Oggi Listone Mag ha deciso di proporvi un racconto molto particolare. Non un articolo, non un’intervista, nemmeno un approfondimento. Il testo che leggerete è frutto di invenzione ma ci interessa particolarmente perché prende spunto da una situazione comune, per quanto drammatica, per scendere in profondità in alcune paure tipicamente ferraresi, tra leggenda metropolitana e statistica, tra ciò che si ha bisogno di credere per superare il dolore quotidiano della perdita e le bufale diffuse dai social media. Di più non anticipiamo. Sedetevi comodi, prendetevi un po’ di tempo per leggerlo. Buona lettura.

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Quindici centimetri
di tommie smith

Un vento di fine settembre si divertiva roteando il fumo di una sigaretta appesa tra indice e medio ad un centimetro dal posacenere in vetro con scritta verdone FORST, di quelli che trovi in tutti i bar se il puntino IO della tua mappa e di conseguenza il puntino BAR del bar in cui ti trovi, si sovrappongono nella frazione di meridiani e paralleli denominata Europa occidentale. Anche la mentuccia, piantata in vasi finta terracotta usati a guisa di separazione dell’ambiente esterno del bar, o dehor, dalla strada poco frequentata che si snodava davanti in parata, sembrava essere soggetto attivo del gioco del roteare, ma lo faceva in maniera più garbata e tranquilla a causa del peso relazionato alla gravità, accennando soltanto piccoli movimenti con i fragili rametti, mentre il fumo azzurro dell’ennesima Benson blu era libero di creare arabeschi e volti tra le foglie, prese da una danza epilettica o da un ballet blanche a seconda dell’intensità della soffiata del vento, che variava ad un ritmo abbastanza regolare gli pareva. Non aveva notato il contrasto tra il profumo fresco della mentuccia scossa e il puzzo stantio della sigaretta abituato com’era a fumare molto. Se avesse dovuto dire immediatamente a qualcuno al telefono dove si trovava non avrebbe mai usato la parola dehor, primo perché non voleva passare per fighetto, secondo perché a nessuno sarebbe venuto in mente di chiamare in quel modo quattro tavolini in alluminio e due botti da vino con relativi sgabelli, sovrastate da segnali stradali rotondi blu con la freccia bianca usati come appoggio per bicchieri e panini e tutto quello che si può appoggiare su un tavolo alto di un bar, coperti da un grande ombrellone bordeaux sempre aperto, a schermare quel poco che riusciva degli agenti atmosferici. Era comunque un bel posto. Nella sua personale scala di gradimento bar-dove-farsi- una-birra occupava sempre le prime posizioni e ci andava spesso. Ci andava perché era poco frequentato e molto tranquillo. Il jazz che beboppava dalle piccole casse appese agli angoli della struttura interna era la scelta musicale preponderante e non gli dispiaceva, anche se non amava particolarmente il genere. L’interno era ridotto ma confortevole a livello psichico, con tutto quel legno scuro che ricopriva le pareti e un grosso bancone a ferro di cavallo troppo grosso rispetto alla stanza in cui era stato messo, tanto da dovercisi divincolare tra schiene di gente appoggiata sui gomiti e scusi permesso per raggiungere la porta della toilette in fondo alla stanzina. La forma a ferro di cavallo del bancone obbligava quelli del lato destro a scambiare sguardi fugaci con quelli del lato sinistro, soprattutto se quella sera l’unica loro compagnia era una bionda media e un social network sullo schermo del cellulare. Tutta questa vicinanza fisica obbligata rendeva l’atmosfera pericolosamente intima, ma quando due uomini si guardano nello strano specchio creato da un’architettura interna di quel tipo e vedono se stessi dall’altra parte con qualche anno in più o in meno, qualche capello o chilo in più o in meno ma con più o meno gli stessi bicchieri di birra o scotch e più o meno gli stessi problemi, difficilmente tendono a dar vita a conversazioni più lunghe di un cenno del capo a significare salute! quando il barista versa loro da bere separatamente. Anche il barista piaceva a Paolo. Per gioco provò a contare le parole uscite dalla sua bocca e arrivò a qualcosa come sei nelle due ore di gomiti a bancone che si era concesso prima dell’appuntamento. Era una sera d’autunno o quasi, era settembre, verso la fine. Un attimo fatto soltanto di un pomeriggio piovoso aveva fatto dimenticare di colpo l’estate appena passata, che era stata uguale alle altre, non si era scordata di portare con sé il suo bagaglio di docce gelate in riva al mare, di passioni effimere divorate da pelli inebriate dal sole.

Le crisalidi umane abbronzate avevano danzato, anelando unite alla celebrazione di un simulacro di libertà in forma di idolo vaporoso e sfuggente. Seme orgiastico edulcorato, morte nel pomeriggio.

Ferrara è la città con la più alta incidenza tumorale di tutta l’Emilia Romagna. Non sfigura nemmeno quando la si compara con il resto delle città italiane. Gli sbuffi che il polo chimico esala a cadenza regolare nei perennemente instagrammati tramonti padani le hanno permesso di superare in questa gioiosa classifica persino Taranto, martoriata dall’Ilva. A Ferrara per ogni anno dal 2004 al 2008, 1.628 maschi e 1.352 femmine in media hanno contratto una forma tumorale. Vuol dire tremila creature all’anno, in una città che ne conta centotrentamila. Ogni volta che Paolo arrivava al terzo scotch liscio, la sua mente annaffiata dai rudimenti di matematica statistica poco seguita al liceo finiva per concentrarsi sulla macabra proporzione tra incidenza tumorale ed effettive morti a causa dei tumori. Sapeva a memoria persino le statistiche riguardanti gli organi colpiti più spesso, anno per anno. Primo posto assoluto in Italia per tumori al colon, al retto e all’ano con 967 casi ogni centomila abitanti. Primo posto assoluto per tumori ai polmoni, 216 casi ogni centomila abitanti, e al tessuto connettivo, 53 casi. Le donne ferraresi sono le più colpite d’Italia da neoplasie all’endometrio, 474 casi ogni centomila. Vagina e vulva, 51 casi. Si difendono bene il cancro ai reni e quello alla tiroide.

Il 2008 era il suo forte, nessuno avrebbe potuto batterlo vincendo qualche scommessa sperando in una sua esitazione riguardante un dato a caso nel campo tumori/Ferrara. Il 32% dei decessi di quell’anno era collegato a forme tumorali. Il 67% se si considera la fascia di età dai 50 ai 70. Di questi il 33% per cancro all’apparato digerente, 31% trachea- bronchi-polmoni.

Il 2008 è stato anche l’anno di un’estate rivelatasi diversa dalle altre. Non c’erano pelli o danze o rive del mare, c’erano solo quindici cm di massa metastatica piantata nel polmone sx di suo padre. Un abnorme massa di morte. Quindici centimetri. Questione di prospettiva. Pochi, se si considera che suo padre era un metro e ottanta di uomo, alla vigilia del mezzo secolo vissuto su questo pianeta; a quanto pare abbastanza per portarselo via dopo un paio di mesi pieni nell’iter della tribolazione che accompagna la malattia, in una sera quasi d’autunno, di fine settembre. All’inizio Paolo non aveva sentito che una profonda tristezza, profonda quanto il senso di vuoto che sembrava riempire ogni particella del suo essere. Avevano avuto e fatto tutte quelle cose che si fanno tra padre e figlio. I ricordi più nitidi fino ai dieci anni erano legati a Lui. Lui che gli insegnava a giocare a scacchi, Lui che tornava dal lavoro carico di bustine di figurine pronte da strappare e appiccicare nell’album Calciatori Panini 95/96 che Lui gli aveva regalato. Lui che un bel giorno si palesò con uno strano aggeggio rosso con due ruote grandi e due ruotine attaccate dietro, sul quale Paolo a quanto pare sarebbe dovuto salire, per imparare a farlo correre lungo chilometri e chilometri, via, seguendo il vialetto costeggiato dai pioppi ed i canali vicino alla casa di campagna dove abitavano all’epoca. Lui che non era nemmeno suo padre. Non gameticamente parlando, almeno. La madre di Paolo si era accorta dopo circa due anni dalla sua nascita che il padre naturale di Paolo, che egli denominò cromosoma y non appena ebbe accesso ai primi manuali di biologia scolastica, non ce l’aveva proprio fatta a smetterla con la roba, e cominciava ad essere una variabile di instabilità per lei e per suo figlio.

Aveva provato a smettere, almeno così diceva.

La madre sperava che la venuta al mondo del figlio agisse su di lui allo stesso modo in cui aveva agito su di lei, colmandone i crateri interiori, responsabilizzandolo nell’orgoglio. Ma si sbagliava. Giorno dopo giorno avvertiva che il suo amore, puntellato dalla cosmogonia sentimentale che lo caratterizzava fatta di fiducia e rispetto e condivisione ed affetto, declinava inesorabile in affluenti rabbiosi di impotenza, fino al disgusto.

Non riusciva a smettere, si faceva di nascosto.

Non voleva dover insegnare l’alfabeto al suo primogenito collegandolo con le forme di epatite che entrambi avrebbero potuto contrarre a causa di quel bastardo. Si sentiva abbastanza forte per affrontare le onde anomale che la vita avrebbe rinsaccato sulle sue spiagge da giovane madre single di provincia?

Non avrebbe mai smesso, sarebbe morto come iniziavano a morire i suoi amici.

Cromosoma y d’altro canto era giovane quando la fine degli anni Ottanta venne a chiedere il conto. Inaspettatamente, al pari della nascita di Paolo. La controcultura di cui era intriso ridicolizzava la responsabilizzazione. Non puoi leggere Huxley ed avere un figlio. Non può essere così stretta la forbice temporale che separa quel concerto dei Clash in piazza Maggiore da una epistemologia di passeggini pappette pannolini. L’eroina che dilagava nelle sue vene a cadenza quasi quotidiana anestetizzava il sensibile, estraendo la sua coscienza per trasportarla in un infinito, soffice, deserto californiano. L’eroina prendeva le sembianze di Borroughs che con un revolver sparava a Shakespeare, mentre su una duna poco distante De Quincey litigava con Baudelaire, accusandolo di essere un frocio mantenuto poco creativo. In cerchio intorno al fuoco erano seduti lui, Marylin Monroe, William Blake ed Allen Ginsberg, tutti completamente nudi. Bevevano scotch, ma il sapore era quello celestiale dell’ambrosia, mentre Jim Morrison declinava la sua voce roca sulle pagine di The Waste Land, con piglio drammatico. Felicità liquida ovattata. Shantih Shantih Shantih.

La carovana oppiacea svaniva poi puntualmente in un cumulo di immagini infrante, lasciandolo solo con i pianti del neonato, i pianti di sua moglie, la fine degli Ottanta e l’ombra di un futuro dove non ci sarebbero più stati concerti dei Clash, ma solo una merdosissima vita standard borghese, inevitabile quanto deprecabile secondo il suo personale weltanschauung, abbeverato ironicamente da una propaganda ossimorica che idolatrava i ribelli, ma che in realtà stava conformando almeno due generazioni a venire, condizionandone la precarietà psichica. Lode a Mishima e a Majakovskij, ma con il ciuffo alla James Dean.

Voi cosa avreste fatto?

La fine degli Ottanta si offrì come palcoscenico per l’ennesima notte in cui cromosoma y tornò a casa devastato, talmente in botta che l’unico modo che aveva la madre di Paolo per intuire i suoi pensieri e quindi comunicare, erano le diverse tonalità dei suoi mugugni accompagnati da una leggera bava salivare che gorgogliava dagli angoli della bocca. Quella fu l’ultima. Cinque anni dopo quella notte, Paolo aveva una sorellina. Questa sorellina chiamava, disarticolando leggermente la bisillaba, papà, una persona che la sera tornava dal lavoro e si sedeva a tavola per cenare con lei, Paolo e sua madre. Fumava Benson Blu. Era rigoroso e pulito, persino bello. Questa persona portava con sé le figurine dei calciatori ed era sempre gentile. Una sera, al tavolo della cena, Paolo gli chiese se anche lui come la sorellina avesse potuto chiamarlo papà. All’epoca Paolo non capì perché tutti si misero a singhiozzare, fatto sta che da quel giorno Lui fu a tutti gli effetti suo padre. Passarono vent’anni in fraterno convitto, poi, ad un certo punto, non fu più.

Dopo il senso di vuoto arrivò la rabbia muta, nella forma di un fragore interno insostenibile. Paolo sentiva la necessità di trovare una spiegazione, un colpevole per la Sua mancanza, ma quando gli pareva di avvicinarsi ad una qualsiasi sorta di consolazione metafisica, questa non faceva che trasportarlo in una dimensione di impotenza ed ineluttabilità. Il dolore cova, nidifica e sembra entrare in letargo, in realtà non aspetta che un’increspatura della quotidianità, un’immagine potente che possa tramutarsi in ricordo per poi esplodere.

Agli occhi di Paolo, Ferrara divenne un cimitero. I posti in cui era stato almeno una volta con Lui, le vie per le quali avevano passeggiato quando tutto era splendente e vivo, risuonavano ora come macabri diapason. Le note vibravano basse ed ottenebranti, gelidi sussurri che trascinavano il suo animo lacerato in vallate di nulla assordante. Paradossalmente, i luoghi che parevano consolarlo erano i cimiteri veri e propri, primo fra tutti la Certosa, dove Lui riposava da un paio di settimane ormai. Leggeva Keats o Yeats steso nei giardini vicino al cancello principale, nello spaventoso sole dei primi pomeriggi di quell’autunno, che beffardo non mancò di rincorrere la scomposta e cadaverica estate 2008. La brezza che giocosa voltava la pagina che stava leggendo, addolciva temporaneamente le sue ferite come un balsamo, esentandolo per un attimo dalla gravità della propria presenza fisica e mentale in quello spazio, in quel tempo. Scriveva biglietti e poesie colme di acredine, pestilenziali. Lasciava scivolare i fogli sulla tomba del padre, incurante, alla mercé della pioggia e del vento. Sentiva la sua anima disgregarsi al pari di quei fogli, rabbiosi, che tuttavia non avevano la forza di resistere. Tornava a sedersi vicino al cancello. Il buio arriva presto, d’autunno arriva prima. Doveva rialzarsi, per trascinarsi lungo quelle vie che l’avrebbero ricondotto a casa. Era costretto ad incontrare persone, persone che conosceva, che conoscevano Lui e che lo riconoscevano, e che talvolta cercavano persino di comunicare, chi spinto da un sincero affetto disinteressato per la sua famiglia, chi semplicemente inebriato ed attratto dall’umana morbosità che si sprigiona in ambito decessi. Comunicare però risulta difficile dal momento in cui tutto perde senso. I significanti si sganciano dai rispettivi significati, il triangolo semiotico trasfigura in un frattale che fluttua a mezz’aria, i suoni perdono ogni collegamento con la realtà concreta e si liquefanno in un indistinto rumore di fondo epilettico, lo stesso bzzz di un televisore scollegato dall’antenna.

Googla: disturbo post traumatico Googla: disturbo dello spettro autistico Googla: solipsismo

Paolo ripercorreva a ritroso il vialone della Certosa, verso il centro, silenzioso e assente. Era richiuso dentro se stesso, in una soffice bolla d’apatia che filtrava e attenuava ogni stimolo esterno, isolandolo. Sapeva di essere ancora vivo, incrociava persone che sapeva vive, ma non era in grado di interagirvi. Si limitava ad immaginare le loro viscere molli traballare ad ogni passo verso gli obiettivi che si erano poste, e che al momento consideravano la cosa più importante del mondo. Immaginava il loro circuito sinaptico, scattante ed impegnato nel calcolare istintivamente il supremo moto causa-effetto a cui erano sottoposte ogni giorno, in ogni azione compiuta, persino la più insignificante. Immaginava i motivi che le spingevano a muoversi per le vie della città così veloci e sicure di sé, soggette ad una forza di gravità orizzontale che le attirava verso i luoghi che avrebbero raggiunto. Si muovevano come un unico corpo vivente, un fluido sanguigno che dilagava uniformemente in tutte le cavità che la città metteva a disposizione, alimentandola. Lui doveva essere esattamente come un tumore, una cellula impazzita che aveva smarrito le informazioni necessarie per il corretto proseguo del suo cammino, e se ne stava ad osservare l’ostentata decisione degli altri, così distante dal suo vagare incerto, protraendosi nelle vie principali dove la differenza si notava di più e facendosi del male.

Due anni di Lorazepam e Xanax possono anche essere divertenti se innaffiati con la giusta dose di etanolo. Tranne che per le crisi di vomito. E per la sensazione di soffocamento. E per le crisi d’astinenza quando decidi che basta, non ingoierai più una pasticca in vita tua. I nervi ti si tendono così forte da deformarti il volto, lasciandoti due fessure al posto degli occhi che fissano vitrei quelle che prima erano le tue mani ma che adesso a causa delle contrazioni ti sembrano due uncini. Sensazione di morte imminente, tiranti d’acciaio paiono squartarti il petto dall’interno. Un miliardo di formiche velenose ti esplodono sul viso deformato. Ti guardi allo specchio, non sei tu. Sei un incrocio tra un Picasso e un Bosch. Speri che l’imminenza sia puntuale. Ti pieghi in due. Svieni. Riapri gli occhi. La porzione di reale acquisibile dalle tue retine viene celebrata dalla funerea luce pallida dei neon a cadenza ritmata e regolare. Tu, steso su una barella lanciata in un corridoio di un pronto soccorso. Ritmata e regolare, come le tue crisi, quando decidi che le benzodiazepine non possono più fare parte del tuo schema, che devi essere libero. All’inizio è un rock&roll, ne hai due o tre a settimana. Quando stai per abituarti calano, diventano un lento che speri di non dover ballare, ma ogni tanto l’orchestra parte e devi raggiungere il centro del salone. Dopo un paio di mesi senti solo qualche violino isolato e lontano spegnersi nella tua acquisizione di consapevolezza, nella tenacia di un corpo giovane che elimina le scorie. Un leggero acufene ti accompagnerà malinconico per il resto della tua vita.

Foto di Giacomo Brini

Una sera, guidando lungo via Padova notò, a lui sembrò per la prima volta, le esalazioni delle ciminiere del polo chimico. Leviatano, mulino a vento. Immagine potente. Quei fumi bianchi statici e perfetti, le persone che permettevano che essi si librassero per aria, per poi ricadere in forma di polveri sottili nella conformazione concava di Ferrara, la cui nebbia perenne sedimentava e tratteneva per le strade della città, d’un tratto divennero i soli responsabili del suo dolore. Esseri che non esitavano ad avvelenare un’intera provincia se questo era necessario ad un sostanziale guadagno pecuniario. La rabbia prese di nuovo il sopravvento sull’apatia, ora che aveva trovato un obbiettivo sensibile, un bersaglio. La rabbia gli fece ritrovare la lucidità che aveva perduto tra le pareti cortisoniche in cui si era rinchiuso. La rabbia trasformò quell’acufene benzodiazepinico in un grido di lotta. Iniziò una personalissima guerriglia fatta di volantini sparsi per tutto il castrum. Aveva sentito parlare anche di un sito chiamato Facebook, vi si iscrisse e notò con piacere che un sacco di gente che conosceva lo aveva anticipato. Poteva utilizzarlo al pari di un broadcast o di un blog, e così fece. Scriveva accorati j’accuse contro il petrolchimico e la peste silenziosa che stava diffondendo, passava ore online a setacciare articoli inerenti per poi ripostarli sulla sua pagina, che piano piano divenne un polo di attrazione per quelli che come lui erano direttamente interessati al problema. Inviò mail agli uffici comunali, ai sindacati, alla federazione dei consumatori. Contattò anche diversi studi di avvocati, con l’idea di intentare una causa civile, ma tutti sembravano fare spallucce e ridicolizzare i suoi intenti. Lotta impari, causa persa in partenza. Decise di creare un gruppo su quel Facebook, a cui gradualmente si iscrissero più di cento persone. Sembrava funzionare, virtualmente. Dentro di sé Paolo comprendeva che quello che stava facendo era del tutto superfluo. Non avrebbe scalfito di un millimetro il nemico che si era scelto. Ma aveva bisogno di una lotta per rimanere vivo. Più passavano i mesi e più il suo lutto personale si rielaborava. Aveva ricominciato a parlare con le persone, passavano anche intere giornate senza che pensasse a Lui e si stupiva di questo. L’impegno cerebrale che metteva nella sua piccola guerriglia mediatica lo distraeva dalla causa prima che lo aveva portato ad iniziarla. Il fervore dei suoi j’accuse andava via via spegnendosi per concedere spazio ad una maturità d’intenti che tendeva a discostarsi dalle proprie ragioni strettamente personali, per abbracciare e ricongiungersi alle correnti di pensiero più ampie e condivise dell’ambientalismo tout court. Tutto questo era inutile, tutto questo lo faceva stare meglio, sintesi perfetta della sua condizione umana. Il gruppo Facebook diede i natali ad una ristretta cerchia di intimi che tendeva ad incontrarsi settimanalmente, fuori dalle linee adsl. Fuori anche, gradualmente, dalla motivazione che li aveva connessi, ovvero la lotta ambientalista. Rimaneva il cardine dei loro discorsi più sentiti, ma sfumava sempre di più per lasciare spazio a legami che andavano costruendosi su coordinate di condivisione ed amicizia disinteressata. Paolo riscoprì sentimenti che credeva perduti, si ritrovò quasi felice.

DRRRRR DRRRRR
ciao.. sono iscritta al tuo gruppo fb da un po (sic)
…… sta scrivendo……
devo parlarti di una roba.. possiamo vederci stasera? Tipo.. alle 9?

ciao..ok. mmm cambusa? può andare?

…… sta scrivendo……
ok 😉

Un vento di fine settembre si divertiva roteando il fumo di una sigaretta appesa tra indice e medio ad un centimetro dal posacenere in vetro con scritta verdone FORST, di quelli che trovi in tutti i bar se il puntino IO della tua mappa e di conseguenza il puntino BAR del bar in cui ti trovi, si trovano nella frazione di meridiani e paralleli denominata Europa occidentale. Il terzo scotch liscio finì, a venti metri poteva già scorgere la sagoma di lei ancheggiare verso di lui.

Anche se il vetro era uno di quelli grossi, moderni, e gli infissi erano robusti, il forte vociare del marciapiede davanti all’appartamento lo svegliò, catapultando simultaneamente tutto il suo essere dal vacuo vagare dei sonni profondi, alla concreta realtà dei muri bianchi chiazzati di muffa e delle sedie e del tavolo in laminato effetto legno, e del posacenere stracolmo che puzzava di marcio. Doveva essere mattina tardi tipo le undici e mezzo, doveva essere che contando le quattro bottiglie di Ichnusa e la duequinti bottiglia di Glenmorangie sul tavolo doveva essersi preso una sbronza la notte prima. Forse doveva anche essere che avrebbe dovuto mandarla via prima di caderci addormentato insieme, ma forse non ne aveva avuto la forza o la voglia. Fatto sta che lei era lì, stesa di lato, la schiena bianca come il latte, i capelli come grano di luglio. Si sforzò di ricordare, di mettere assieme il mosaico della notte prima, ma i tasselli che lo componevano erano pezzi di vetro sottile, ed ogni volta che cercava di farli combaciare scricchiolavano emettendo uno stridio insopportabile.

Ieri.. ok…che cazzo ho fatto ieri?? ah si… i tre scotch. poi ci siamo fatti una birra poi siamo andati in duomo!? poi altre birre forse un paio di shot di pessimo bourbon un barbone che rimesta tra i cestini dei rifiuti la chiave che fatica ad entrare nella serratura la porta di casa che si chiude troppo forte e potrebbe svegliare i vicini altre birre altro whiskey… la sua camicetta che timida si sfila come un sipario che si alza su una prima… la mia lingua sul suo ombelico… buon sesso può darsi. poi buio.

Adesso lei, girata di spalle, che ancora dorme come un angelo, la luce del giorno che oltrepassa i grossi vetri delle finestre e riflette sul bianco dei muri, ferendogli le retine.

Che diritto hai di dormire a casa mia?

In realtà, se fosse stata sveglia ed in grado di azzeccare i suoi pensieri avrebbe potuto obbiettare che tecnicamente lei stava di certo dormendo, ma non nel letto, bensì sul divano. È universalmente stabilito e noto che dormire sul divano di qualcuno di cui non si gode ancora di una conoscenza sufficiente, risulta più accettabile socialmente rispetto al dormire nel letto di quel qualcuno, almeno negli universi in cui esistono divani. Paolo non avrebbe avuto quindi nessuna ragione nell’accusarla di aver violato alcuna regola di netiquette erotica postmillennio, visto che lei stava rispettando ed esercitando appieno uno dei suoi diritti in quanto godente dello stato di semi-sconosciuta, ovvero dormire sul divano; in egual modo, dopo che il coito si fosse compiuto annullando di fatto diritti e doveri reciproci di questo codice non scritto degli incontri occasionali, se fosse uscita da casa sua svincolandosi nella notte con o senza il suo assenso verbale, Paolo non avrebbe avuto di che lamentarsi con nessuna supposta autorità regolatrice di questi rapporti, che per sfortuna comunque non esiste nemmeno. Rispettava le regole insomma. Paolo pensò di aver avuto almeno la fortuna di addormentarsi nella parte esterna del divano, quella non delimitata dalla spalliera, e per un istante ebbe un incredibile voglia di scattare in piedi e correre via, anche così, anche completamente nudo, scattare come una molla in piedi, strisciare velocemente verso la porta, aprirla lentamente ma con decisione e correre via nudo per le strade e poi per le campagne, fino a riposare corpo e spirito in una qualche brughiera circondata da boschi di teneri noccioli, dietro il velo di un mite e verde pomeriggio . Avrebbe goduto per qualche ora di quella strana pace che un problema evitato o posticipato può dare, di una tregua della mente. Poi quando fosse sceso il sole, placido sarebbe tornato a casa, sempre nudo, approfittando del buio di una notte vereconda, evitando i coni di luce dei lampioni, forse fischiettando. Sarebbe rientrato in casa e non l’avrebbe ritrovata stesa di taglio su quel divano, se ne sarebbe andata, così come era venuta, forse senza lasciargli nemmeno un biglietto. Ma quell’istante così pregno di estasi di fuga fu seguito e rotto immediatamente dall’istante in cui tutto il peso di tutta la responsabilità del mondo viene a reclamare il proprio solido posto nella coscienza. Non sarebbe mai potuto sgattaiolare via così, anche se avesse avuto la fortuna di avere il tempo di vestirsi prima che lei si svegliasse. Dopotutto quella era casa sua, la sua cazzo di tana e il suo rifugio. (Superata apparentemente la crisi che lo aveva attanagliato dopo la Sua scomparsa, dopo le benzodiazepine, Paolo osservò con piacere che riprendere a comunicare con il resto della specie funzionò bene anche per trovarsi un lavoro come cameriere. Quattro pranzi e quattro sere a settimana in una trattoria di terz’ordine del centro storico. Pagamento a voucher, nessuna tutela, ma almeno aveva potuto permettersi l’affitto di un bilocale abbastanza centrale, lontano dai fantasmi). Aveva commesso una sciocchezza la notte prima nel permetterle di rimanere, forse era stato ubriaco e spavaldo, sicuramente ubriaco. Adesso doveva rimediare, doveva affrontare il problema di petto, senza mezzucci e trucchetti. Il fatto di essersi trovato nella parte esterna del divano era comunque una fortuna, aveva il tempo di racimolare i pensieri e prepararsi alla battaglia. Gli diede anche quello strano brivido da posticipo, anche se per pochi minuti. Pensò che se fosse stato al patibolo e per un qualche motivo la corda non fosse stata immediatamente utilizzabile, non so, un nodo fatto di fretta e male, oppure la botola di legno sotto ai suoi piedi di condannato non si fosse aperta del tutto; insomma se per un qualche motivo tecnico o meno si fosse dovuta procrastinare l’esecuzione, sarebbe stata una grossa fortuna. Avrebbe goduto di un qualche minuto extra di vita e libertà, se ne sarebbe riempito i polmoni come mai prima e forse avrebbe anche scorto nella disperazione della fine una febbrile estasi di senso. Oppure sarebbe scoppiato in lacrime ed avrebbe avuto una forte crisi, morendo di fatto nell’istante in cui il boia gli avesse comunicato il problema tecnico o meno, e che sarebbero serviti una decina di minuti. Quei minuti sarebbero sembrate ore dense di paranoia ed ineluttabilità e di destino buio, una stanza bianca insonorizzata senza porte o finestre in cui i suoi pensieri sempre più vorticosi avrebbero sbattuto, rimbalzato, e si sarebbero ingarbugliati l’un l’altro in un groviglio più stretto della corda che avrebbe dovuto impiccarlo, ma che ancora non funzionava.

Foto di Giacomo Brini

Googla: Moosbrugger Googla: Modonnét Googla: John Perry

La direttrice dei suoi pensieri era tesa tra queste due emozioni contrastanti quando si alzò in punta di piedi e lentamente, per non svegliarla subito. Il corpo si buttò nel groviglio dei pensieri e decise di volerli vivere tutti quei dieci minuti di problema tecnico, di mandare a farsi fottere ogni tipo di elucubrazione. La prima azione che il corpo volle compiere fu quella di muoversi verso il tavolo in laminato effetto legno del salotto. Il posacenere sembrava un cranio aperto tartassato da un agopuntore troppo zelante, ma non fu troppo difficile riconoscere quel quarto di canna lasciata lì a riposare dalla notte prima. Tirò due, tre grosse boccate di fumo mentre pisciava, con l’intenzione di estendere sempre di più il controllo di se stesso al corpo, meno che alla mente. Nelle situazioni in cui bisogna decidere in fretta spesso ci si lascia guidare dal pilota automatico, e se avesse dovuto fare una media delle volte in cui era scampato a situazioni di merda, l’istinto s’era rubato parecchie basi rispetto al ragionamento nudo e crudo, pensò. Fu questo pensiero che gliela fece riaccendere ancora, per tirare un’altra boccata; tossì leggermente. Quando dal bagno ritornò verso il patibolo lei, il boia, era in piedi davanti al tavolo dandogli le spalle. Lo smalto cremisi frusciava tra le setole del tappeto morbido grigio a pelo lungo IKEA ALHEDE, 2.59 m2, lo stesso dove il boia la notte prima aveva gemuto e si era contorto respirando forte. La chioma bionda da cherubino scendeva lungo le spalle in grossi boccoli, il pulviscolo illuminato dalla luce della finestra vi danzava intorno e vi si mescolava diventando dello stesso colore. Forse i suoi passi troppo pesanti, forse la consapevolezza del predatore, si accorse di lui. Paolo lo intuì dal fremito che dal fondoschiena ripercorse come un fulmine tutto il corpo di lei, per andare a scaricarsi oltre la chioma, nella zona della danza luminosa del pulviscolo vicino alla testa, modificandone il ritmo impercettibile. Si accorse di lui ma non si girò di scatto. Forse anche lei si sentiva preda, e non boia. Se Paolo avesse avuto la prontezza di spirito di pronunciare qualcosa di maschile e testosteronico, oppure di dolce e femmineo, forse avrebbe potuto ribaltare la situazione. Ma non disse niente, continuava semplicemente ad avanzare verso quel corpo così estraneo, così equilibrato e canonicamente bello. Paziente, pronto a reagire al minimo sussulto con i muscoli facciali sull’attenti, per sfoderare l’espressione più consona alla prima reazione che lei avesse potuto avere. Voleva giocare di rimessa e nel minor tempo possibile, la sentiva come una partita a scacchi e pregò di essere i neri. E in effetti lo era. Il boia-angelo-preda attese altri due suoi passi pesanti e si voltò piano, assaporando il momento. Due occhi blu come il mare quando c’è tempesta, piantati sui suoi, più sotto un sorriso sincero, quasi benevolo. Sorrise anche Paolo, di riflesso, in meno di un millesimo di secondo. Stava per pensare “bravo corpo, lo sapevo che potevo fidarmi di te” quando quel sorriso così statico e neoclassico si tramutò velocemente in movimento, in azione. Stava parlando.

– ti sta per bruciare le dita
– cos?
– quella canna dico, sei a filtro

Ci siamo pensò, ecce homo.

Sofia era più giovane di lui, di qualche anno. Le sofferenze che lo avevano afflitto sembravano però aver dilatato il tempo terreno che aveva vissuto fino a quel momento, fino alla colazione coercitiva a cui lo aveva costretto al bar sotto casa. Si sentiva infinitamente più vecchio di lei, della pelle alabastrina degli zigomi appena sporgenti, degli occhi mare in tempesta dai quali vibrava una radiazione di intelligenza bambina, euristica, apparentemente immune alla sovrastruttura. Sofia era iscritta al gruppo Facebook ambientalista da qualche mese. La sua storia era diversa. Non aveva ancora subito perdite segnanti. Era figlia unica. Viveva, o credeva di farlo, appieno il suo tempo. Era degna rappresentante di una generazione vaporosa, abituata all’instabilità di una navigazione senza bussola, incline al cambiamento di rotta repentino. Dai genitori aveva ereditato una certa predisposizione ad un conformismo anfibio, sfumato da punte di snobismo tipicamente salottiero. Bisogna essere assolutamente moderni. I tempi dell’ansia postnovecentesca, del lavoro a scatti e delle insoddisfazioni latenti che avevano pervaso questa parte di globo, avevano fatto scattare in lei un meccanismo di difesa darwiniano. Società. Socialità. Condivisione. Questo era il mantra che recitava. L’ecologia nel suo significato più ampio e nobile non le interessava granché a dire il vero, ma andava tremendamente di moda. Sapeva che quello era il campo in cui si giocava buona parte del futuro della specie, ne condivideva tutto sommato i valori, ma vi si costringeva nello studio e nell’applicazione soprattutto per i vantaggi sociali immediati che questa attività poteva conferirle. Per l’immagine di sé che avrebbe dato ai suoi simili, perché fosse più semplice amarla. D’altronde non era poi così faticoso postare qualche link ogni tanto sui profili social. Quando in altre città si organizzavano raduni o flash mob a sfondo ambientalista, la considerava sempre una buona scusa per una gitarella dove conoscere persone interessanti, allargare il cerchio delle proprie amicizie, sentirsi meno sola al mondo. La quasi laurea in giurisprudenza alla Cattolica di Milano, voluta e pagata interamente e dal padre, rientrava perfettamente nella Gestalt di Sofia, che sperava in un giorno non troppo lontano di poter esercitare sulla tutela e protezione del verde, ossia diventare un eco-avvocato. La paga sarebbe stata buona, il fatto di occuparsi di natura avrebbe dato un tocco romantico e chic a tutta la questione, spianandole la strada di una vita comoda, sociale e moderna. Era al corrente dell’esistenza di Paolo per sentito dire, sapeva che il gruppo su Facebook era stato creato da lui e conosceva a grandi linee la sua storia, filtrandola da quello che pubblicava online. L’aveva colpita in particolare un’infografica sulle città italiane dove il flagello neoplastico sembrava essere più presente. Aveva deciso di fare una piccola ricerca, il tempo di un pomeriggio, per comunicarne i risultati a lui personalmente. Non risultò difficile reperire il suo numero di telefono. Dalla foto profilo sembrava carino.

Il vapore emesso da due tazze di caffè americano bollente fungeva da trincea fisica tra loro, schermandone vicendevolmente gli sguardi attraverso un diafano moto escheriano. Entrambi sentivano che la trincea mentale che li separava era più consistente e concreta, alimentatasi del silenzio che ricopriva come una nebbia quel tavolino. Avalon post coitale. Sofia prese l’ardita decisione di buttarsi a gomiti bassi nella terra di nessuno.

– come stai?
– …..
– ok… capito.. sei in hangover totale. ti ricordi almeno la cosa importante che ti ho detto ieri sera? quella percui (sic) volevo vederti?

Sofia intuì dallo sguardo vuoto e leggermente imbarazzato di Paolo che no, non se la ricordava. Un leggero fastidio tutto narcisistico le percorse i nervi, scaricandosi in un impercettibile tremolio del labbro inferiore. Non ricordava nulla nemmeno del dopo?
Avevano bevuto, ok, ma come cazzo era possibile avesse scordato tutto?

– cosa.. cos’è che volevi dirmi?

La noncuranza cosmica di Paolo aveva innescato in lei la necessità di conquistarne la pienezza dei pensieri, di catturarlo. La postura a gambe accavallate che teneva seduto su quella sedia, la maniera in cui reggeva la Benson blu, erano quelle di uno che sembrava fottersene di tutto e di tutti, persino di lei. Doveva per forza amarla e doveva per forza ricordarla. La sua lingua non le dispiaceva. Poi l’avrebbe lasciato andare, era troppo incasinato.

– senti… adesso sei un pochino scombussolato. ho organizzato un aperitivo per domani sera..
– …..
– no guarda una roba tranquilla. vado un tre settimane a Berlino, è una sorta di despedida. ci sarà un sacco di gente interessante.
– …..
– per un corso di food design… no figurati, mio padre. tipo un regalo di natale anticipato.

Stava per chiederle cosa cazzo fosse il food design ma si accorse in tempo di non nutrire un minimo interesse per la risposta. Si accorse di non nutrire un minimo interesse nemmeno per quella cosa tanto importante che lei avrebbe dovuto dirgli la sera prima, che pensava avrebbe potuto dirgli ora in quel rendez-vous mattutino, ma che stranamente posticipava alla sera successiva, come se questa potesse rivelarsi un’esca abbastanza potente per incagliarlo.

Paolo annusò la trappola. Ma domani sera era venerdì, di solito non lavorava, e i programmi che aveva non differivano molto da quelli degli altri venerdì: cannabinoidi, junk food e maratona di Dexter. Una serata in compagnia non gli avrebbe fatto male. Il suo culo non gli dispiaceva. Poi non si sarebbe più fatto sentire, era troppo fighetta.

La soirée era stata programmata in un bistrot aperto da poco, in piazzetta della Luna, gettonatissimo a sentire la gioventù produttrice ferrarese. Paolo scese in strada quando ormai il sole velato di quel giorno era già caduto verso l’altro emisfero. Dalle cuffiette la voce dopaminica di Christa Päffgen irradiava attraverso i meccanorecettori, fino allo stimolo neuronale. Cantava una canzone non sua, dal disco di un altro. Arrivando a piedi a pochi metri dal locale notò un gruppetto di persone, a prevalenza maschile, intorno a Sofia, raggiante in un lungo vestito nero che le spuntava da un pellicciotto smanicato fulvo, naturalmente eco. Le Dr. Martens, nere anch’esse, erano portate ironicamente. She’s goooing to plaaaay youu for a foooool… yes it’s tr Paolo tolse gli auricolari, aggrovigliandoseli in tasca. Una lieve ipoacusia temporanea fu il prezzo che dovette pagare per aver tenuto il volume al massimo durante tutta la camminata. Comprese di essere in ritardo, e questo contribuì ad aumentarne l’imbarazzo, già ampiamente sostenuto dalla consapevolezza di dover incontrare perfetti sconosciuti, con l’obbligo morale di instaurare con loro una relazione cordiale. Sofia eseguì immediatamente tutte le dovute presentazioni, invitando Paolo a stringere sei o sette mani; lo osservò mentre tirava le labbra cercando di simulare il sorriso più veritiero che poteva. Tra tutte le strette di mano che scambiò nessuna lo colpì positivamente. Faceva sempre molta attenzione alle strette di mano. Il padre una volta gli disse che un vero uomo stringe la mano come se dovesse farti schizzare via le unghie. Uno che non stringe non può essere che una mammoletta, oppure uno di cui non ci si può fidare. Nel corso degli anni Paolo notò come questa teorizzazione della genuinità, francamente provincial-generalista, avesse tutto sommato un fondo di verità. Ripensando a quella sera qualche tempo dopo, si accorse di non ricordare nemmeno i volti delle persone a cui strinse la mano, per non parlare dei nomi. Il suo ippocampo registrò quel gruppetto come un unico essere dai tratti somatici indefiniti, un collettivo: il giovane laureato pseudointellettuale ferrarese di nascita, che collabora con uffici fichissimi, spesso di altre città più grandi e quotate, dove fa il web designer o il sound engineer o il social media someshit. Nasconde la sua superficialità ironizzando su tutto, porta una barba che vuole sembrare incolta ma che in realtà è curatissima, ascolta musica e guarda film e legge libri che probabilmente gli fanno schifo o non capisce, ma di cui può discutere per ore con i suoi amichetti, perché quella è l’avanguardia: se tu parli di Pink Floyd, Mulholland Drive o Melville, ti lancia uno sguardo di profonda superiorità e disprezzo, annuendo, per poi girarsi a parlare con un suo simile per non considerarti più.

Maschere semoventi di cardigan troppo larghi, t-shirt celebranti un qualche tipo di hype e pantaloni troppo stretti abbinati a scarpe troppo scomode. Come previsto la serata risultò di una noia mortale: il collettivo parlava soltanto dell’ultimo concerto a cui aveva presenziato, quello di un dj berlinese nome d’arte Apparat al teatro Dal Verme a Milano. Paolo cercò delucidazioni sul come cazzo era possibile ascoltare musica elettronica da discoteca, la cui funzione dovrebbe essere quella di farti ballare, bevendo succhi di frutta seduti su comode poltroncine di raso. Come risposta non ottenne che risatine sarcastiche, corredate da un paio di sguardi pieni di compassione ed una vocina stridula che riempitasi di orgoglio

– beh primo perché tecnicamente non è musica da disco… ma glitch. Secondo… beh perché è figo.

Notata la reazione che suscitò con quella contestazione, compresa la risposta assiomatica, si decise a non aprir bocca per il resto della serata, sperando che l’ipoacusia potesse in qualche modo palesarsi di nuovo, rinvigorita. Si limitava a brevi cenni con la testa quando intuiva che un argomento X era condiviso dalla maggior parte dei presenti, concentrando l’interesse su Sofia e sul modo che aveva di relazionarsi con il suo ambiente. Filmava una sorta di documentario antropologico cerebrale. Sofia aveva proprio un bel paio di occhioni blu, non mostrava paura nel fissarti dritto nelle pupille anche oltre i sette secondi canonici, passati i quali solitamente l’aria si carica di imbarazzo o di desiderio. I suoi occhi non esprimevano nessuna di queste sensazioni quando si trovava in situazioni sociali; ti guardavano semplicemente, facendoti credere di essere davvero interessati anche alla più stupida frase di circostanza che le tue pliche vocali potessero fare uscire, fintanto che eravate reciprocamente impegnati in una conversazione. Finita questa, essi svanivano completamente, e non c’era modo di incrociarli ancora, se non rivolgendole di nuovo la parola. Sofia faceva davvero buon uso dei suoi occhi blu. Erano solo le otto di sera ma quando al tavolo arrivò il cameriere Paolo ordinò uno scotch&soda, per aiutare il tempo a scivolare via più velocemente mentre osservava l’arredamento interno del locale, che nonostante fosse scontato e per nulla originale, trovava più interessante della discussione sui progetti lavorativi di ognuno dei commensali. Sentì nello stomaco la stessa sensazione di quando si trovava in strada tra la gente, appena dopo la Sua dipartita. Si sentiva estraneo, totalmente alieno a quell’assemblamento di intelligenze votate alla disamina di un universo sensibile e meccanico; cervelli pratici, che rifiutavano qualsiasi idea che non fosse parte di una concatenazione di utilità mondana: lavoro, carriera e divertimento alternativo. Era impossibile trovare al loro interno l’idea pura, liberata dalla pesantezza della mortalità. Paolo li osservava, tutti presi dai loro discorsi vuoti, scambiarsi ammiccamenti e sorrisi finti come automi programmati da uno scienziato con poca fantasia, fino a quando la nausea non prendeva il sopravvento e lo spingeva ad ordinare un altro scotch&soda. Li guardava e si chiedeva quanti di loro avessero letto Proust. O se qualcuno di loro l’avesse mai letto. Una volta tutti i froci leggevano Proust. Lì in mezzo ce n’erano sicuramente almeno un paio, forse latenti, ma era certo che non lo avessero letto. Pensò che non c’erano più nemmeno i froci di una volta. Faceva di tutto per non farsi notare dal collettivo, ma non fu più possibile quando fermò con un gesto una cameriera carina per ordinare il quarto drink.

– abbiamo sete stasera eh?
Il resto della tavolata era fermo a metà del primo Moscow Mule.
– eeeeh già!

Abbozzò un lieve sorriso senza mostrare nemmeno un dente. Ad indicarlo era stato un tizio vestito completamente in nero, compreso un copricapo simil kippah, naturalmente ironico, che lasciava intravedere una rasatura vagamente hipster dallo sfenoide alla sutura lambdoidea. Poteva essere benissimo un architetto appena laureato, che invece di trasferirsi ad Helsinki per conoscere i Lokka Ripka di persona, aveva deciso di intraprendere la carriera da assistente universitario nella sua città natale. Oppure un mimo, chissà.

– non ci hai ancora detto che lavoro fai! di cosa ti occupi?

La domanda partì repentina e terribile come una freccia scagliata in una prateria vuota e silenziosa. Sofia si accorse subito del sottile fruscio prodotto da quelle parole e gli lanciò furtivamente uno sguardo carico di pena nascosta; sapeva che faceva il cameriere in una trattoria da quattro soldi, a lei l’aveva tranquillamente detto due sere prima, anche se forse non lo ricordava. Sofia era abbastanza intelligente per capire che confessarlo ad una donna tra le lenzuola ancora umide dello schiudersi dei loro corpi fosse piuttosto semplice, fosse persino un motivo d’orgoglio in quanto dava l’idea di un giovane indipendente ad ogni costo, abituato a badare a se stesso. Ammetterlo ad un’assemblea come quella invece, dove tutti sembravano aver dato una direzione precisa, proficua ed a modo loro interessante alla propria esistenza materiale, era una prova di difficoltà maggiore, che effettivamente Paolo non superò. Sentiva che prima o poi quella domanda sarebbe arrivata, era gestualmente quasi preparato e il calore che sentiva diffondersi sulle guance gli pareva di intensità minima, impercettibile.

Dopo aver preso una sorsata drammatica dal suo quarto scotch&soda

– Scrivo, più che altro. gestisco un gruppo facebook che si occupa di ecologia, collaboro con riviste e alcuni giornali. stavo giusto pensando di aprire un blog. niente di serio comunque. diciamo che mi paga l’affitto.

Accompagnò quest’ultima frase con un sogghigno tratteggiato ed un’altra sorsata di scotch, che stavolta gli serviva davvero per agghindare la storia. Per non tradirsi nel bel mezzo di una bugia bella e buona evitò di incrociare gli occhi di Sofia, la quale sapeva benissimo che stava mentendo. Un suo sguardo avrebbe potuto riportarlo alla dura realtà, strappandolo improvvisamente dall’ottovolante di alcool e fantasia che stava contribuendo a costruirne la maschera perfetta per quel tavolo. Il collettivo reagì tutto sommato bene, gli sguardi di approvazione e la cinestetica annuente dei loro capi testimoniavano che aveva scelto la bugia giusta, adesso però ne volevano di più di quella bugia. Stavano già per chiedergli i link per leggere gli articoli che gli avevano pubblicato quando Sofia, annusata l’aria, tese una mano amica per bloccare la scure che stava per decapitare la fandonia.

– rega chi mi accompagna per una paglia?

Solo tre persone del gruppo fumavano, e c’erano state dieci minuti prima. Paolo allungò immediatamente la mano verso la sua, l’unico appiglio che aveva per non cadere in un burrone di vergogna, e uscii con lei a riveder il ciotolato di piazzetta della Luna.

– non sapevo pubblicassi, complimenti! Esordì sardonica.
Paolo sbuffò e accese una Benson.
– pensi che non googleranno il tuo nome?
Non ci aveva pensato e probabilmente lo stavano già facendo in quel preciso istante.

– Ma poi che motivo c’era di raccontare tutte ste cazzate? – ….
– senti.. per quella cosa che dovevo dirti… tieni.

Sofia gli allungò un A4 piegato equatorialmente.

– leggitelo dopo, a casa.
– vado subito, buona Berlino.

Sofia fece per controbattere, ma si ritrovò muta ad osservarlo in una camminata dinoccolata e calma fino agli archi di piazza Savonarola. Stringeva tra le mani un pezzo da cinquanta che lui le aveva lasciato per la propria cospicua parte di conto. Capì di averlo perso. Il tremebondo fastidio narcisistico che la pervase fu attenuato temporaneamente dall’architetto in simil kippah, quella notte stessa.

Paolo sprofondò nella Voltaire di seconda mano che aveva trovato ad un buon prezzo su Ebay. Lo schermo del portatile aperto e puntato su Daniel Barenboim che guidava la Chicago Simphony Orchestra tra le limpide note della quinta di Mahler. Una bottiglia di Morellino aperta e puntata verso il calice che si stava servendo. L’A4 tornò alla sua forma originale estesa.

Foto di Giacomo Brini

“Tumori a Ferrara, conta più il fumo che gli inquinanti ambientali”.

Quando si parla di tumori Ferrara è peggio di Taranto, ma attenzione a giungere troppo rapidamente alle conclusioni nell’individuare le cause.
Possiamo riassumere così la ‘precisazione’ del direttore del Registro Tumori Area Vasta Emilia Centrale inviata al nostro giornale.

Quando si parla di cancro ci si riferisce in realtà a un consistente numero di lesioni molto eterogenee, con fattori di rischio molto diversi e frequenza nella popolazione dipendente da cause molteplici (rischi biologici, presenza di screening organizzati e spontanei, età media della popolazione e così via). E’ perciò fuorviante utilizzare, nei confronti geografici, la frequenza di “tutti i tumori”, in relazione ai rischi derivanti da inquinamento ambientale.

Il carcinoma polmonare ha strettissimi rapporti con quello che si respira e può essere invece un buon indicatore (insieme a molti altri anche non riguardanti i tumori) di una certa esposizione a determinati rischi.
C’è però un’altra considerazione da fare che evidenzia quanto sia difficile trovare una ‘pistola fumante’: “Va evidenziato che i dati presentati, riferiti dai rispettivi Registri tumori, sono dati relativi a due intere province (e non alle sole città di Ferrara e Taranto) e rappresentano perciò realtà eterogenee anche al loro interno. Ciò detto è noto da tempo: esistono dati pubblicati fin dai primi anni ’90 che segnalano, per la provincia di Ferrara, uno dei più alti tassi di incidenza per carcinoma del polmone a livello internazionale. Ed è altrettanto noto in Italia un gradiente nord-sud che vede appunto una maggiore concentrazione di tumori nelle aree settentrionali. Non è peraltro possibile ricondurre questi valori ad un’unica fonte inquinante, nemmeno in territori limitrofi. Pur con l’ormai tristemente noto carico di inquinamento prodotto dall’Ilva, Taranto vede, ad esempio, un rischio di tumori polmonari notevolmente inferiore a quello registrato in provincia di Lecce.

Esiste però un fattore costante, che vale per Ferrara e vale anche per Taranto (dato che nella città pugliese portò anche a varie polemiche): “Tutta la letteratura internazionale ha da decenni sancito in maniera inconfutabile il rapporto tra fumo di sigaretta e cancro (non solo polmonare) – spiega il direttore Avec -: circa il 90% dei tumori polmonari sono riconducibili a questo fattore di rischio e oltre il 33% del totale dei tumori è ascrivibile al fumo, contro un valore medio del 4-5% di altri fattori ambientali e occupazionali. Queste ultime e alcune malattie infiammatorie croniche producono peraltro una moltiplicazione del rischio nei fumatori. Tenendo conto che un tumore ha una genesi biologica che precede di almeno 10- 15 anni la diagnosi clinica, sappiamo ad esempio, dalle indagini multiscopo Istat degli scorsi decenni, che in provincia di Ferrara il tasso di fumatori è stato per lungo tempo superiore alla media nazionale. Una recentissima indagine dell’Azienda Usl di Ferrara sulle scuole di secondo grado della nostra provincia rivela che, pur con medie di fumatori ‘abituali’ lievemente inferiori a quelle dell’Emilia-Romagna, il numero di ragazzi ferraresi che hanno consumato tabacco almeno una volta è superiore ai valori regionali e nazionali, che le ragazze fumano più dei ragazzi e che hanno una più ridotta percezione del rischio. Insomma, oltre a considerare l’inquinamento dell’aria, è utile guardare anche ai propri comportamenti individuali: “Per limitare fortemente il rischio nei confronti di questo tumore esistono strategie estremamente efficaci e di breve periodo: non iniziando a fumare o smettendo di fumare il rischio si riduce drammaticamente e in breve tempo (per gli ex fumatori). Le strategie più complesse e di più lungo periodo, da non considerare naturalmente in concorrenza con le prime, riguardano naturalmente una diversa cultura di uso delle risorse dell’ambiente, da un punto di vista personale, sociale, economico e altro ancora. La pubblicazione da parte dei Registri tumori dei dati correnti assolve ad un diritto informativo della cittadinanza e delle istituzioni sicuramente molto importante.E’ essenziale che la conoscenza venga approfondita criticamente, alla luce delle evidenze scientifiche, e possa promuovere atteggiamenti di prevenzione che, a cominciare dal livello personale (fumo, alimentazione, adesione ai programmi di screening) presentano al momento margini migliorabili anche per la popolazione ferrarese”.

Paolo accese una delle Sue Benson Blu.

Le fumava avidamente.

Non sapeva se interpretare l’articolo che aveva appena letto come un tentativo dell’establishment di difendersi dalle accuse di avvelenamento sistematico, o come un sincero appello al condurre una vita considerata occidentalmente salubre. Non gli importava nemmeno più.

Aveva provato a smettere, almeno così diceva.

Non pubblicava un post da settimane, non si informava, si era lentamente affievolito nella presa di coscienza della banalità della morte. Quella del padre, quella di qualche centinaia di immigrati vicini alle coste italiane, quella di un bimbo siriano, quella che sarebbe stata la sua.

Quindici centimetri.

Tutto era stato, è, e sarà vano. Non esiste nessun nemico da combattere. Pallida mors aequo pulsat pede pauperum tabernas regumque turres, e così sia.

Era un autunno o quasi, era settembre. Paolo alzò il bavero del cappotto. Adagiò un foglietto sul piccolo monumento che custodiva l’involucro svuotato di un’anima che gli era stata affine. Il vento pareva divertirsi nel farlo roteare a mezz’aria.

Poi caddi, come una goccia di pioggia che non essendo attaccata a nulla di abbastanza concreto, disegna la sua traiettoria perfetta verso il suolo. Forse un sasso, non ricordo, forse semplicemente la paura di non essere in grado di farcela fece sobbalzare la piccola bicicletta rossa che stavo cavalcando per la prima volta, facendomi finire faccia in giù sul terreno aspro. In bocca polvere e sassi, il profumo dei pioppi che costeggiavano quel vialetto si confondeva con il ferroso sapore del sangue che cominciava a colarmi dal naso. Non piansi. Cercai tutte le forze che avevo per rialzarmi, nonostante tutto, nonostante fossi caduto. Ma non ci riuscii, la vergogna di non avercela fatta proprio davanti ai tuoi occhi era più forte di qualsiasi slancio del mio animo e mi opprimeva come una forza di gravità cinque volte al di sopra della mia abitudine. Restai immobile, cercando di rallentare il respiro e il battito cardiaco che spingeva verso il basso, verso la terra di quella strada di campagna; osservando il sentiero che prolungava fino ad un ponticello e le chiome degli alberi così folte in quella primavera e il vento che le scuoteva con arroganza, cercavo di calmarmi. Poi la tua mano arrivò, come un’ancora robusta, e mi prese e mi rimise in piedi. Mi chiedesti se mi ero fatto male. Io risposi di no. Mi dissi che ero stato bravo ma io pensavo che non era vero, che avrò fatto al massimo dieci metri pedalando in maniera sgraziata e poi ero caduto. Tu mi capisti, mi leggesti dentro come facevi sempre e senza che avessi il tempo di aprir bocca mi dissi che era vero che alla fine ero caduto, ma quei dieci metri qualcuno li aveva pedalati, e non era un altro ad averlo fatto, ma io. E che poi domani sarebbero diventati venti quei metri e poi sarei caduto ancora. Poi trenta il giorno successivo e sarei caduto, poi cinquanta.. fino al giorno in cui le cadute sarebbero diventate così rare da rendere impossibile il conteggio dei metri percorsi da una caduta all’altra. Ti chiesi quanti giorni e quante cadute sarebbero servite per arrivarci e mi rispondesti che nessuno poteva saperlo, non tu, non io, nessuno al mondo. Ma se mi fossi impegnato e ci avessi creduto quel momento sarebbe arrivato inaspettatamente, e la sorpresa iniziale di riuscire a continuare senza cadere avrebbe lasciato immediatamente il posto alla consapevolezza di potercela fare, e forse non sarei caduto mai più, perché il pedalare in equilibrio su di un trabiccolo mi sarebbe venuto naturale come respirare. E mi sarei goduto la corsa.

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