In principio fu Ottorino Piotti. La prima figurina Panini che mi passò fra le mani era quella che raffigurava un portiere trentenne di Gallarate. I primissimi ricordi la collocano nel Natale del 1984. In cima all’immagine di quel giocatore dall’insolito nome, la scritta indicativa della squadra di appartenenza. Atalanta, come l’attuale rivale in campionato della Spal. Difficile rintracciare tale località in un libro, per un bambino i cui unici riferimenti geografici sono alcune città italiane individuate da una cartina su una parete. Eppure, in quel di Bergamo, nel 1907, viene fondata l’Atalanta. Una società calcistica che prende in prestito il suo nome dalla mitologia. E che disegna un curioso collegamento fra una comunità di studenti liceali appassionati di calcio, e la storia di un’eroina, probabile oggetto dei loro studi. Secondo una variante del mito, infatti, Atalanta sarebbe il nome di una figlia ripudiata, in quanto femmina. Da quell’abbandono su una collina, e dalle cure di un’orsa prima e di un gruppo di pastori poi, sarebbe cresciuta con il temperamento di un’esperta cacciatrice. Un percorso in rigorosa salita, apparentemente lenito da un matrimonio condizionato dall’intervento di Afrodite. Ma culminato con una profanazione, con le ire di Zeus, e con una penitenza che, in un certo senso, ricalca il dramma dell’abbandono della sua nascita. Ecco, la storia di una squadra di calcio, che forgia il suo nome su quello di una vicenda mitologica oscillante fra il dolore e l’eroismo, è uno spunto in più per raccontare il cosmo multidisciplinare che non ci si aspetta e che avvolge il mondo del pallone.

E di nomi propri, e inusuali, gravitati nelle formazioni nerazzurre che si sono susseguiti negli anni, esiste un’interessante documentazione. Di Piotti ho già fatto cenno. Quand’ero piccolo pensavo che non fosse solo un portiere, ma che esercitasse anche come medico. In particolare, specializzato in Otorinolaringoiatria. Forse perché avevo sentito un’altra storia, in seguito smentita, sul calciatore nordcoreano Pak Doo-Ik. Un centrocampista asiatico, del quale si diceva che facesse il dentista, che estromise con un suo gol la Nazionale dai Mondiali del 1966, in Inghilterra. Allora quell’Ottorino, nome mai sentito prima, non poteva che essere un errore di stampa. Una ‘t’ di troppo che avrebbe rivelato il suo lavoro di otorino. Già me lo immaginavo, durante la settimana alle prese con i pazienti, con un fonendoscopio sul collo e una lampadina fissata sulla fronte per monitorare meglio le loro tonsille e adenoidi. Nel week-end, invece, avrebbe dismesso il camice e gli strumenti del mestiere, per indossare tuta e guanti, e proteggere la porta atalantina. Eppure, con un pizzico di stupore e rammarico, appresi che la vera professione di Ottorino Piotti era proprio quella del portiere. Un estremo difensore che avrebbe giocato per quasi vent’anni a calcio, vestendo anche le casacche di Como, Bolzano, Avellino, Milan e Genoa. Magari in virtù del suo nome, le cui origini germaniche paiono legarlo ad alcuni imperatori del Sacro Romano Impero, avrebbe però imperato sulla sua difesa, dalla linea bianca della propria area piccola.

Un altro nome nerazzurro in grado di stuzzicare la fantasia di un bimbo, collezionista di figurine, è stato Aladino Valoti. Militò nelle fila atalantine, nel corso delle stagioni 1983/84 e 1985/86. Ebbe anche il tempo, nel campionato 1987/88, di giocare con la maglia della Spal. Un centrocampista che, durante la propria carriera, avrebbe arretrato il proprio raggio d’azione, spostandosi da trequartista a mediano, davanti alla difesa. E del quale, attraverso la lettura di un articolo di quotidiano di alcuni anni fa, si scopre essere cresciuto in una famiglia con un’autentica passione per la bicicletta. Dall’omonimo zio al papà allenatore, fino ai fratelli, promesse del ciclismo. L’ex giocatore di serie A e B sceglie invece il calcio, come farà il figlio Mattia, oggi in forza al Verona. Chissà se in linea con le radici arabe del suo nome, Aladino, e con quel significato che lo vorrebbe ‘devoto alla religione’. Fedele, appunto, alle sue aspirazioni sportive.

Eligio Nicolini, infine, mi colpì soprattutto per le sue qualità tecniche, prima ancora che per il suo nome. Un fantasista dalla bassa statura e dall’alto tasso di estro e creatività, che conquistò una promozione nella massima serie, che debuttò in serie A contro il Napoli di Diego Armando Maradona, e che firmò anche un’importante rete in un turno di Coppa Uefa nel dicembre del 1990, contro il Colonia. Cinque annate, le sue, con la maglia dell’Atalanta. E un nome, Eligio, che in latino sta a significare ‘scelto’. Una sorta di predestinazione per chi si trova a costruire una carriera, zigzagando su un rettangolo verde. Dove la mitologia nascosta nei nomi di una squadra o dei suoi giocatori è un’occasione ulteriore per giocare con una passione, quella per il calcio, che mi accompagna dai tempi dell’infanzia. Passione, desiderio, amore. In greco, ‘Eros’. Come il nome del centrocampista spalllino Schiavon.

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