociandone diverse, di culture.
La prima che mi viene in mente è quella ebraica.

La sinagoga è in via Mazzini. E’ un portone, è di fronte un super mercato e di fianco un bar.
E’ l’edificio che ospita la comunità ebraica ferrarese, ben conosciuta in Italia e di tradizione antica.
Così antica che quando parliamo con il rabbino di Ferrara, Luciano Caro, ci racconta che alcuni membri della comunità rivendicano con orgoglio la loro profonda ferraresità; con una battuta ci fa capire che è una caratteristica ebraica, questa: essere un passo avanti a tutti, anche quando si tratta di essere più ferraresi di un ferrarese.
La comunità ormai conta un centinaio di membri; non sono molti, ma la sinagoga si riempie di nuovo in occasione delle festività ebraiche, che richiamano ex-ferraresi dai cinque continenti: chi arriva dal Sud America chi invece dall’Europa, o più banalmente da altre zone d’Italia, ma tutti con un saldo legame con la città di origine. E se non proprio la loro direttamente, almeno di un qualche avo.
Per raccontarci il perché e il radicamento di questa presenza, il rabbino parte da lontano: Roma.
La presenza ebraica in Italia comincia 2000 anni fa, con la conquista di Israele da parte dei romani. 
Un nutrito gruppo di ebrei viene deportato a Roma dando il via alla diaspora; ma nella capitale esisteva già una piccola comunità approdata da Israele per motivi culturali e commerciali (e c’è chi dice che siano i primi, veri, romani).
Questa è il primo di una serie di flussi migratori che porterà gli ebrei in Italia a diverse riprese, a seconda dei disastri storici che si troveranno a dover affrontare.
L’Italia gioca un ruolo polposo nell’immaginario collettivo ebraico, vuoi per il paesaggio, il cibo, la cultura, ma soprattutto perché è una popolazione affabile, ci si va ben d’accordo; diciamo che, nonostante la prima scelta resti Israele, in mancanza d’altro l’Italia è una buona meta per rifugiare.

Foto di Lucia Ligniti

E anche Ferrara è stata tra le buone mete: ha ospitato tre flussi diversi, che nel tempo hanno dato vita alla comunità, ma soprattutto hanno dato una vivacità culturale ed economica alla città che ne ha segnato l’identità.
Dalla penisola iberica sono arrivati i primi sefarditi, e poi dall’Europa settentrionale e orientale gli ebrei ashkenaziti, innestandosi in un territorio dove c’era già una piccola comunità italiana, formata dai discendenti di quel gruppo romano che in parte aveva mosso verso nord in cerca di lavoro.
Più o meno è il 1600, e immaginatevi in questa piccola città una presenza straniera così forte. 
Gente che parla portoghese, spagnolo, tedesco e lingue di ceppo slavo. Usi e costumi alieni per una popolazione ferrarese che riuscirà ad inglobarli.
Il merito va anche agli Estensi, che puntavano a rendere questo posto un crocevia internazionale per quanto riguarda anche la cultura: lungimiranti.
All’inizio i tre riti erano ben separati, magari i sefarditi e gli italiani erano un po’ più vicini per la comune radice mediterranea, ma restavano con le loro usanze, le loro preghiere e i loro cibi.
E chissà quanto questo avrà segnato la vita quotidiana della città. Le botteghe, le vie, la cucina, gli odori.
Nella zona del ghetto era un fiorire di sinagoghe, se non altro perché inizialmente la sinagoga era prima di tutto il luogo per imparare, con libri, banchi e lezioni; quasi ogni casa della zona era attrezzata con la sua stanza comune dove poter portare avanti anche la propria tradizione religiosa. Se poi vi state chiedendo se continuerà ad essere così anche successivamente, no, perché poi la sinagoga diventerà esclusivamente un luogo di culto, forse assimilando la sua funzione a quella della chiesa cristiana.
Dalle rispettiva singolarità che animavano Ferrara se ne uscirà nel 1800, con un passaggio intermedio di avvicinamento tra gli italiani e i sefarditi, perché c’erano le condizioni giuste per far funzionare la comunità che si era creata.
Restano, nel ghetto, le tre sinagoghe per i tre riti, ma tutto confluisce nella sinagoga centrale dietro a quel portone in via Mazzini.

Il rabbino definisce la costituzione della comunità come un’amalgama di persone di origine diverse che si sono fuse e che hanno nutrito un legame con la città superiore a quello che c’è in altre città, analogo solo a quello di Roma, e con una descrizione simile c’è poco da aggiungere.
Come dire, parlatemi male di tutto, ma non di Ferrara, parafrasando il rabbino che racconta – scherzando- di come i suoi co-religiosi un po’ gli facciano patire il suo non essere ferrarese.
Una città che ricambia, riconoscendo il forte ruolo giocato dalla presenza ebraica nella sua cultura e anche nella sua economia industriale; il fatto che il rabbino ci dica che sono tante, le persone non di fede ebraica che affollano le sue lezioni del venerdì, fa piacere.
E’ una delle cultura che ha costruito l’identità di questa città, e che soprattutto ha dato nuova linfa portando culture e immaginari diversi in questo mondo forse dominato dalla nebbia. 
Ecco, si riuscisse a ripetere quella magia lì, del prendere e scambiare o anche solo conoscere le culture che ci sono intorno, magari si scopre che l’orizzonte non è poi così piatto, no?

Non è organizzata dalla comunità ebraica, ma dal MEIS, la Festa del Libro Ebraico a Ferrara che dal 24 al 28 aprile può essere un’occasione per approfondire questo forte legame tra la città e la comunità ebraica.

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