Abbandonarsi non è facile ma talvolta per comunicare, per capire, è imprescindibile. Abbandonarsi inteso come allontanarsi dalla propria identità, dal proprio io cosciente e razionalizzante, dai propri giudizi e pregiudizi, dalla consapevolezza di essere qui ora. Inteso come oblio funzionale a ritrovarsi in forma più autentica, spogliati da comportamenti, abitudini e maschere. Più reali e vicini e capaci di entrare in relazione.

Giro attorno a questo pensiero bevendo un bicchiere di prosecco, che è banale ma spesso le cose banali vengono dimenticate e allora forse è meglio scriverle, nella penombra gialla che emana dall’enoteca Don Giovanni e si riflette sul pavimento in marmo del Palazzo della Borsa. Dopo aver visto “Vudù”, la personale di Giovanni Nascimbeni, allestita all’interno del locale.

Un titolo corto e azzeccato, parola antichissima che sa di bambole di pezza infilzate di spilli, sciamani, sacrifici di galli, spiriti e trance. Letteralmente significa “segno del profondo”, esattamente ciò che si trova sulle tele, realizzate con cenere, colla e fango, vari altri elementi naturali. Di figurativo c’è pochissimo, giusto l’introduzione, con due autoritratti graffiati e un’opera dedicata all’ambiente: cielo rosso e nuvole nere. Funziona come “starring”: ecco il protagonista, ecco dove si svolgerà l’azione. Perché di azione si tratta: la sequenza dei lavori è narrativa, accompagnata da didascalie scarne e surreali ma efficaci. Ciò che racconta è un rito di passaggio.

Giovanni la spiega così: «Mi trovato in un momento paludoso, riferito sia al contesto in cui vivevo ma anche a livello personale, esterno ed interno coincidevano. Ero a Tarragona, ho vissuto lì due mesi e in quei due mesi ho realizzato la maggior parte delle opere. Stavo sbagliando delle cose e sentivo l’esigenza di scavare, tirare fuori i cadaveri da sotto terra per capire cosa stava succedendo. Ho pensato al rito di passaggio vudù perché mi sembrava una pratica vicina a ciò che stavo cercando di fare con la pittura, utilizzata in modo terapeutico».

Foto di Giulia Nascimbeni

Il rito comincia nell’oscurità di “Curaro”, che ricorda una bocca spalancata dalla quale non esce niente, è congelamento, il blocco, la partenza. «Ho composto ogni lavoro in tre fasi. Le prime due sono completamente irrazionali, ovvero la costruzione del fondo e il tracciato delle linee principali. Cerco di depersonalizzarmi il più possibile, di dimenticare che sono io che sto facendo un quadro che poi verrà visto e valutato, lasciarmi trasportare dal gesto. Allontanare concetti come bello e brutto, socialmente accettato e non accettato, giusto e sbagliato. Agire ciò che sento, far cadere uno a uno i filtri che stanno tra me e la mia mano, che a parole è facile ma nella pratica non è così semplice, ma credo sia l’unica strada efficace per riuscire poi ad essere letti anche dagli altri. La terza fase è quella in cui subentra la razionalità, sistemo gli equilibri». Lo stesso processo dovrebbe fare chi visita la mostra: sottrarre la coscienza dallo sguardo, confrontarsi con l’energia rimasta aggrappata al segno, tramite il gesto.

“Vudù” non è la prima mostra di Giovanni a Ferrara e dintorni. Nel 2013 “Fluidi” è stata ospitate della Porta degli Angeli, assieme alle fotografie di Paolo Zappaterra, nel 2014 “Oximoro” alla galleria Rose Selavy, nel 2016 ad Area Giovani la performance Piattaforma 47 assieme a Gianluca Zecchi, “Frammenti” all’hotel Carlton, “Cascate del Niagara” da Pettyrosso a Voghiera.

«Fino a qualche anno fa prestavo più attenzione, nel dedicarmi all’opera, a quello che le altre persone avrebbero capito o comunque percepito dai miei lavori, ma sono arrivato alla conclusione che del fruitore mi interessa relativamente. Produco, alcune opere risultano più efficaci ed altre meno. Se mi impantano nel tenere conto di quello che le persone vorrebbero non ne salto fuori, oppure nel fatto che quasi nessuno compra. Smetterei di farlo. Ovvio che non posso ignorare al cento per cento la risposta finale, si tratta comunque di comunicazione e se non arriva niente è un problema, ma cerco di non pensarci, anche perché più resto concentrato su ciò che sto facendo più mi sembra di riuscire a trasmettere. Per lo stesso motivo cerco di farmi influenzare il meno possibile. Cerco le influenze a livello interpersonale, non a livello artistico. Non voglio entrare nell’ottica di chi sfoglia i libri e i cataloghi d’arte per capire cosa è ritenuto bello e interessante e cosa no. Preferisco siano gli altri a rintracciare coordinate comuni con altri artisti, come Vedova che mi piace tantissimo e sicuramente mi ha condizionato, ma appunto: avrei voluto saperne il meno possibile, non conoscere il suo lavoro. L’obiettivo è costruire un percorso che sia mio. Le ultime cose che sto facendo ad esempio sono meno oscure, più watercolor e sfumate, anche se continua a piacermi la profondità, la sostanza. Non mi interessa edulcorare, nell’arte come nella vita, vincono la carne, il sudore, le lacrime e il sangue».

Materia organica ma non solo e non per forza. In “Profondità con galline” sono stati gli animali stessi a impastare il fondale, razzolando sulla tela fatta asciugare a terra, cosparsa di becchime, «ma la componente naturale non domina, “Vudù” è piuttosto un discorso sul dolore. Mi viene in mente “Il mondo nuovo” di Huxley, libro bellissimo scritto negli anni Trenta, dove si immagina una società che non soffre, dove il dolore è percepito come qualcosa da cui scappare. Stare male per stare male è inutile, ma si può crescere attraverso la sofferenza. Le trasformazioni sono dolorose, non ha senso cercare di saltarle».

Le due tele con sfondo bianco sono state realizzate a Ferrara, ambiente diverso, situazione diversa, colori diversi. Dopo un periodo importante all’estero anche il ritorno è un passaggio.

In Spagna Giovanni aveva inaugurato presso la propria abitazione la NoHayNada home gallery. Oggi quell’esperienza si cala in un panorama sociale e culturale completamente diverso, ma non per forza meno stimolante. La “vecchia” casa diventa un nuovo punto di incontro: «ho deciso di allargare il contenitore iniziale, intersecare arte e convivialità. Per necessità e per passione ho lavorato a lungo in osteria, interessandomi alla cultura del vino ma anche a quella dell’oste, inteso come colui che ospita. Mi sto adoperando per trasformare la casa in uno spazio di condivisione creativa, un luogo da frequentare per le mostre ma anche per una cena in compagnia, dove gli artisti o le persone interessate a scoprire la città da un punto di vista particolare possano, se hanno necessità, anche fermarsi a dormire qualche notte. Credo che un’ambiente del genere possa essere un buon punto di partenza per esplorare Ferrara, e che viceversa per la città sia stimolante avere un punto di riferimento attraversato da esperienze artistiche che provengono da altri contesti».

Nell’attesa di conoscere i vini proposti dalla home gallery, “Vudù” resta in parete fino a dicembre al Don Giovanni. Consigliato da abbinare: Barbagianna di Francesconi, «procedimento di produzione naturale, sincero e a tratti fin aggressivo».

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