INTRO: Cos’è POLIS SPORTIVA?

Il guizzo di un ventunenne che risolve una finale è come un colpo di pennello fresco su una tela che si stava asciugando. E il gol del laziale Alessandro Murgia alla corazzata bianconera, negli ultimi minuti di recupero della Supercoppa italiana, è un soffio di vento che scompiglia la sabbia estiva delle chiacchiere e delle previsioni sul prossimo campionato. La sabbia è un’immagine efficace delle certezze da costruire, distruggere e rimodellare. Riporta allo stato primo della materia e, a volte, funge da luogo dove coltivare ricordi. Così una piccola porzione di spiaggia diventa una lavagna sulla quale disegnare. Un manto di superficie piana dove imprimere segni e linee con l’indice della mano. Liscia al tatto, in maniera che ogni eventuale errore sia pronto per essere cancellato. Attraverso una morbida e repentina torsione del polso fino a quando la base ritorni una pagina bianca. Su quel foglio di granellini compatti, io e i miei amici immaginavamo le partite che avremmo visto qualche settimana più avanti.

Le estati della scuola media, nei primissimi anni Novanta, erano un’autostrada dove far correre la fantasia. E la fantasia scaturiva persino dalla pronuncia di una serie di numeri. Cinque-tre-due, schieramento coperto. Quattro-quattro-due, molto più ordinato. Quattro-tre-tre, decisamente spregiudicato. Improvvisavamo i moduli delle formazioni delle squadre dell’imminente campionato e li traducevamo in minuscoli solchi sulla spiaggia, giocavamo con le previsioni dei quotidiani sportivi e azzardavamo gli acquisti e le cessioni importanti in una sorta di fantacalcio ante litteram. Poi tornavamo a coltivare le nostre vite di preadolescenti. Ad agosto, i nomi dei campioni stranieri avevano un suono più seducente. Li pescavamo da una dimensione sospesa di un continente che magari non conoscevamo nemmeno, se non per averne imparato a scuola le coordinate geografiche, e li marcavamo con un segno sulla sabbia che ne definisse il ruolo nel modulo della squadra di appartenenza.

Uno degli attaccanti più forti e più gettonati dell’epoca si chiamava Rubén Sosa e vestiva la casacca della Lazio. Come l’avversaria sorteggiata dalla Spal per la prima di campionato. Ogni volta che sentivo scandire da un telecronista il nome della compagine biancoceleste, pensavo a quanto fossero fortunati quei tifosi ad avere la punta uruguayana in squadra. Il suo era un sinistro preciso e potentissimo, e da lontano era micidiale. Una sciagura per i portieri avversari non riuscire a vedere in tempo lo scoccare di ogni suo tiro. Soprattutto nei calci di punizione. Prendendo in prestito una delle tante metafore calcistiche in uso fra i commentatori sportivi, credo che la parola ‘fucilata’ renda bene l’idea. Un fuciliere con la maglia della Lazio. E, forse per bilanciarne la spietata abilità balistica, c’erano quei tratti somatici che mi ricordavano l’attore Scott Baio, il cugino Charles di ‘Happy days’. Con un’espressione però incattivita dall’agonismo del match. Qualche tempo dopo sarebbe arrivato Sinisa Mihajlovic, a contendergli il primato di letale battitore di punizioni.

Anni lontani, sganciati da internet ma pregni di collegamenti surreali fra le cose. I fan delle squadre moderne fanno forse più fatica a provare empatia per i loro tesserati, anche per via della più ridotta durata dei contratti, eppure nei cassetti del proprio immaginario sportivo ciascun tifoso conserva un angolino nostalgico riservato ai suoi beniamini. Quella di oggi non è certamente la Lazio di Rubén Sosa Ardaiz da Montevideo, ma i suoi attaccanti non sono meno prolifici. Lo testimonia il curioso ossimoro racchiuso nel nome del suo centravanti. Quel Ciro Immobile all’anagrafe, tanto dinamico invece in area di rigore, da trovare nel reparto offensivo delle aquile un bottino di ventitré reti, durante lo scorso campionato.

Non è la Lazio dello storico Silvio Piola, che sfiorò lo scudetto sul finire dell’annata 1936/37, e che tuttora detiene il record di cannoniere della serie A di tutti i tempi. Non è la Lazio della ‘banda Maestrelli’, quella legata alla stagione 1973/74, e ai nomi di Chinaglia, di D’Amico, di Frustalupi, di Wilson, di Re Cecconi. E di un campionato conquistato ad appena due anni dalla promozione. In quell’organico vincente è presente anche Ferruccio Mazzola, che tuttavia non disputerà alcun minuto, e che tredici anni dopo siederà sulla panchina della Spal come allenatore. Non è la Lazio del boemo Zeman, col tridente d’attacco Rambaudi-Casiraghi-Signori, insieme all’eccentrico Gazza Gascoigne, più arretrato a centrocampo. E non è neppure la Lazio del secondo scudetto, con il capitano Alessandro Nesta, perno della difesa e futuro campione azzurro. Quella delle corse di Nedved e della grinta di Simeone sulla mediana. Quella del colpo di tacco di Mancini su calcio d’angolo al Parma, dell’anno prima.

Non è nessuna di quelle Lazio, perché ogni anno c’è una storia nuova da raccontare. Ma agli occhi dei suoi supporter, come a quelli di tutti gli altri verso le rispettive squadre, la maglia di gioco è una specie di staffetta materiale che resiste al tempo. Un testimone flessibile che, senza snaturarsi, tende ad adattarsi alle sembianze del portatore di turno. Che insieme agli altri compagni alimenta un circuito sportivo, oltre che emozionale. Nel frattempo trascorrono gli anni, cambiano i cicli e si succedono le stagioni. Il tempo non accelera e non rallenta se non nei ricordi. Continua a fluire come i granelli di sabbia di una clessidra. Che se fossero stesi su un’area piana comporrebbero un’altra lavagna. Sulla quale giocare, come ragazzini nelle estati al mare.

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