Battere un calcio di rigore, oltre a rappresentare una prova di abilità, definisce un interessante momento filosofico. Che pone il chiamato in causa davanti a un bivio. In un certo senso, è come approcciarsi a una situazione dalle conseguenze manichee. Non esiste via di mezzo fra successo e fallimento. C’è una palla che si insacca, oppure che non varca la linea bianca. E, nel caso in cui la partita sia in fase di svolgimento e palo o portiere respingano il tiro, lo sviluppo dell’azione determinerà comunque un esito positivo e negativo per qualcuno. Non si sfugge alla regola pragmatica del dentro o fuori. Tertium non datur. Così come il dubbio del tiratore si articola lungo un pensiero binario, potenza o precisione, quello dell’estremo difensore si muove anch’esso nel solco di una duplice diramazione. Battezzare un angolo e tuffarcisi prima che il pallone venga calciato, oppure attendere fino all’ultimo e spingere sul piede di appoggio solo un istante dopo che la traiettoria del tiro sia resa manifesta. Un dualismo dal quale è difficilissimo allontanarsi. E con il quale hanno fatto i conti numerosi giocatori della Roma, nel corso della loro carriera sportiva. I colori giallorossi, prossimi avversari di campionato di quelli biancazzurri, infatti, si sono spesso dovuti misurare con la strada rovente degli undici metri. Pensare alla Roma e ai suoi tesserati, del presente e del passato più o meno prossimo, è anche un modo per ripercorrere quel tratto di campo che divide il dischetto dalla linea della porta, giocando con le microstorie, compresse fra sensazioni lucide ed emotive, che ne hanno scandito i passi.

Ecco allora la finale di Coppa dei campioni del 1984, all’Olimpico, che mette di fronte Roma e Liverpool. La telecronaca di Bruno Pizzul racconta dunque dei reds contro i giallorossi, che non vogliono mollare davanti al loro pubblico. E che al gol iniziale di Neal, rispondono con quello del bomber Pruzzo. Dopo i tempi supplementari, si arriva così ai calci di rigore. Una lista che vede Nicol spararla alta e Ago Di Bartolomei gonfiare la rete. Il destino però ribalta il punteggio, quando al secondo tiro Neal segna, mentre Bruno Conti calibra male e manda la palla di poco sopra la traversa. Souness da una parte e Righetti dall’altra fanno centro. Anche Ian Rush compie il suo dovere, mentre Ciccio Graziani si lascia incantare dalla danza del portiere Grobbelaar e colpisce la traversa. Tocca quindi a Kennedy decretare la fine delle ostilità, con la sua realizzazione. Nei tifosi romanisti rimane un amaro in bocca. E in alcuni spettatori da casa, sale il dubbio sul motivo dell’assenza di Falcão fra i primi rigoristi. A distanza di tempo, l’interessato spiegò di non essere stato al meglio delle proprie condizioni fisiche.

Eppure non è soltanto l’elemento fisico a fare la differenza quando si calcia un penalty, a contare tanto è anche l’aspetto psicologico. Quel timore da combattere dentro, come forse cantava Francesco De Gregori, «Nino, non aver paura di sbagliare un calcio di rigore», nella sua romantica ‘La leva calcistica della classe ’68’. Chissà se ne ha avuta il centrocampista romano e romanista Luigi Di Biagio, con la maglia azzurra della Nazionale, ai Mondiali del 1998, quando si è trovato ultimo dei tiratori dal dischetto nella sfida infinita contro la Francia. I suoi sogni infranti da una traversa, forse lo avranno perseguitato per due anni. Ci riproverà Gigi, nei successivi Europei contro l’Olanda. Ad Amsterdam, nella semifinale contro i padroni di casa, in un’altra epica battaglia, sarà il primo dell’elenco dei rigoristi a condurre l’Italia in finale. Perché una seconda occasione è dietro l’angolo, bisogna solo avere la tenacia di aspettare per afferrarla. Un altro romanista, probabilmente fra i più rappresentativi di tutti i tempi della squadra capitolina, che più volte ha puntato il mirino dagli undici metri è stato Francesco Totti. Con la maglia della Nazionale, nel 2000, sempre nella partita al cardiopalma contro gli orange, riaccende l’immaginario collettivo segnando a Van der Sar con il ‘cucchiaio’. Pezzo d’argenteria e metafora per disegnare una parabola lenta e arcuata, un pallonetto che si stacca dalla parte bassa del collo del piede per scavalcare beffardo il portiere che nel frattempo si è disteso in orizzontale, immaginando un tiro potente e angolato. E invece niente rasoiata di forza, ma solo il guizzo sottile e spietato dello scatto del rasoio, che ferisce la sensibilità dei portieri più permalosi, con la palla che finisce nel sacco. Non capita sempre di segnare però, e Totti lo impara a sue spese in una giornata di campionato di settembre del 2004. La Roma affronta il Lecce, e il capitano giallorosso riprova il cucchiaio. In porta c’è Vincenzo Sicignano, che stavolta non abbocca al tranello. Rimane immobile e neutralizza il colpo. Il ‘Pupone’ comunque resta uno specialista, e scriverà un’altra pagina importante dagli undici metri, meno spericolata e decisamente più pragmatica durante i Mondiali del 2006. Il suo sigillo, ai danni dell’Australia, sarà un tassello prezioso per traghettare la corazzata azzurra verso la conquista del titolo. Dietro il raggiungimento di un obiettivo calcistico, quindi, saranno diverse le volte in cui un calciatore dovrà misurarsi con questa prova di tensione. Il calcio di rigore. Un concentrato di momenti razionali ed emotivi, che finiscono per condensarsi in un arco di tempo tanto ridotto quanto intenso. La Roma, che da anni lotta per risultati di vertice e che di rigoristi ne ha avuti parecchi nella sua storia, da Giannini a Völler, conosce pertanto questa situazione. Peraltro, nel campionato in corso, ha beneficiato dell’assegnazione di tre rigori a favore, e ne ha visti due fischiati contro. Per la Spal, invece, sono cinque i penalty subiti, a fronte di nessun tiro dal dischetto decretato a suo favore. Un dato che comunque va collegato al numero di azioni pericolose prodotte che transitano spesso per l’area.

L’adrenalina che il rigore suscita però non deve distogliere da un intero insieme di componenti, che forgiano il dna di un calciatore. «Un giocatore, lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia», torna in soccorso il cantautore De Gregori. Ma i dubbi amletici su come affrontare l’esecuzione di un rigore, riportano a galla paure e incertezze che, nel piccolo, sfiorano interrogativi filosofici. Prima di calciare, rivolgere uno sguardo verso un punto della porta dove s’intende indirizzare il tiro, oppure ostentare indifferenza? «Non c’è niente di più profondo di ciò che appare in superficie», pare suggerire una frase attribuita a Hegel. Obbedire alle certezze acquisite durante i lunghi allenamenti, o cambiare improvvisamente le carte in tavola? «Il dogma è nient’altro che un esplicito divieto di pensare», sembra la risposta proveniente da Feuerbach. E se fosse una questione di postura a condizionare i riflessi del portiere? «Anche se il saggio non cammina con lo stesso passo, di sicuro cammina per una stessa via», chioserebbe una citazione di Epicuro. E sul pensiero di Hegel, Feuerbach ed Epicuro, la Spal è particolarmente ferrata. In cabina di regia c’è Luca Mora, capitano e studente di filosofia.

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