INTRO: Cos’è POLIS SPORTIVA?

Una delle particolarità del calcio è che riesce ad ancorare luoghi, tempi e storie. Talvolta la semplice pronuncia del nome di una squadra apre una finestra sulla città che ne ospita i colori. Basta frequentare come avventori un bar o un ristorante di una qualsiasi provincia italiana per accorgersi che l’esposizione di un poster calcistico alla parete rimanda agli anni e al contesto sociale in cui quei calciatori hanno vissuto. Dalla capigliatura al look, dallo spazio riservato agli sponsor e ai cartelloni pubblicitari nello sfondo, fino agli scorci di stadio immortalati nelle immagini, ogni dettaglio restituisce un pezzo di quella comunità. Ne fotografa le atmosfere. Prova a catturarne il tempo andato. La magia si accende con la scelta cromatica della casacca. Inter e Spal, future rivali in campionato, per esempio, presentano entrambe una maglia a strisce verticali. Nerazzurri contro biancazzurri. Un colore ricorrente e uno diverso, che fa la differenza. Come diverse sono Milano e Ferrara, pur conservando qualche elemento in comune. Partendo proprio da questo spunto, dalle analogie evidenti o invisibili fra le due città, proviamo a raccontare le sensazioni che suscita la prossima avversaria spallina. Pescando in un contenitore immaginario che mescoli il serio e il faceto, ci rivolgiamo a Enrico Frabetti, appassionato di calcio, autore del blog ‘L’Eco del Po’ e cuore diviso fra Inter e Spal. Con lui affrontiamo un percorso a otto tappe.

Uno. Arte di strada.

Si è da poco conclusa la trentesima edizione del ‘Ferrara buskers festival’. Dedicata in prevalenza alla figura del musicista di strada, la manifestazione ha assunto, negli ultimi anni, un carattere sempre più itinerante. Nel 2015, l’anteprima si è svolta proprio a Milano, con i buskers che si sono esibiti fra piazza Duomo e il Castello Sforzesco. Fra i calciatori che hanno indossato la casacca nerazzurra, c’è qualcuno che rassomiglia al prototipo dell’artista di strada?

«Tra le cosiddette Grandi, l’Inter è, forse, quella che più di ogni altra ha avuto un rapporto privilegiato col talento anarchico. Da Lennart Nacka Skoglund, ala sinistra dalla classe sopraffina e dalla vita tormentata che deliziò la San Siro nerazzurra negli anni cinquanta, a Mariolino Corso ‘il Piede sinistro di Dio’, fino ad arrivare a Evaristo Beccalossi, genio talmente discontinuo da essere ricordato più per il bellissimo monologo di Paolo Rossi sui due rigori sbagliati contro lo Slovan Bratislava che per le sue imprese in campo, non c’è generazione di interisti che non abbia vissuto un amore travagliato con uno dei suoi campioni.

Personalmente, il giocatore dell’Inter che più ho amato è stato Alvaro El Chino Recoba. Nessuno lo conosceva quando, nell’estate del 1997, arrivò a Milano. Quella era stata l’estate del sensazionale acquisto di Ronaldo e tutti noi tifosi non vedevamo l’ora di veder giocare il Fenomeno. Il 31 agosto, alla prima giornata di campionato, l’Inter ospitava il Brescia: quale migliore occasione per assistere allo show del brasiliano? Invece i minuti passavano e il risultato rimaneva inchiodato sullo 0-0, la voce roca di Sandro Ciotti, che raccontava la partita per Tutto il calcio minuto per minuto, non regalava speranze. Poi, a un quarto d’ora dalla fine, il gol di Tatanka Hubner per l’1-0 del Brescia ci faceva ripiombare nel nostro abisso d’angosce: nemmeno con il miglior giocatore al mondo riuscivamo a vincere!

Chissà cosa deve essere passato per la testa di Gigi Simoni, allenatore di quell’Inter, quando, voltandosi verso la panchina, ha incrociato lo sguardo di un ragazzino uruguagio dai tratti somatici vagamente orientali, di cui Moratti si era invaghito vedendolo segnare un gol incredibile con la maglia del Nacional di Montevideo, dopo aver dribblato l’intera squadra avversaria col pallone incollato al piede sinistro. “Alzati Alvaro – gli avrà detto – prova a risolverla tu”. Detto fatto, a pochi minuti dal suo ingresso El Chino tirò una sassata mancina all’incrocio dei pali, replicata pochi minuti dopo con un gol su punizione da distanza siderale. L’Inter vinse quella partita 2-1 e io mi innamorai del Chino, l’ultimo esempio di calciatore sudamericano che a quello che Jorge Valdano chiama ‘il calcio metallurgico’ di oggi ha saputo contrapporre la meravigliosa indolenza del talento fine a sé stesso. Dopotutto, come dice il Perozzi, “Che cos’è il genio? È fantasia, intuizione, decisione e velocità d’esecuzione”. In una parola, Recoba».

Due. Storia.

Gli Estensi furono un’antica famiglia italiana, signori dal 1208 e duchi dal 1471, di Ferrara. Nel loro albero genealogico, c’è spazio per la discendenza dalla casata degli Obertenghi, dinastia franca legata a Oberto I, marchese di Milano. Se ti chiedo il nome di un interista che sintetizzi la storia di questa società, chi ti viene in mente?

«Senza alcun dubbio Giacinto Facchetti, uno dei primi terzini moderni della storia del calcio italiano e non solo. Un signore dentro e fuori dal campo. E poi non è da tutti essere anche il protagonista di un romanzo, il bellissimo Azzurro Tenebra di Giovanni Arpino che nella prima edizione, quella del 1977, ha proprio una foto di Facchetti in copertina, “Mon Capitaine” come lo chiamava Arpino a sottolinearne l’eleganza».

Tre. Gastronomia.

La cotoletta alla milanese rappresenta un piatto tipico della cucina meneghina. Nella città estense è la specialità di un ristorante del centro, luogo di ritrovo di studenti e turisti. Importante, nella ricetta, è la pressione della carne nella panatura, avendo cura di raggiungere una completa adesione. A questo proposito, nel tuo immaginario sportivo, c’è un calciatore nerazzurro efficace nel ruolo di collante fra i reparti?

«Per l’Inter sono passati tanti campioni. Se, però, devo pensare a un giocatore utile nel dare equilibrio al gioco, penso a un’Inter minore e a un calciatore che certo non è stato un fuoriclasse. Stagione 1992-93, finita l’era Trapattoni e tramontata l’utopia di Orrico e della sua famosa ‘gabbia’, Ernesto Pellegrini, l’allora presidente, quello che Agnelli definì il suo cuoco perché con la sua impresa di catering riforniva le mense di Mirafiori, chiama come allenatore ‘Schopenauer’ Bagnoli, reduce dal piccolo miracolo del Genoa con cui era arrivato in semifinale di Coppa Uefa andando a espugnare l’Anfield Road di Liverpool e, qualche anno prima, dal grande miracolo dello scudetto a Verona. Non gli affida una grande Inter: non ci sono più Matthäus e gli altri tedeschi, ma sempre dalla Germania arriva un oggetto misterioso, Mathias Sammer, che verrà sbrigativamente rispedito al mittente con l’etichetta di bidone già a novembre (negli anni successivi vincerà un Pallone d’Oro e altri trofei assortiti col Borussia Dortmund, ma questa è un’altra storia che, ahinoi, si ripete ciclicamente). A metà campionato il distacco dal Milan primo in classifica è di undici punti e l’Inter è una squadra senza capo né coda. Poi, dal mercato di riparazione arriva Antonio Manicone, oscuro centrocampista non certo nelle grazie degli dei del calcio, una carriera spesa nei campi bollenti del sud tra serie C e B. Con lui, però, la squadra trova un suo equilibrio e, complice anche un comprensibile rilassamento dei rossoneri, partita dopo partita, vittoria dopo vittoria, inizia un improbabile inseguimento alla vetta. Noi interisti, come quasi tutti i tifosi di questo mondo, siamo gente dall’entusiasmo facile e c’eravamo illusi che una squadra con Angelo Orlando, i fratelli Paganin e Igor Shalimov potesse competere nientemeno che col Milan di Gullit e Van Basten. Un lunedì mattina era in programma un compito in classe d’italiano, ma il professore del ginnasio, non avendo avuto tempo o voglia di inventarsi un titolo per il tema, ci disse di farne uno a piacere. Io colsi la palla al balzo e scrissi un commento alla giornata di campionato del giorno prima, concludendo che lo scudetto l’avremmo vinto noi e che la classe operaia, rappresentata da quei quattro scarponi che avevamo in squadra, sarebbe tornata in Paradiso. Fu un gol di Gullit, in un pomeriggio di pioggia alla vigilia di Pasqua, durante un Inter- Milan terminato 1-1, a spegnere gli entusiasmi e a riportarmi coi piedi per terra, ma per qualche mese Manicone, per me, fu “megl’è Pelé”.

P.s: non ho mai saputo che voto presi in quel tema. Il professore d’italiano, evidentemente di fede rossonera, non me lo riportò più. Probabilmente avrà usato quel foglio protocollo per usi meno nobili».

Quattro. Fumetti.

La sede principale della storica casa editrice ‘Sergio Bonelli’ si trova a Milano. Una realtà che conta numerose pubblicazioni in corso. E alcuni disegnatori bonelliani abitano proprio nella città estense. Se tu fossi un fumettista e volessi raccontare, attraverso le vignette, la storia di un interista, su quale calciatore ti soffermeresti?

«Non mi soffermerei su un calciatore, quanto piuttosto su un allenatore. Lui si chiama Mourinho, José Mourinho e, per rimanere ai fumetti della galassia bonelliana, lo paragonerei senz’altro a Tex.

Non ho mai avuto particolare considerazione per gli allenatori, li ho sempre visti con un certo fastidio, ottusi come quasi tutti i rappresentanti dell’Autorità, gente un po’ sopravvalutata che, per dirla con Galeano, “crede che il calcio sia una scienza e il campo un laboratorio”. Eppure, qualche volta, anche questa categoria ha le sue brave eccezioni, gente che conosce il valore relativo degli schemi e sa che, in fin dei conti, i calciatori sono uomini e non puntini su una lavagna. Mourinho è una di queste eccezioni, capace di farsi seguire dai suoi giocatori e dal suo popolo per lo smisurato carisma, tanto da essersi assicurato con largo anticipo un posto accanto al ‘Mago’ Herrera nel Pantheon nerazzurro. Certo l’Inter che aveva in mano era uno squadrone, ma non era la squadra più forte d’Europa, eppure in quell’irripetibile primavera del 2010 José, come bambini cresciuti, ci ha accompagnati per mano nel suo personale luna park.

Ricordo in particolare una partita, la semifinale di ritorno della Coppa dei campioni contro il Barcellona: all’andata avevamo vinto 3-1 dopo novanta minuti memorabili. Che fosse il nostro anno dovevamo intuirlo anche dal fatto che un vulcano islandese dal nome impronunciabile proprio in quei giorni aveva deciso di eruttare, mettendo in ginocchio il traffico aereo europeo e costringendo il Barcellona a farsela in pullman fino a Milano. Quello era il Barcellona di Guardiola, senza dubbio la squadra migliore degli ultimi trent’anni e, nonostante la sconfitta di Milano, erano assolutamente certi di poter realizzare la remuntada al Camp Nou. Già un’ora prima della partita erano iniziati i tipici processi fisiologici del tifoso in trance agonistica: salivazione azzerata, mani sudate e sguardo fisso da serial killer. Soltanto Teresa, mia moglie, oltraggiosamente juventina, era ammessa in salotto, anche perché non avrei avuto argomenti abbastanza convincenti per buttarla fuori da casa sua. Dopo ottantaquattro minuti di sofferenze inenarrabili, quando ormai sembrava che potessimo uscire a riveder le stelle, Piquè, difensore del Barça, segna l’1-0: a quel punto solo un gol bastava al Barcellona per eliminarci. Mi giro verso Teresa e leggo nei suoi occhi una preoccupazione che non le ho mai più rivisto: temeva, probabilmente, che suo marito potesse impazzire. In quel momento in tv inquadrano Mourinho, impassibile mentre tutto lo stadio lo insulta, come se già sapesse che quel calvario alla fine sarebbe stato premiato con l’ovvia resurrezione. Mi aggrappo a quell’immagine e comincio a recitare una preghiera laica dedicata a San José da Setubal e, miracolosamente, io e l’Inter sopravviviamo fino alla fine. In quel momento abbiamo vinto la Coppa, troppo scontata la finale col Bayern Monaco. E da allora, ogni 28 di aprile, a casa mia si festeggia San José».

Cinque. Musica.

Una delle realtà più originali che animarono la scena musicale milanese e italiana, a partire dagli anni Settanta, risponde al nome di Area. Fra le caratteristiche del gruppo, la capacità di fondere esperienze musicali come jazz, pop, elettronica. Uno degli attuali componenti è il ferrarese Ares Tavolazzi. In tema di fusione di generi, chi è il più eclettico fra i calciatori interisti?

«Un giocatore molto eclettico, che ha vestito le maglie sia della Spal che dell’Inter, è stato Saul Malatrasi, capace di giocare in tutti i ruoli della difesa, da marcatore a libero (spesso nella Grande Inter sostituiva capitan Picchi), a mediano e anche terzino, benché non amasse particolarmente quest’ultimo ruolo. Ho la fortuna di conoscerlo, abita vicino a Ferrara e l’ho intervistato un po’ di tempo fa e anche in settimana, prima di questa partita speciale sia per lui che per me, sia pure per motivi diversi, ci siamo sentiti. Mi ha raccontato di quel famigerato Inter- Spal 8-0 della stagione 1958/59, la sua prima in biancazzurro; lui che, appena ventenne, esordiva a San Siro, l’incredibile emozione di trovarsi in uno stadio del genere ad affrontare campioni come Skoglund e Angelillo. A Saul quell’esordio non andò particolarmente bene, anche se poi nel corso della sua gloriosa carriera, trascorsa in parte con la maglia nerazzurra, ha dovuto affrontare ambienti ben più caldi, soprattutto le avventurose trasferte in Sudamerica per giocare la Coppa Intercontinentale. Per cui se i giocatori della Spal avessero bisogno di consigli su come si gestisce il ‘miedo escénico’ potrebbero sempre chiedere a lui».

Sei. Pop art.

La trasformazione dell’opera d’arte da oggetto dotato di unicità a prodotto seriale si deve ad Andy Warhol. L’artista partecipò ad alcune sue mostre in Italia. Nel 1975 passò da Ferrara e nel 1987 approdò a Milano, poco prima della sua scomparsa. A lui è attribuita la frase, secondo la quale in futuro tutti saranno famosi per quindici minuti. C’è una partita dell’Inter che per te è diventata famosa per quindici minuti?

«Nicolino Berti intercetta un passaggio di Augenthaler all’altezza del limite dell’area di rigore dell’Inter e comincia a correre. Fa un freddo cane quella sera del 23 novembre 1988 a Monaco di Baviera, con un po’ di immaginazione si può vedere la nuvoletta di condensa gelata uscire dalla bocca di Bruno Pizzul, eroicamente appollaiato in cabina di trasmissione per un classico mercoledì di coppa su Raiuno. Corre Nicolino, davanti a sé ha oltre sessanta metri di campo e l’intera difesa del Bayern da superare, il più mingherlino è alto uno e novanta e pesa ottantotto chili. Vola Nicolino, i difensori gli si aggrappano alle mutande, lui sembra perdere l’equilibrio ma resta miracolosamente in piedi, sicuramente sente dalla tribuna la voce nasale di Pizzul che grida tre volte “Berti, Berti, Berti…”, un po’ come sei anni prima Martellini gridò tre volte “Campioni del mondo” al Santiago Bernabeu. È stremato Nicolino, ora davanti a lui c’è solo il portiere tedesco, un truzzo dai capelli mechati e dal baffo cattivo che gli esce sui piedi; Nicolino gli tira addosso, ma il pallone passa tra le gambe del truzzo e rotola nella porta vuota. Ora Nicolino va a raccogliere l’abbraccio della sua gente sotto la curva, superando anche lo sbarramento di neve spalata a bordo campo prima dell’inizio della partita, mentre Pizzul, la voce rotta dalla commozione, sembra Victor Hugo Morales nella famosa telecronaca del gol di Maradona contro l’Inghilterra, quella del “barrilete cosmico”. È il gol del 2-0 con cui l’Inter espugna l’Olympiastadion di Monaco di Baviera nell’ottavo di finale ‘nobile’ di quella Coppa Uefa; dieci minuti prima Aldo Serena ci aveva portati in vantaggio. Non c’era stato bisogno nemmeno di quindici minuti per confezionare questo capolavoro.

Al ritorno a Milano il Bayern vinse 3-1 e ci eliminò… ».

Sette. Cinema.

Nel 1950 esce il film ‘Cronaca di un amore’, diretto dal regista ferrarese Michelangelo Antonioni. La pellicola, girata perlopiù a Milano, racconta una storia a metà fra il dramma sentimentale e il noir. Quanto, queste due componenti, hanno condizionato l’umore del tifoso interista negli ultimi anni?

«Di solito i bambini scelgono di tifare per la squadra più bella e vincente di quel particolare momento storico. Quand’ero bambino io i miei compagni di scuola erano quasi tutti milanisti e come dar loro torto visto lo squadrone che era il Milan di Sacchi? È stato mio zio, invece, a fregare me regalandomi una maglia dell’Inter quando avevo cinque anni (in realtà era poco più che uno straccio di cotone a strisce verticali nerazzurre, niente a che vedere con le maglie tecniche di oggi). Con quella maglia giocavo tutti i giorni a pallone con gli altri bambini nel cortile e non avrei mai detto che, a causa di quel regalo, avrei patito così tante sofferenze. Inutile raccontare delle prese in giro dei compagni milanisti: mentre loro vincevano Coppe dei campioni assortite, noi neanche un Mundialito per club. Mi sono preso una piccola rivincita nel 1989, con lo ‘scudetto dei record’ vinto dall’Inter di Trapattoni e dei tedeschi, ma è stata una gioia effimera: nella successiva Coppa dei campioni, che alla fine fu vinta dal solito odiato Milan, noi fummo eliminati al primo turno dall’anonima squadra svedese del Malmö e anche lì giù con i magoni. Quando l’Inter di Trapattoni vinse lo scudetto io andavo in quinta elementare; ero già laureato quando nel 2006, dopo quasi una generazione, ne rivincemmo uno, quello che ci fu assegnato dopo la revoca alla Juventus per il caso Calciopoli (che, detto di passaggio, per me resta il più bello in assoluto). Nel mezzo tanti drammi personali, con una data che ancora oggi rimane scolpita nella memoria come la più grande Caporetto nerazzurra, il cinque maggio, che non è solo una poesia di Manzoni. Insomma, tifare Inter è stata un’esperienza che ha formato il mio carattere: negli anni, crescendo, ho cercato di giustificare le tante umiliazioni patite ripetendomi spesso quel proverbio spagnolo che dice “la sconfitta è il blasone dell’animo nobile”. E quando nel 2010, grazie a quel santo portoghese di cui ora non ricordo il nome, siamo riusciti a vincere la Coppa dei campioni è come se avessi varcato la sottile linea d’ombra che separa la giovinezza dalla vita adulta. Tutti i miei desideri di bambino che riguardavano l’Inter si erano realizzati e una vita di sofferenze aveva avuto il suo meritato premio».

Otto. Composizione.

Temistocle Solera nacque a Ferrara e morì a Milano. Fu librettista, compositore e scrittore. Conquistò la notorietà grazie alla collaborazione con Giuseppe Verdi. Per lui scrisse anche il libretto di Nabucco. Dietro ogni goleador c’è il prezioso contributo di un assist-man. Chi è il primo, nella galassia nerazzurra, al quale pensi?

«Dico Luisito Suarez.

Sono poche le squadre di cui si tramanda a memoria la formazione, come fosse uno scioglilingua. C’è il Grande Torino con Bacigalupo, Ballarin, Maroso, Grezar, Rigamonti, Castigliano, Menti, Loik, Gabetto, Mazzola, Ossola e, poi, c’è la Grande Inter: Sarti, Burgnich, Facchetti, Bedin, Guarnieri, Picchi, Jair, Mazzola, Domenghini, Suarez, Corso. Di quella squadra che a metà degli anni sessanta dominò in Europa e nel mondo si dice che arrivasse al gol con tre passaggi. L’azione partiva dai piedi di Picchi, il libero, che consegnava la palla a Suarez il quale, con i suoi precisissimi lanci di sessanta metri, metteva gli attaccanti davanti alla porta. “Giocare a calcio è semplice, ma giocare un calcio semplice è la cosa più difficile”, diceva Johan Cruijff, forse il più grande rivoluzionario della storia di questo sport. Sicuramente la sua idea di gioco era diametralmente opposta a quella che il Mago Herrera praticava nella Grande Inter, ma mi piace immaginare che, quando parlava del concetto di semplicità applicato al gioco del calcio, Cruijff pensasse anche a quella squadra e al suo geniale architetto, Luisito Suarez».

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