Ci sono momenti in cui l’orologio della storia sembra fermarsi ed è come se il corso vorticoso degli avvenimenti si sospendesse, come in una fotografia destinata a non ingiallirsi mai nonostante il passare degli anni. Ottanta ne sono trascorsi da quei giorni d’inizio agosto del 1936, dall’undicesima edizione dei Giochi Olimpici svoltasi a Berlino, ma l’intreccio tra la Storia con la esse maiuscola che di li a poco si sarebbe tragicamente compiuta – e che proprio nella Berlino capitale del Terzo Reich ebbe il suo primo inquietante preannuncio – e le tante storie umane, grandi e piccole, che si condensarono in quei quindici giorni, ha impresso per sempre quell’edizione delle olimpiadi nella coscienza collettiva. “Quando Emilio Russo, regista e direttore artistico del Teatro Menotti di Milano, dopo aver visto alcune puntate delle Storie Mondiali che girai un paio d’anni fa per Sky, mi chiese in quale contesto teatrale mi sarebbe piaciuto calarmi, non ebbi dubbi e risposi immediatamente le Olimpiadi di Berlino del 1936, che considero una pietra miliare del ventesimo secolo e dello sport in particolare”, racconta Federico Buffa, il più grande narratore italiano di storie di sport, che sabato scorso ha portato sul palco del Teatro Nuovo di Ferrara il suo spettacolo ispirato proprio agli avvenimenti di quell’olimpiade.

Con Berlino ’36 le olimpiadi entrano definitivamente nella modernità: fino ad allora l’evento sportivo più importante del pianeta aveva conservato dimensioni piuttosto modeste, basti pensare che quattro anni prima a Los Angeles i paesi partecipanti erano stati appena trentasette e, se si vanno a vedere le poche immagini disponibili, si nota come gli stadi fossero semi deserti. Furono i nazisti e, tra loro, il diabolico Ministro della Propaganda Joseph Goebbels, a intuire il potenziale dello sport quale straordinario mezzo per diffondere l’immagine temibile della rinnovata potenza tedesca. Quando nel 1933 salì al potere, Hitler si ritrovò tra i piedi un’olimpiade assegnata alla Germania due anni prima e a lui la cosa non interessava particolarmente. Per Hitler lo sport non aveva altro valore se non quello di formare fisicamente i buoni soldati per quella guerra che già stava programmando, e le olimpiadi, con il loro messaggio di pacifismo e internazionalismo, mal si adattavano all’ideologia nazista. Fu Goebbels a farlo tornare su suoi passi: “Mio Fürher – gli disse – pensi quale grande occasione abbiamo per dimostrare al mondo intero la superiorità del Terzo Reich e della razza ariana rispetto alle rammollite democrazie occidentali”. Hitler non solo si fece convincere, ma volle esagerare, affidando, senza limiti di spesa, all’architetto di regime Albert Speer, suo favorito, la costruzione del monumentale Stadio Olimpico, una specie di enorme “bara” di marmo bianco che doveva rappresentare la continuità tra la classicità greca e la Germania nazista; mentre per rendere immortale quello che avrebbe dovuto essere il più grande evento sportivo mai concepito, chiamò la grande regista Leni Riefensthal. E se noi ricordiamo ancora Berlino ’36, gran parte del merito va proprio alla Riefensthal e al suo “Olympia”, a tutt’oggi unanimemente considerato il miglior documentario sportivo mai realizzato. “Berlino ’36 – commenta Buffa- è di una sinistra attualità per quanto attiene al mondo sportivo: la sua spettacolarizzazione, il doping di Stato e l’uso dello sport per altri motivi sono temi che non sono di ottant’anni fa, ma sono qui, oggi. In quel 1936 lo sport ha perso la sua verginità e una vergine non torna più. Oggi lo sport è più che mai a disposizione per gli scopi di chi lo vuole utilizzare”.

Foto di Piero Cavallina

Sulla scena Buffa interpreta Wolfgang Furstner, responsabile della vigilanza all’interno del villaggio olimpico e gli fa ricordare, vent’anni dopo, gli avvenimenti di quell’estate berlinese. Si tratta, però, di un espediente teatrale, Furstner parla come fosse dentro a un sogno, perché nella realtà si suicidò il 19 agosto del 1936, tre giorni dopo la conclusione delle olimpiadi. La Gioventù hitleriana aveva scoperto che, pur essendo un eroe della guerra ‘14-‘18, aveva un nonno nelle cui vene scorreva sangue ebraico e, non potendo presentare un certificato di pura arianità, non resse la pressione e si suicidò, anche se la Wehrmacht parlò di incidente stradale. “E’stato Emilio Russo, il regista, a scegliere Furstner – continua Buffa -, perché rappresenta perfettamente la drammaturgia della sconfitta anche se, poi, io faccio un passo avanti e parlo con la prospettiva di un uomo d’oggi, che ha il privilegio di sapere come andarono le cose durante quell’olimpiade “.

Con il suo modo di raccontare avvolgente, Buffa (supportato sul palco dallo splendido accompagnamento musicale di Alessandro Nidi e dalla cantante Cecilia Gragnani) ci guida per mano a una riflessione sul valore dello sport. Dentro Berlino ’36 ci sono alcune storie, più di altre, che sono rimaste emblematiche, su tutte quella dell’atleta di colore Jesse Owens, vincitore di quattro ori nei cento e duecento metri, nel salto in lungo e nella staffetta 4×100. E il fatto che un afroamericano trionfi nell’olimpiade che doveva consacrare la superiorità della razza ariana è, di per sé, una vicenda straordinaria. Nella finale del salto in lungo, però, Owens, dopo due nulli, era a rischio eliminazione; riuscì a qualificarsi per la finale e, poi, a vincere, grazie ai consigli dell’atleta di casa, l’idolo tedesco Luz Long, che vinse l’argento: “Long è il simbolo fisico del mondo ariano, alto, biondo, occhi azzurri, ma non è nazista – racconta Buffa- viene dalla buona borghesia di Lipsia, quella che Hitler volle sterminare e di cui bruciò tutti i libri. Quest’estate ho avuto il privilegio di parlare con sua nipote, la quale mi ha confidato che le richieste che riceve da ogni parte del mondo per raccontare la storia del nonno sono impressionanti ed è proprio il Governo tedesco che spinge in questa direzione, perché vuole dimostrare che a Berlino c’era almeno un tedesco che non era nazista”.

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C’è una bellissima immagine che ritrae Luz Long e Jesse Owens a Berlino ’36: i due sono sdraiati a bordo pista e parlottano, forse Luz sta dando a Jessie i consigli buoni per evitare un altro salto nullo. Non potrebbero essere più diversi, un perfetto ariano buon borghese e un nero, figlio di un raccoglitore di cotone dell’Alabama, ma in quel momento si troveranno e non si lasceranno più. Long morirà a Gela nel 1943, ufficiale della Luftwaffe, pochi giorni dopo lo sbarco degli Alleati in Sicilia. Tra le sue cose sarà ritrovata una lettera indirizzata all’amico Jessie, in cui gli chiedeva, a guerra finita, di andare da suo figlio e raccontargli di quando non c’era una guerra a separarli.

E poi c’è Sohn Kee-Chung, forse il maratoneta più forte di tutti i tempi, che vincerà anche a Berlino, lui coreano, per il Giappone che nel 1910 aveva conquistato il suo paese, cancellandone ogni espressione culturale: “Jessie Owens a casa sua negli Stati Uniti è segregato, con la sua famiglia è stato vittima del Ku Klux Klan, vince quattro ori olimpici senza che il Presidente Roosevelt gli invii neanche un telegramma – continua Buffa; Son Kee Chung corre con un nome che non è il suo, per una nazione che non è la sua ed è quella che sta occupando e distruggendo il suo paese. Entrambi correvano in quel momento per due oppressioni diverse ed hanno rappresentato due mondi in difficoltà in due luoghi diversi del pianeta”.

Dopo “Le Olimpiadi del 1936”, giunto ad oltre ottanta repliche, Federico Buffa vorrebbe fare qualcosa per gli studenti, raccontare una storia che parli soprattutto agli universitari: “Sto pensando a una storia americana che abbracci un arco di cinquant’anni, dagli anni ’60 del Novecento ad oggi. Partendo dal famoso discorso di Steve Jobs a Stanford e dalla celebre frase “Stay hungry, stay foolish”, che non è di Jobs, vorrei raccontare la storia di chi quella frase l’ha pensata e pronunciata per la prima volta, perché se uno come Jobs, che è un’icona del nostro tempo, ti cita come suo modello formativo, io voglio sapere chi sei e che cos’hai fatto nella vita. Ci tengo a fare qualcosa che parli direttamente ai ragazzi: l’altro giorno ero davanti a settecento studenti della Cattolica e ho fatto una domanda sulle olimpiadi di Berlino. Non c’è stato uno solo dei ragazzi che abbia alzato la mano. Mi aspettavo che in ambiente universitario ci fosse più reattività e, invece, non è stato così e questo mi ha colpito molto. Colpa della scuola italiana e di un certo appiattimento sul presente a cui io mi oppongo: se c’è qualcosa che ti interessa della storia di un atleta in un certo periodo storico, devi documentarti sul contesto che lo ha generato, invece mi sembra che l’atleta sia l’unica cosa che importa. Lo sport è un meraviglioso veicolo: se lo si utilizza per far riflettere la gente su chi siamo e in che realtà siamo calati, allora il suo valore è incommensurabile”.

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