di Monica Pavani

Ci sono coreografi, come lo strepitoso inglese Wayne McGregor – del quale lo scorso 5 novembre è andata in scena al Comunale l’ultima creazione, Autobiography – che non si ‘limitano’ a produrre spettacoli. In un loro percorso di crescita continua, accade che da un insieme di materiali e di collaborazioni con altri artisti (e, nel caso di McGregor, scienziati, economisti, filosofi…), a un certo punto scaturisca un mondo, un cosmo, un Globe – come direbbe il conterraneo di McGregor, William Shakespeare – al pari di un organismo naturale da un coagulo di cellule. E – allo stesso modo – gli spettatori non si trovano semplicemente ad ‘assistere’ a uno spettacolo, ma vengono immersi in uno spaccato di vita all’ennesima potenza, dove ciascuno è chiamato a compiere il proprio personale viaggio. E alla fine di quell’esperienza multisensoriale staccata dal tempo eppure imbevuta di esso, si esce dal teatro arricchiti di una vita aggiuntiva, o solo della possibilità di sentire la propria esistenza dispiegata in tutte le sue infinite potenzialità.

La traccia stilistica e umana di McGregor è racchiusa nella semplicissima definizione che lui stesso dà del suo instancabile lavoro con i danzatori: “Thinking with the Body”, pensare con il corpo. Ovvero: non intelletto che comanda ma gesto dettato da pulsione, mente fusa con il corpo in un’unica entità che si esprime sì attraverso il movimento ma al proprio interno abbraccia la riflessione, l’anelito, il volo, la caduta, il silenzio.

Foto di Andrej Uspenski

Attraverso i suoi dieci formidabili danzatori, McGregor esplora la propria biografia con uno sguardo che può dirsi contemporaneamente passato e futuro, chiuso su una storia conclusa e spalancato sulla miriade delle sue possibili evoluzioni. Il coreografo ha raccolto i materiali importanti della propria vita, che spaziano da scritti, ricordi, fotografie, poesie, aneddoti della propria famiglia, a opere di scrittori e artisti che hanno particolarmente influenzato il suo percorso. E da lì sono nati 23 ‘volumi’ di vita, come 23 sono i cromosomi che contengono il genoma umano. E da ogni volume è nata una sequenza di gesti, che sono combinabili e scindibili fra loro attraverso un continuo processo di ripetizione, variazione, mutazione e ripresa. Ad ogni rappresentazione un computer seleziona da questo repertorio coreografico una serie di eventi, che vengono eseguiti secondo la sequenza di un algoritmo basato sul codice genetico di McGregor. Il sistema impone che la sequenza non possa essere usata più di una volta, motivo per cui ogni ‘replica’ dell’Autobiography è una nuova creazione.

Le luci della geniale Lucy Carter riproducono un universo noto e ignoto allo stesso tempo: una serie di prismi dal soffitto si illuminano o semplicemente incombono, creando a terra una geometria che pure non è per nulla astratta, ma diventa il contorno dei tracciati di vita che i danzatori disegnano in dialogo con linee e volumi creati dalla luce. Forse, se potessimo vedere la penombra o il buio assoluto che precedono la nostra entrata nel mondo e seguono la nostra uscita, il paesaggio non sarebbe troppo distante da questi sogni tradotti in danza. A tratti dei led dietro i danzatori proiettano fasci potenti di luce che arrivano anche a disegnare forme sul pubblico, ma soprattutto vengono ritagliati dai movimenti in scena, creando opere visuali cangianti ad ogni fremere di un polso, di una gamba, di un capo che si reclina o che si tende quasi ad accompagnare il battito d’ali di un volatile invisibile.

Foto di Richard Davies

Come tutte le creazioni che immergono nella vita, anche questa Autobiography, attraverso la miriade di canali espressivi che chiama in causa, viene registrata dalla sensibilità degli spettatori, ma la densità di bellezza trasmessa è tale da trascendere la percezione del momento. Sorge la necessità di rivedere lo spettacolo, per intero. Se non fosse che questa è l’unica data di McGregor in Italia; si fa dunque vivo il bisogno anche solo di ripensare alla successione di immagini che hanno costruito la meravigliosa tela in cui il coreografo ci ha intrappolati: assoli, scene di insieme, quadri immobili e in movimento sfrenato diventano il racconto della luce che ci rende vivi, capitolo dopo capitolo, in un ciclo continuo di morti e rinascite.

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