INTRO: Cos’è POLIS SPORTIVA?

La notte che vinse l’Oscar per il miglior film straniero, il regista Paolo Sorrentino prese in mano la statuetta e si lasciò andare a una dedica. Davanti a una platea statunitense che riempiva il sottofondo di applausi, prese la parola e trovò il tempo di citare le sue quattro fonti d’ispirazione. Con accento inconfondibilmente italiano, pronunciò nell’ordine il nome di Federico Fellini, dei Talking Heads, di Martin Scorsese. E di Diego Armando Maradona. Per la cronaca, il film vincitore di quel 2014 era ‘La grande bellezza’. E la parabola sportiva dell’ultimo destinatario della dedica di Sorrentino non può non essere associata all’idea di bellezza. Una bellezza curvilinea, come l’effetto dei suoi colpi, come le traiettorie dei suoi assist, come l’eleganza dei suoi pallonetti. Un calciatore e un uomo, sul quale hanno detto e scritto di tutto. Articoli, libri, reportage. La sua storia è finita in un documentario di Gianni Minà, in un film di Emir Kusturica, e in uno di Marco Risi. In una canzone di Rodrigo Bueno, che una mia amica ascolta per darsi uno slancio quando è giù di morale, e in una di Manu Chao. Senza tralasciare, tornando in Italia, anche le melodie dei Mercanti di liquore, che lo menzionarono nel brano surreale ‘Ieri sera sono apparso alla Madonna’.

Chissà se nella realtà, invece, il motivetto che più lo caricava, era quello che gli cantavano i tifosi partenopei mentre si allenava poco prima di una partita. Lui ascoltava, magari palleggiando, per poi restituire il favore con uno dei suoi tocchi di impareggiabile talento, durante la gara, in nome di un silenzioso e osmotico mutualismo. Genio e sregolatezza. Un dualismo probabilmente abusato. Eppure inevitabilmente calzante per disegnare il tratto della sua bellezza. Nel campionato odierno, quel Napoli di quel Maradona chiaramente non esiste più. Eppure la squadra azzurra, che incrocerà il cammino della Spal, nell’anticipo di sabato, esprime forse un gioco così bello da creare un ponte ideale con gli anni in cui giocava Diego. ‘El pibe de oro’, ‘il divino scorfano’, etichette attaccategli addosso da una narrazione alla quale non poteva sfuggire. Espressioni che forniscono ancora una volta il pretesto per riflettere sul concetto di bellezza applicato al calcio. L’estetica è figlia dell’ingegno o della lotta? Il gioco è bello quando a praticarlo è una squadra che esalta la libertà dei suoi interpreti, o che ne rispetta l’uguaglianza?

Prendendo idealmente in prestito dall’immaginario sportivo i nomi di alcuni giocatori legati alla maglia del Napoli, proviamo a misurarci con questa domanda. Ecco allora, pescate da una rosa di calciatori fra passato remoto, passato prossimo e presente, due squadre partenopee che incarnino le rispettive declinazioni del bel gioco. La prima, più ‘fantasista’, e la seconda, più ‘mediana’. Facendo ricorso a un gusto meramente soggettivo, il portiere della prima è Morgan De Sanctis, affidabile e talentuoso nelle prese. Risponde per i mediani, Giuseppe ‘Pino’ Taglialatela, che quando Diego scriveva la storia, lui osservava dalla panchina, come terzo portiere. Capitolo difesa: per i fantasisti, una linea a quattro composta da Ciro Ferrara, Fabio Cannavaro, André Cruz e Ruud Krol. La potenza dei nomi, come sintesi delle loro carriere, sprigiona automaticamente completezza nel reparto. Schierati nella difesa avversari, trovano invece posto Giuseppe Bruscolotti, Francesco Baldini, Alessandro Renica e Giovanni Francini. Marcatori grintosi e generosi, temprati dalla fatica di partecipare alla causa, sia essa la vittoria di una Coppa Uefa, o la promozione in serie A. Il centrocampo, quindi, contrappone da un lato le geometrie di Oscar Magoni, Salvatore Bagni e Marek ‘Marekiaro’ Hamsik, dall’altro i polmoni di Ferdinando ‘Rambo’ De Napoli, Luigi Caffarelli e Massimiliano Crippa. A concludere il bizzarro esperimento, ci sono le punte. L’abilità tecnica di Antonio Careca e Gianfranco Zola contro la potenza atletica di Edinson Cavani e Stefan Schwoch, che peraltro indossò per una stagione anche la casacca della Spal.

Superata la complessità di scegliere fra numerosissimi esempi, appare evidente l’assenza di un uomo in entrambe le squadre. Proprio lì, in quella terra di mezzo sospesa fra centrocampo e attacco. In quel luogo di primo avvistamento della porta nemica, dove la consapevolezza di essere insidiosi si incontra con il dubbio su come e su quanto in fretta agire, manca lui. Diego Armando Maradona. Che non sfigurerebbe in nessuna delle due formazioni. Quella degli artisti e quella degli artigiani, quella con l’abito da sera e quella con la divisa da lavoro. Perché forse la vera bellezza, è fare dialogare i due mondi. Soprattutto, quelli propri e interiori. Fra armonie e storture. Ogni volta che rivedo un filmato sportivo di Maradona, penso a come il tempo sembri quasi rallentare. Anche se la voce del telecronista si fa concitata e l’azione acceleri, come nel secondo storico gol in Nazionale contro l’Inghilterra nel 1986, la percezione è che tutto rimanga sospeso. Magari accade mentre i due mondi stanno dialogando. Guizzo del singolo e forza del gruppo. E Diego come anello di congiunzione. Genio individuale e narrazione collettiva. Un po’ come altri due racconti che sono stati tramandati sotto il cielo di Napoli. Come Massimo Troisi. E come Pino Daniele. Immortali.

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