Sono ancora io. Tre parole poste sul lato sinistro di un volantino, per rimarcare il valore prezioso di ogni esistenza attraversata da un cambiamento. C’è un progetto, promosso dalla Cooperativa sociale ‘Riabilitare’, in collaborazione con il Comitato di Ferrara dell’Associazione nazionale donne operate al seno e delle associazioni ‘Viale K’ e ‘Il Mantello’, che intende offrire riabilitazione e supporto psicologico. Nel dettaglio, l’iniziativa presentata, in programma da marzo a novembre, coinvolge undici donne operate al seno e iscritte all’Andos. Il gruppo dunque si incontrerà nei locali messi a disposizione da ‘Viale K’ in via Mura di Porta Po, sotto la guida di uno psicoterapeuta e di una fisioterapista, insegnante di yoga. Contenere ed elaborare l’esperienza dolorosa e traumatica della malattia è la finalità di questo percorso, del quale abbiamo parlato con la responsabile Renata Beata Auguscik, che ha risposto alle nostre domande insieme alla fisioterapista Chiara Zannini, presidente della Cooperativa ‘Riabilitare’, e allo psicologo e psicoterapeuta Alessio Orlando.

Quando nasce la storia della cooperativa ‘Riabilitare’?

«La Cooperativa sociale ‘Riabilitare’ viene fondata nel 2014 per iniziativa di un gruppo di professionisti della riabilitazione, convinti della necessità di promuovere e offrire servizi di riabilitazione nel territorio e di dare una risposta alle esigenze reali delle persone nel loro ambiente familiare e sociale. ‘Riabilitare’ è una cooperativa sociale di tipo A: nasce quindi con lo scopo di “perseguire l’interesse generale della comunità alla promozione umana e all’integrazione sociale dei cittadini attraverso la gestione di servizi socio-sanitari e educativi”, come indiato dalla legge 381 del 1991. Operiamo quindi nel territorio con attenzione continua al coinvolgimento della comunità locale nelle sue forme sia pubbliche che private, per collaborare e costruire relazioni e reti indispensabili per conoscere i bisogni delle persone fragili e disabili, e contribuire in modo efficace al loro soddisfacimento. Offriamo un servizio professionale di riabilitazione integrata a quanti hanno superato la fase acuta di una malattia, risultano clinicamente stabilizzati, si trovano in situazione di disagio, residuano disabilità più o meno importanti, temporanee o definitive, non possono o non desiderano accedere ai servizi ambulatoriali. Supportiamo inoltre le famiglie nella comprensione e nella gestione delle problematiche assistenziali nella vita quotidiana: al centro del progetto non è infatti solo la persona disabile/fragile, ma anche chi se ne prende cura, il cosiddetto ‘caregiver’. L’attivismo della cooperativa ha portato ad avviare un percorso sperimentale in convenzione con l’Asl di riabilitazione domiciliare affiancato all’Adi. Un percorso avviato nel novembre del 2016 e rivolto alle persone che escono dall’ospedale in regime di dimissione protetta. Ad oggi sono state seguite dalla cooperativa una sessantina di persone per fratture di femore, sindromi da allettamento, ictus, Sla. Abbiamo inoltre avviato convenzioni, collaborazioni e alleanze con associazioni di volontariato del nostro territorio che si occupano nello specifico delle problematiche di determinate categorie di malati come Alice, Andos, Assisla, Aisla, Aism».

Quali categorie di professionisti ne fanno parte?

«Fisioterapisti, infermieri, uno psicologo, una neuropsicologa, una terapista occupazionale, una logopedista».

Come è nata l’idea di dar vita al progetto ‘S.A.I. Sono ancora io’?

«Nasce da un rapporto di collaborazione convenzionato con l’Associazione Andos, delle donne operate al seno. L’idea è quella di costruire un percorso per queste donne che vada oltre il trattamento fisioterapico, integrandone le acquisizioni attraverso le tecniche dello yoga e la psicoterapia nella dinamica coinvolgente del gruppo. In linea con lo spirito della cooperativa, si è cercata la collaborazione di un’altra associazione, ‘Viale K’, che da anni opera nella nostra città per favorire l’inclusione sociale e combattere il disagio. Da loro abbiamo ottenuto lo spazio/palestra dove fare i nostri incontri. Il progetto è stato realizzato grazie a un contributo offerto dalla Fondazione Susan G. Komen Italia, organizzazione senza scopo di lucro che opera dal 2000 nella lotta dei tumori al seno».

A cosa si deve la scelta di questo nome?

«Per molte donne questa malattia rappresenta un vallo, un confine: è come se esistesse un prima, quando la donna era sana e conduceva una vita regolare, e un dopo, caratterizzato dalla paura della non guarigione o della recidiva. ‘Sono Ancora Io’ significa cercare di recuperare il rapporto con il sé profondo, il nucleo intoccabile e inattaccabile, ponendosi nei confronti del cambiamento che la malattia sempre comporta con un’attitudine di accoglienza, non passiva ma proattiva, non di rigida resistenza ma di ‘resilienza’, per cercare cioè di rialzarsi, più forti di prima».

Come si articolano gli incontri con le pazienti?

«Gli incontri hanno durata di un’ora e 45 minuti. Cominciamo a lavorare con lo yoga per preparare il corpo a un’attitudine di ascolto di sé e delle altre partecipanti. Si prosegue poi con la fase successiva condotta dallo psicoterapeuta, volta a far emergere e rielaborare l’esperienza dolorosa e traumatica, comunicarla, condividerla. La finalità è consentire una migliore integrazione tra psiche e corpo».

In che misura le tecniche dello yoga agiscono nell’esperienza della malattia?

«Lo Hatha Yoga usa le posture, la respirazione e il silenzio per costruire una connessione con il sé. La pratica dello Yoga aiuta a coltivare la capacità di essere presenti, di accogliere e tollerare l’esperienza interiore, di sviluppare una nuova relazione con il proprio corpo che ha subito un trauma, un’amputazione. L’effetto del lavoro sul corpo indotto dallo yoga riverbera sul mentale e sull’emozionale, sulle relazioni con gli altri e nel mondo. Si tratta in sostanza di una pratica in perfetta assonanza e complementarietà con la parola che cura, della psicoterapia».

Come si pongono le pazienti nei confronti di questo progetto?

«Le partecipanti si pongono con molta curiosità e attesa nei confronti degli incontri. La composizione del gruppo permette di sentirsi accolte e capite, di rispecchiare se stesse nell’esperienza delle altre e di accedere pertanto a un vissuto emotivo anche semplicemente ascoltando ciò che emerge. Sanno che stanno affrontando un percorso di approfondimento che porta alla luce molto dolore, pertanto a loro non manca il coraggio. Sarebbe più facile fingere che nulla sia accaduto, rimuovere il ricordo e andare avanti. Purtroppo, però, questa strategia si rivela fallimentare: rischia di lasciare una ferita che è pronta a riaprirsi per travolgerle con il ricordo e le emozioni di un trauma non rielaborato. Le donne che hanno scelto di partecipare al progetto ‘S.A.I.’ sanno tutto questo, durante gli incontri non temono le lacrime che a volte sgorgano spontaneamente e, in altri momenti, ridono insieme perché sentono che il gruppo consente loro di esprimere il non detto e rendendo questa esperienza catartica. Il progetto è all’inizio, terminerà il prossimo autunno. Si tratta di un percorso sperimentale e innovativo. Sarà interessante verificarne gli esiti in chiusura, quando raccoglieremo le testimonianze delle partecipanti e presenteremo pubblicamente i risultati in termini di benessere percepito e qualità di vita».

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