dal New York Times del 2 agosto 2017
Articolo originale di Matthew Schneider, traduzione di Licia Vignotto

Ferrara, Italia – I sentieri che conducono i più importanti designer al loro destino – oppure ai loro atelier – sono lunghi e tortuosi, e difficili da immaginare. Sarebbe stato impossibile indovinare ai suoi inizi, o in qualunque altra svolta decisiva lungo la strada, che Matthew Williams – ritirato dal college dopo il primo semestre a Prismo Beach, in California, irripetibile direttore creativo di Lady Gaga, collaboratore di Kanye West, skater convertito a ragazzo da club, convertito a dj, convertito a designer – si sarebbe infine installato a Ferrara, cittadina a nord di Bologna, dove la corte rinascimentale degli Este chiamò a dipingere Michelangelo e Piero della Francesca.

Ma in un torrido giorno di giugno, dopo un anno di residenza a Ferrara, mentre una sfilata di suore e preti inizia la processione attraverso il centro storico disseminato di ciottoli, come un treno serpentino di santità, Williams fa quello che fanno tutti i ferraresi: mostra indifferenza e si scosta fuori dal loro percorso. (La sua partecipazione alla vita cattolica locale resta più o meno confinata nell’enorme croce nera tatuata tra la base del collo e il cranio).

Williams, fondatore e designer di Alyx, brand che lanciò nel 2015, ha costantemente raccolto attorno a sè sostenitori e complimenti. Bella Hadid, astro nascente nel firmamento delle supermodelle, ha preso l’abitudine di indossarlo ovunque. I boss di LVMH (che detiene marchi come Karl Lagerfeld, Marc Jacobs e tanti altri) hanno confermato le sue capacità e nel 2016 lo hanno nominato finalista al premio indetto per il miglior giovane designer del gruppo. I più esigenti negozi del mondo hanno deciso di lanciarlo. E tutto questo è successo senza una sfilata e senza una campagna promozionale riconoscibile, con un proprio nome. A dirla tutta é successo senza un nome pronunciabile.

Il marchio si pronuncia Alix, come il nome della figlia maggiore, che proprio quando comincia la processione si mette a correre e ridacchiare attorno alla statua di Savonarola, uno dei figli più famigerati di Ferrara, il frate che nel quindicesimo secolo inveì contro la corruzione del clero e si divertì a dare fuoco ai libri, fino a quando non venne processato per eresia.

Williams, la moglie Jennifer che supervisiona le vendite, Alyx e la sorellina Valetta, nata a giugno, tutta la famiglia ha dovuto sforzarsi per adattarsi alla nuova casa, dove si è trasferita per essere più vicina al partner commerciale Luca Benini, distributore italiano di street wear, e per lavorare accanto alle aziende con cui lui produce le sue collezioni.

I quattro abitano in un appartamento del centro e raggiungono le aziende che producono i vestiti muovendosi con una Land Rover a noleggio. Stanno imparando a vivere senza i comfort di New York, dove tutto è reperibile 24 ore al giorno, sette giorni su sette. Qui c’è pochissima gastronomia etnica, assente il cibo da asporto, l’hummus si trova in un solo supermercato dall’altra parte della città. E le barriere linguistiche rimangono importanti: in famiglia è Alyx, che ha tre anni, la più disinvolta in italiano. «Ogni tanto ci sembra di essere dentro a un weekend romantico», racconta Williams davanti a un piatto di pastasciutta, a pranzo nella trattoria che ospita la maggior parte dei sui pasti. «L’atmosfera è molto accogliente. A nessuno interessa se non parli italiano. Tutti continuano comunque a parlarti. In italiano».

Williams ha 31 anni e la sua figura qui certamente non passa inosservata, con i capelli rasati sulla nuca, gli abiti tendenti al militare (preferisce pantaloni su misura, stivali e cinture di pelle), i tatuaggi sparpagliati un po’dapperutto e il piccolo piercing ad anello incastrato tra il labbro e la gengiva. «Matt si stupisce sempre quando la gente si ricorda di lui», confida sua moglie, «ma per forza, gli dico, sei coperto di disegni». Ma non è sempre stato così. Cresciuto nella California centrale, da adolescente Williams non ebbe molti riscontri da un punto di vista artistico, fatta eccezione per il corso di scultura frequentato alle superiori. «Nel posto da dove provengo le persone non pensano che essere un artista o lavorare nella moda possa essere una carriera reale», spiega.

Si iscrisse all’Università della California, a Santa Barbara, per studiare arte ma si ritirò dopo un semestre perchè preferiva passare l’estate a Los Angeles, ad aiutare un amico impegnato nella produzione della sua prima collezione in denim. Proprio lì incontró la sua futura moglie: fuori da un club, la notte in cui lei festeggiava il suo ventitreesimo compleanno, mentre lui era ancora formalmente minorenne.

«In quel periodo lavoravo da Maxfield» racconta la futura signora Williams, riferendosi a una delle migliori boutique di Los Angeles, attualmente tra le promotrici di Alyx. «Avevo speso tutto il mio stipendio per una maglietta e delle scarpe di Dries Van Noten. Quando lui mi chiese “queste sono di Dries, giusto?” pensai: tu conosci queste cose? Oh mio dio, ma chi sei?». Al loro primo appuntamento ufficiale, fuori dal locale dove dovevano andare, a lui fu richiesta la carta d’identità, quindi venne bloccato alla porta. Tre mesi dopo, nonostante la candidatura di Jennifer al corso di moda della Parson fosse stata rifiutata, decisero di trasferirsi assieme a New York.

Nella Grande Mela – solo temporaneamente, col senno di poi – la coppia si separò. Williams, che confessa essere stato un ragazzo da club, passava fuori tutte le notti. Iniziò a collaborare e a frequentare Lady Gaga, lavorando ai suoi video, ai suoi spettacoli e ai costumi che indossava, sul palco e nella vita quotidiana. In quel periodo – mentre aiutava Gaga a creare una nuova tendenza vintage – incontrò Nick Knight, il fotografo inglese che aveva contribuito a far brillare generazioni di talenti nel campo della moda, da Yohji Yamamoto ad Alexander McQueen. «Dalla porta dell’hotel alla porta della limousine ci vogliono sei passi felpati», disse Knight, «il personaggio si costruisce in questi sei passi». E così fece Williams.

Dopo un periodo trascorso a lavorare sia per Lady Gaga che per Kanye West, che stavano progettando un tour assieme, Williams decise di andarsene dal team di Lady Gaga, ritrovò Jennifer e continuò a lavorare esclusivamente per Kanye West, nella veste di direttore artistico dei suoi tour e dei suoi album. Ed è in questo ruolo che incontrò Virgil Abloh, direttore creativo di West, poco prima che Abloh fondasse il proprio marchio, Off-White.

Williams e Abloh trascorsero assieme giorni e notti, viaggiando attraverso il Paese, consumati dalla loro stessa ambizione, ansiosi di creare qualcosa di nuovo. Assieme a degli amici fondarono Been Trill, un collettivo flessibile che a diverso titolo produsse registrazioni e brani inediti, organizzò feste e solo occasionalmente disegnò vestiti.  «É stato più che altro un gioco tra di noi», racconta Abloh, «un modo per esprimerci, buttare fuori l’eccesso di idee che avevamo». Ma Been Trill si trasformò presto in un fenomeno di costume e in una piattaforma di lancio. «Ci ha insegnato tantissimo» continua Abloh. «Ci ha abituati a credere nelle nostre idee. Mi ricordo quando dicevo a Matt: amico, tu da solo potresti realizzare molto di questo intero progetto collettivo».

L’entusiasmo trascinante di West impressionò Williams: «da quell’esperienza ho imparato l’etica del lavoro. Lui lavorava senza fermarsi, con una grande fiducia in sè stesso. Mi ha insegnato a credere veramente in me stesso e a trasformare questa fiducia in azione, a far diventare reali le cose che volevo creare». Ma la fatica di viaggiare e di seguire il passo degli spettacoli di West in giro per il mondo si faceva sentire. «Ho vissuto con la valigia in mano per qualcosa come sei o otto anni», racconta Williams. «Io e Jenn ci eravamo sposati e avevamo appena avuto Alyx. Volevo dedicarmi al mio sogno, che era quello di definire un brand che fosse mio, per realizzare i vestiti che avevo sempre desiderato».

Trovò un partner in Benini, che investì personalmente su Alyx. Con la sua azienda, Slam Jam, Benini aveva introdotto in Italia i marchi tipici della cultura surf e skate californiana, ma non aveva mai prodotto una linea. E non stava nemmeno cercando un partner con questo proposito, ma quando Williams arrivò da lui capì che quello era l’uomo giusto, anche se non l’aveva cercato.

Williams ha una devozione da seguace per la moda e le sue divinità – una lista parziale dei suoi innamoramenti comprende Hedi, Margiela, Helmut, Raf, Rick, Rei, Yoshji – ma non ha una formazione specifica. Per Benini questo non è un deterrente: «ha la sensibilità del direttore artistico, per il contesto e per la cultura. Conosce l’arte, la musica e la storia della moda. Oggi questa figura è cruciale. Deve conoscere la tradizione della moda, ma ancora di più capire cosa c’è dietro le sue rappresentazioni». E Abloh è d’accordo: «credo assolutamente nelle capacità di Matt come direttore creativo. Alyx è un marchio di design di primo livello per le giovani generazioni. E insieme, tutti noi stiamo scrivendo la sua storia».

Più o meno a dieci chilometri a sud di Ferrara, venti minuti con il Land Rover, l’azienda Mary Fashion produce vestiti per alcuni dei maggiori marchi del lusso italiano. Fondata trent’anni fa, in origine era specializzata in biancheria da donna, ma da allora ha espanso notevolemente le sue offerta. Williams, i cui disegni possono incorporare tappi metallici per accendini o circuiti, i cui tessuti possono richiedere trattamenti plastificanti, riflettenti o tecnici, spesso spinge la capacità dell’azienda ancora più in là. «La collezione di Matthew non ha niente a che vedere con quello che abbiamo prodotto negli ultimi vent’anni», racconta il manager Alessio Bonora.

Ci fermiamo vicino a un tavolo da cucito dove una donna sta decorando un capo stampato con una delle fantasie di Williams, una macchia di inchiostro ripresa da un’impronta di sangue rimasta su un fazzoletto dopo uno dei suoi tatuaggi stick and poke. «Lo stile di Alyx – spiega Williams – è più una sensazione che un credo, o forse più probabilmente è un mix di sensazioni, perché viene disegnato in egual misura dall’aggressività della strada, dall’austerità gotica, dalla lucentezza dello smalto militare».

Anche se col rischio d’esser privo di humour, una delle firme e dettagli costanti della collezione è una fibbia heavy metal trovata e poi fatta recuperare dopo una gita al parco di divertimenti Six Flags. La scritta St. Marks Place, strada storica della New York punk rock, è stampata su ogni prodotto. Il primo studio di Alyx si trovava in quel quartiere, lo stesso dove Williams spera di aprire il primo negozio monomarca.

Ma questo è il futuro. Nel presente, Alyx cresce un passo alla volta. Quest’anno è arrivata la collezione da uomo, anche se gli store giapponesi spesso comprano prima quella da donna, per capire poi se l’interesse può diventare anche maschile. Sta vivendo la fase “del passaparola”, aiutato dall’adesione di ragazze come Hadid e Molly Bair – modella dai lineamenti elfici, considerata da Williams una specie di musa, impegnata assieme a Knight nella realizzazione dello shooting fotografico.

Bair ama il suo bomber firmato Alyx, ne parla con entusiasmo e lo indossa tutto l’inverno. Contattata telefonicamente a New York, ha raccontato di avere ai piedi le Vans disegnate da Alyx (con l’azienda Williams collabora continuativamente, rappresenta le sneaker della sua giovinezza californiana). «Ho anche un paio di pantaloni a zampa viola, che indosso sempre, per i quali ricevo sempre tantissimi complimenti», aggiunge la modella.

Williams ha bisogno di evangelisti così, perché Ferrara è fuori dai tradizionali circuiti della moda. Sta lavorando sui dettagli, sperimenta da una piattaforma economicamente sostenibile. Tornati in azienda, le sarte gli sorridono e lo salutano. Una di loro bisbiglia qualcosa in italiano a Bonora, che spiega: “è spaventata per quello che hai addosso”. Indica l’anello d’argento agganciato tra il labbro superiore di Williams e il suo incisivo, «vorrebbe sapere se fa male».

«No, non così male», risponde Williams di buon umore. «C’è solo un piccolo strato di pelle».

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