Perdere il controllo, o meglio: rinunciare al controllo. Dopo dieci anni di esibizioni e performance giocate all’interno di griglie, schemi e regole, Collettivo Cinetico dice basta: i conti per una volta possono anche non tornare, va bene così. Benvenuto Umano è il titolo del loro ultimo lavoro, presentato in anteprima al Teatro Comunale di Ferrara due settimane fa. Si tratta di una tappa fondamentale nel percorso della compagnia ferrarese, fondata e guidata dalla danzatrice Francesca Pennini: chiude un progetto decennale intitolato C/o e lo fa con un grande respiro, di quelli che si fanno prima di addormentarsi, per accettare le cose che sono successe durante la giornata, i pensieri che girano attorno, i dubbi.

Un respiro che serve a rilassarsi, ad abbandonarsi al sonno accettando ciò che è stato e sé stessi in ciò che è stato, che assomiglia molto al respiro che si fa prima di buttarsi dentro a qualcosa che non si conosce, un salto nel vuoto, una danza sospesa nell’aria. “Benvenuto Umano” ha tanti significati: è innanzitutto il nome di un punto tsubo, ovvero uno dei punti anatomici interpretati dalla medicina cinese come canali energetici, ma è anche un saluto affettuoso all’irriducibile fragilità del corpo e dell’anima. E la rappresentazione che porta questo nome è tanto più potente quanto più rinuncia a definire la propria forza e solidità, la perfezione del meccanismo, l’infallibilità del gesto.

Lo spettacolo è composto da una serie di scene apparentemente slegate, tenute assieme dalla cecità della Pennini, che dall’inizio alla fine si muove sul palcoscenico bendata. Asseconda le indicazioni di posizione fornite tramite Bluetooth dagli altri performer e scandite nella sala dal Voice Over del telefono, si appoggia alle braccia che la sorreggono, la spingono, la indirizzano; si concentra unicamente su sé stessa quando volteggia come una circense, appesa con le mani a un grande anello sospeso nel vuoto.  Attorno a questo punto fermo ruotano episodi e narrazioni: l’equilibrismo ipnotico di Andrea Brunetto, che simile a un uomo vitruviano ondeggia aggrappato al grande cerchio metallico che lo contiene; i combattimenti a corpo libero anticipati a Palazzo Schifanoia in occasione della performance “Serie di vuoti”, arbitrati da un enigmatica divinità orientale, dorata e informe; la sfilata circolare del vincitore Carmine Parise; il sacrificio finale di Angelo Pedroni, legato e insaccato in minuzioso gioco di corde, sollevato ed esposto inerme mentre sempre più forte riecheggia il canto di Stefano Sardi: “My Body is a Cage”.

Foto di Giacomo Brini

Francesca Pennini racconta la costruzione di “Benvenuto Umano” come un’articolazione di momenti a perdere, non progressivi, come le stelle in una costellazione, come i punti tsubo distribuiti sull’epidermide, finalizzata ad allacciare la medicina cinese agli affreschi di Palazzo Schifanoia, tradizioni lontane nel tempo e nello spazio, inintelligibili entrambe.

«Ci abbiamo lavorato un anno intero ed è sicuramente molto diverso dai nostri altri lavori. Sebbene sia impostato sulla figura del cerchio non è un’opera chiusa, chiede al pubblico una disponibilità diversa. Il patto non è chiaro, non ci sono regole, come se tutto sfuggisse al controllo. Per diversi mesi abbiamo provato a imbrigliare il materiale che ci interessava, a ordinarlo in modo scolastico, ma i conti non tornavano mai. Cercavamo una dimostrazione quasi matematica e abbiamo lasciato che proliferassero infinite possibilità di spettacolo, ma nessuna riusciva a combinarsi con le altre, è stato inquietante. Alla fine abbiamo capito, non senza momenti di panico, che dovevamo arrenderci, cambiare il nostro punto di vista, abbracciare il mistero. La ricerca richiedeva un approccio capace di fare a meno della “soluzione”.  Lo spettacolo si è sviluppato come una combinazione di allegorie e di attriti, un processo chimico che non produce risultato materiale, ma qualcosa da continuare ad assaggiare».

Le due parole chiave che hanno guidato la creazione sono limite e verità. Il limite si esplicita costantemente: è nella benda sugli occhi, nelle tecniche bondage che impediscono i movimenti, nella sconfitta di chi esce dal gioco. È nell’eventualità della caduta, nella fragilità del corpo, nella vita stessa: «abbiamo inteso il limite come una possibilità di sensibilità, quando arrivi al limite hai la chiara percezione di dove sei, di dove sei arrivato». La verità rende acuminata ogni azione: «ogni esperienza in scena è reale, è tangibile la condizione fisica in cui ci troviamo. La lotta è vera, la cecità è vera. Il pericolo è vero e non c’è interpretazione, non possiamo sforzarci di interpretare perché rischiamo di morire, serve una grande fedeltà interna per restare attenti. E ci interessava l’idea del rito sacrificale, non perché ci piaccia stare male ma perché crediamo che sia necessario spendere qualcosa di sé stessi».

Il finale rappresenta l’estrema sottomissione, non solo perché inscena l’impotenza e la costrizione, ma perché l’uomo che verrà legato, immobilizzato e appeso al soffitto viene scelto dal caso, da Francesca che come la dea fortuna gira su sé stessa e indica nel buio chi dovrà offrirsi. A Ferrara questo onore è toccato ad Angelo Pedroni, nelle rappresentazioni successive potrebbe succedere a chiunque tra i cinque performer sul palco. «Tutto è vulnerabile, io stessa quando punto il dito non ho potere, sono semplicemente un tramite. Allo stesso tempo, seppure nella limitazione estrema, la vittima ha un ruolo attivo: tutti noi abbiamo provato e siamo pronti ad assumere quel ruolo, ma la sensazione trasmessa è diversa, può essere un senso di abbandono, oppure di disprezzo, può essere tante cose. Ognuno ha la sua parte».

Foto di Giacomo Brini dello spettacolo Sylphidarium

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