di Gloria Dalla Vecchia

Matteo Farolfi é un artista ferrarese che si potrebbe definire multimediale.  Già il cognome fa presagire qualcosa di misteriosamente curioso, ricorda un faro, un guardiano del faro forse, a detta dello stesso. Farolfi ha studiato chimica all’istituto tecnico, ha poi lavorato in radio e studiato i suoni – addirittura con il tecnico dei Jethro Tull. A trent’anni ha scoperto il mondo dell’arte visiva e successivamente ha sviluppato una tecnica tutta sua, grazie anche ad un corso di pittura. Lavora tutt’ora per un’azienda di graphic design a Bologna e non può fare a meno di sognare un lavoro tutto suo come agente pubblicitario. La creatività sicuramente non gli manca. Ci ha mostrato in anteprima le sue opere più ricercate che saranno presentate oggi, sabato 21 gennaio a Spazio Aperto, in via Carlo Mayr 69 a Ferrara e per questa ragione siamo andati a trovarlo nel suo laboratorio, un garage, un posto davvero accogliente, con tanto di stufetta elettrica per queste fredde notti in cui lui, ammette, preferisce lavorare. E per essere un laboratorio creativo ci ha colpito subito il suo essere, come lo definisce l’artista stesso, così “perfettino”: davvero molto pulito.

Alla mostra di sabato ci saranno 18 sue opere esposte, e a prima vista sembrava ce ne sarebbero dovute essere addirittura meno, tanto è ordinato il suo rifugio. Tuttavia, con il passare del tempo, l’occhio si è abituato a quella dimensione e piano piano saltavano alla nostra attenzione sempre più dettagli, apparentemente nascosti. Incredibile come in uno spazio così angusto come un piccolo garage, Farolfi sia riuscito a ricreare quasi un trompe-l’oeil strutturale, capace di contenere tutte le sue creazioni. Quadri, sculture, assemblamenti di materiali, lampade. Addirittura una macchina da scrivere di suo nonno, o meglio il nonno della moglie, con ancora incastrata della vecchia carta, sulla quale si può leggere a fatica l’incipit “c’era una volta”. Una storia sconosciuta a tutti tranne che all’autore anonimo. Quindi un ringraziamento va anche al fu Aladino Biasini, il nonno, il quale ha fornito al Farolfi buona parte del materiale usato. Viti, bulloni, barattoli, libri… tutta roba dagli anni Venti in avanti.

Foto di Corradino Janigro

I suoi lavori sono molto interessanti, ovvero belli, poiché sono uno strano mix di originalità e familiarità. Ancora oggi l’uomo che ha dato vita a “Time Machine”, così si chiama la mostra, sembra un ragazzino alla scoperta del mondo, nonostante sia ormai alle soglie degli -anta. È pronto a sorprendersi, ad imparare, ma soprattutto ad ascoltare. E forse é proprio questo che fa di lui un artista: un osservatore della realtà che la interpreta in chiave personale, ma che tuttavia parla a tutti e in cui é riconoscibile una certa universalità. Ritroviamo vecchi barattoli di latta dati a nuova vita come parte fondamentale di un piccolo robottino da lui stesso assemblato, viti e bulloni come decoro di lampade futuristiche, un dipinto a tempera associato a immagini digitali in post produzione. Praticamente un incidente temporale tra vari oggetti o tecniche che altrimenti non potrebbero coesistere se non in un progetto artistico che porta questo nome. Macchina del Tempo.

Oppure. Tempo delle Macchine.

Non si può non notare infatti una certa assenza dell’essere umano in tutte le sue opere. I suoi soggetti possono essere infatti un robot dietro una porta, un Buddha di pietra che ci volta le spalle, oppure delle presenze non meglio identificate. Forse un fantasma, forse un’ombra bianca, forse appunto lo spazio lasciato vuoto da una persona che non viene volutamente raffigurata. Protagonisti indiscussi delle opere sono il tempo e lo spazio, ovvero una realtà che va al di là del tempo e dello spazio: un tempo imprecisabile ed uno spazio deturpato. É forse l’immaginazione dell’artista di un futuro possibile e frutto di una realtà distopica? Oppure la semplice bellezza dell’immagine in sé, senza la pretesa di un messaggio politico allarmistico? Oppure ancora un esperimento dato dalla curiosità di usare oggetti e strumenti, metterli insieme, e vedere che cosa ne può nascere?

D’altra parte un artista è soprattutto un esteta, non un sociologo. Egli crea. Non si pone domande. É puro canale aperto con l’interiorità e la verità. A volte é doloroso tirare fuori la verità. Tante volte non ce la sappiamo spiegare, non riusciamo a capire come mai una certa fotografia o un certo quadro ci piacciono così tanto e parlano noi a noi stessi.

Matteo Farolfi ha avuto una buona intuizione. Il suo stile é decisamente personale e non preoccupatevi: risponderà a tutte le vostre domande con un’innocentissimo «non saprei proprio».

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