Sabato mattina, esterno soleggiato, interno verde per chi è già in coda a fare il biglietto e visiterà i 50 giardini riaperti solo un weekend all’anno. Anche il Conservatorio di Ferrara riapre per un weekend ed è la prima volta da anni che si racconta alla città e ai curiosi. Con tutti i weekend che ci sono, dovevano farlo proprio in contemporanea ad altre mille cose? Chissà se alle 17 suoneranno l’inno della SPAL? Chissà se a farsi un giro tra le aule del vecchio edificio di Largo Antonioni troverò vecchi nostalgici del clavicembalo ben temperato o piuttosto bambini curiosi e potenziali talenti di domani?

In un mondo che corre e si evolve il Conservatorio sembra un piccolo mondo a parte, fuori dal tempo, legato a dinamiche del tutto sue e sconosciute ai più. Questo lo rende affascinante e al contempo straniante. Quando varco il pesantissimo portone (l’avete mai provato a spostare?) mi sembra di tornare al 1996, quando frequentavo il liceo e alle 13.25 uscivo da scuola per finire dritto dritto a lezione di pianoforte e solfeggio. Quanti panini avrò mangiato in quell’atrio? Quante stupidaggini ci saremo detti io e Annalisa in attesa di entrare?

Oggi è pieno di persone che aspettano di iniziare il tour, mi danno persino il numero come dal salumiere e fatico a capire il perché. C’è uno studente di percussioni che suona e spiega, parla tantissimo, non finisce più e nel frattempo la classe di chitarra ha già iniziato un piccolo concerto ma nessuno lo avvisa, quindi chi vuole si smarca e va a sentirlo, chi vuole rimane a sentire la marimba e il vibrafono che emettono una piccola colonna sonora contemporanea di qualche film pulp. Bellissime le percussioni. In tanti anni tra quelle aule non le ho mai potute provare, ma la buona notizia è che ogni strumento qui dentro si può testare, provare gratuitamente in qualunque momento si voglia, basta prenotare in segreteria e uno dei professori sarà lieto di mostrarlo a chi volesse iniziare gli studi.

Ci fanno salire le scale rigorosamente razionaliste, al primo piano è ancora tutto uguale, il gabbiotto della segreteria, la porta dell’auditorium, ancora in ristrutturazione fino a data da destinarsi. C’è la classe di pianoforte ma non c’è più il mio prof pieno di capelli, che quando suonava Schubert entrava in uno Sturm und Drang che gli faceva scuotere la testa rapito. Uno spettacolo.

Un ragazzino cinese si esibisce in un brano, sbaglia qualche nota, molti non notano, il professore suda e lo segue. I fogli sul piano sono fotocopie infinite, fogli che raccontano ore ed ore di studi metodici per arrivare alla velocità e precisione richiesti da una disciplina matematica quale è la musica. Non usano l’iPad, penso, non sarebbe più comodo qualcosa che fa scorrere direttamente a video lo spartito? Ma siamo al Conservatorio, ed è tutto come lo ricordavo, tranne appunto il professore.

Non esattamente in realtà: oggi studiare uno strumento è equiparabile ad una università, il diploma di strumento ad una laurea, ma per accedere ai corsi devi essere in possesso di un diploma di licenza superiore. Tutti i talenti più giovani rimangono in una specie di limbo per numerosi anni, in attesa di raggiungere questo nuovo punto di partenza. A seguito della riforma 508/99 il Conservatorio ha istituito a partire dall’anno accademico 2011/12 corsi di fascia pre-accademica finalizzati a fornire agli studenti una formazione strutturata, organizzata per periodi di studio e livelli di competenza, con l’obiettivo di formare le competenze adeguate per l’ingresso ai corsi cosiddetti “dell’Alta Formazione Artistica e Musicale”. I corsi hanno durata equivalente al periodo della scuola secondaria di primo e secondo grado e sono divisi in 3 livelli secondo lo schema 3+2+3.

Foto di Luca Malaguti

Non mancano alcune sperimentazioni che ai miei tempi proprio non esistevano, come il triennio Jazz, dove si studiano strumenti con l’approccio e le regole dell’armonia tipiche di questo genere musicale. Affascinante e moderno, qualcosa che porta il Conservatorio oltre le colonne d’Ercole degli anni Cinquanta, che almeno a me sono sempre andate strette:

– Prof, possiamo studiare anche qualche autore contemporaneo?
– Tipo Gershwin?
– No, tipo i Queen!
– No, mi dispiace.

La grande stanza numero dodici dove ci accoglie una classe Jazz sabato mattina è quella dove (non) studiavo solfeggio perché tanto non ci interrogavano mai singolarmente. C’era un enorme organo ma è stato rimosso, c’era un prof severo e una digestione in corso alle due del pomeriggio a rendere tutto particolarmente soporifero, ma l’importanza della teoria e del solfeggio l’ho capita e apprezzata tantissimo solo dopo aver preso il diploma. Quando per anni ho improvvisato assoli o studiato riff per i brani nel gruppo dove ho suonato, una volta uscito da lì.

Il prof. Manuzzi al sax coordina la prima lettura di un brano di Bjork. Bjork e Conservatorio nella stessa frase sono da gridolino di gioia, l’esecuzione è un po’ incerta ma è appunto a prima vista, quando passano ad un brano di Charlie Parker è pura magia, tra assoli di batteria, piano, sax che si richiamano uno con l’altro.

È lo stesso Conservatorio che organizza questo weekend il MiXXer Festival, un paesaggio sonoro, che unisce i luoghi più belli della città. Una tre giorni di musica contemporanea, dalla scrittura colta al pop, dagli spirituals al jazz, che come un’ondata travolge tutta Ferrara.

Due porte dopo un quintetto d’archi prova a porte aperte in quella che era la mia aula di piano: guardo i loro volti, sono come me, la felpa, le scarpe da tennis, lo smartphone appoggiato al leggio. Chi suona strumenti tanto antichi è un ragazzo come tutti gli altri, ha un piede nella modernità e uno nella tradizione, sogni e ambizioni di far parte di qualcosa di bello e importante un domani. Sarebbe bello parlare con loro di lavoro, di opportunità, di contratti, che rendono spesso un inferno il lavoro del musicista professionista, ma non c’è tempo e non possiamo disturbarli. Aprono le porte del grande auditorium.

Già riaperto in occasione del – ça va sans direfestival fotografico Riaperture, l’auditorium del Conservatorio Frescobaldi è il trionfo del razionalismo tipico del periodo in cui è stato progettato e inaugurato nel 1939, con rigorosi criteri di edilizia acustica. Oggi è puntellato di travi in legno in attesa che vengano sbloccati i fondi statali per terminarne il restauro. Un luogo per certi versi affascinante in questo stato provvisorio, anche se non restituibile alla città per godere della sua funzione primaria, quella concertistica appunto. Un enorme organo fa da padrone sul palco. È interamente in legno, con canne di varie leghe e funzionamento completamente meccanico, un piccolo gioiello e al contempo uno scenario austero e incombente su tutto il resto.

Sono di nuovo negli anni Novanta, sto per andare in scena, mi trovo nel piccolo camerino a lato del palco e devo eseguire una sonata di Beethoven davanti ad un pubblico grossomodo di genitori. I saggi: croce e delizia di ogni corso di qualcosa nel periodo primaverile. Chiacchiero con i compagni di corso, non abbiamo spartiti con noi, si suona a memoria. Come quella storia del millepiedi che un giorno cerca di ricordare come fa a coordinare tutti i piedi e finisce per non riuscire più a muoversi, cerco stupidamente di ricordare l’attacco della sonata che in realtà conosco a memoria e dovrei solo lasciar uscire, ma non la ricordo. Panico. Non ho spartiti, non ho modo di ripassare, rileggere. Tocca a me. Salgo sul palco tentennante: esco o rinuncio? Mi siedo al pianoforte, sperando qualcosa venga fuori. Uscirà qualcosa di simile a Beethoven, il tempo di un rigo musicale, quattro o cinque battute di puro jazz prima di ricordare, rientrare nei ranghi e completare il resto in modo impeccabile. Se ne accorge solo il professore ovviamente e a fine concerto mi dice: sei andato un po’ libero all’inizio, ma non era male.

Nel giro aperto al pubblico c’è ancora spazio per un momento godibilissimo insieme alla classe di fiati, fanno provare corno e trombe ai bambini presenti, rispondendo alle curiosità del pubblico e alle domande sui differenti suoni e registri. Fanno venire voglia di provare, di iscriversi ad un corso per il puro divertimento, ma ricordo bene quanto lo studio di uno strumento sia qualcosa al contempo serio e difficile prima di diventare divertente. Se avete poca pazienza non fa per voi: la musica educa a saper raggiungere un obiettivo con pazienza e metodo, con sacrificio e dedizione che sempre più oggi vanno perdendosi. Altrimenti ci sono i software, i programmi per comporre musica sul tablet, i loop già fatti, i suoni campionati e altre diavolerie. Altrimenti ci sono i dj che “suonano” nei locali e la chitarra strimpellata male nelle parrocchie. Ma in questo antico tempio della Musica dove tutto resta uguale e zitto zitto invece cambia un poco, non c’è spazio per altro che tre chiavi, cinque righi, sette note e tutta la fantasia e l’estro del mondo.

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