NATI NEL 1986. «Non ricordo il giorno in cui siamo nati di preciso, ricordo solo che in quegli stessi giorni uscì anche il primo Dylan Dog. Era il settembre del 1986». La nascita degli Strike si perde tra i ricordi di una lunga vacanza a Cattolica, trascorsa nella casa della nonna. I vent’anni appena compiuti, una maturità alle spalle, tanta voglia di divertirsi lontano dalla città. Ma di colpo, un giorno, squilla il telefono. Antonio Dondi corre a rispondere, rimane attaccato alla cornetta. È Marco Bianchi, quello che diventerà il chitarrista del gruppo. «Guarda Antonio, devi tornare subito. Qui sta succedendo una cosa bellissima». Questa è la telefonata che sancì l’inizio degli Strike (anche se ancora non lo sapevano), band ska che segnò a fuoco quel periodo vivo della controcultura ferrarese, che ora si perde tra i ricordi, le foto sbiadite, i racconti, i video a bassa qualità e una miriade di racconti di amicizia, di Spal, di Curva Ovest, di droga, di musica, di Ferrara.

PRENDI UN GIORNO I SEX PISTOLS IN LEVARE. L’incontro è tra due generazioni diverse. Antonio e Marco, appena ventenni, e Paolo Carassini e Luca Melotti (ai quali si aggiunge poi anche Michele Gardini alla batteria), tastierista e bassista più grandi di cinque, sette anni. «L’idea iniziale era quella di fare del folk francese, cantando in francese, con la batteria elettronica. Tutti noi venivamo dalla new wave, dal dark, dal punk. Una via decisamente più scura». Lo ska arriva per caso, mentre stanno ascoltando una canzone che ska non è: Lonely Boy dei Sex Pistols. «Ci siamo detti: sarebbe bello trasformare questa canzone in levare. E così abbiamo fatto. Funzionava». Poi Michele becca per caso sul mensile Fare Musica un concorso: chi vince può registrare un 45 giri e pubblicarlo. «Ecco, fu così che fummo obbligati a trovare un nome. Per un po’ ci balenò l’idea di chiamarci The Roses, in omaggio a Morrissey, perché lanciava rose al pubblico prima di iniziare i concerti degli Smiths. Poi optammo per un pacchetto di sigarette. Allora andavo matto per quelle senza filtro. In più Strike aveva più significati. C’era dentro l’amplein, lo sciopero, il colpo d’oro. Perché in inglese? Perché allora andava così, nessuno cantava in italiano a parte la scena fiorentina, più dark, con i Litfiba e i Diaframma, e quella bolognese, più demenziale».

L’inglese di Antonio è terrificante, regna la esse ferrarese. «La mia pronuncia marcatamente emiliana fece sbroccare il fonico Paolo Cingolani, che in seguito diventò l’ingegnere del suono negli studi di Mina a Lugano». Il concorso della rivista è in collaborazione con Rai Stereo Notte, tanto che già nel 1987 le canzoni degli Strike passano in radio. Inizia un minitour in giro per la provincia. «Il primo concerto fu alla Festa dell’Unità di Stienta, il 5 giugno 1987. Venne interrotto bruscamente dai dirigenti di partito, che dovevano iniziare il dibattito. Oggi, con molta probabilità, a fermarci sarebbero stati i balli di gruppo, come ho visto coi miei occhi a Portomaggiore».

COSA SERVE SUONARE SE I TUOI AMICI NON TI FANNO OH YEAH? She remains so alone, che parla di violenza domestica da parte di un padre ubriacone sulla figlia, vende quasi duemila copie in Italia e in Europa, senza alcuna distribuzione ma col supporto di fanzines cartacee. Nel maggio 1988 gli Strike hanno un concerto a Milano, dove Franz Di Cioccio dei Pfm e Roberto Manfredi, produttore discografico, rimangono estasiati dalle sonorità autentiche del gruppo, tanto da aprirgli le porte di Fuori Orario, condotto da David Riondino su Rai Tre. «All’inizio pensavamo a uno scherzo, ma finimmo in poco tempo a dividere il palco con Amanda Lear, Enzo Jannacci e Dario Fo. Non avevamo di certo una partita iva per farci pagare, così ci proposero un altro compenso. Un hotel 5 stelle, tutto spesato. Tre giorni nel mondo Rai. Una figata con gli occhi di un ventenne, un assurdo spreco di denaro pubblico con la testa di oggi». A Milano alcune ragazze che lavorano in Rai sostengono che gli Strike ricordano molto i Casino Royale, e li fanno incontrare. «Erano molto più avanti di noi – commenta Antonio –. Erano milanesi». Nella gita milanese il gruppo ferrarese conosce però anche un produttore turco cresciuto a Parigi. «Bello che cantiate in inglese – ci fa il turco – ma come fanno i vostri amici a rispondervi ‘Oh yeah!’ durante i concerti?». «Aveva ragione, fu illuminante. Fu così che iniziammo a scrivere i testi in italiano».

PIAZZETTA GUSMARIA, IL MAGIC PUB, GIORGIO FELLONI. La Ferrara di allora è uno strano microcosmo, profondamente ambientato da personaggi e storie degne delle migliori pubblicazioni degli e sugli anni Ottanta. «C’era questa piazzetta, Gusmaria, e questo locale, il Magic Pub, dove accadevano le cose. Era un posto frequentato da teppisti, delinquenti, drogati, spacciatori, ma anche dagli artisti, e tutti questi mondi si interfacciavano tra loro. C’era Carlo l’arciere, li costruiva anche per il Palio riprendendo la tecnica direttamente dal Medioevo, c’era l’eroina e tutte le altre droghe che giravano. Tutte tranne la cocaina, al contrario di oggi». In questo contesto, gli Strike incontrano Giorgio Felloni, che inizia a collaborare non solo alla stesura dei testi ma anche come grafico e chitarrista. «Gli chiesi aiuto per scrivere e cantare in italiano, visto che non l’avevo mai fatto e per me era difficilissimo. Dai suoi testi è nato Scacco la re, considerato da critica e pubblico un bestseller della musica underground, che ci ha fatto uscire dall’Italia vendendo quasi cinquemila copie in tutto il mondo». Ricominciano anche i concerti: Milano, Roma, Bologna, Genova. Gli Strike iniziano a viaggiare. «Erano tempi in cui finivi i concerti con le scarpe sporche di sangue. Si viveva nel pieno dell’edonismo reaganiano, ma c’era un sottofondo molto, molto violento».

PAESE MIO CHE STAI SULLA STATALE. La storia di Antonio Dondi e del gruppo più che da Ferrara, parte da Mirabello, piccolo paese disteso lungo la statale 66, nella piatta e distesa pianura ferrarese. «Era pazzesco, sembrava di vivere in un kibbutz. Io non ero Antonio, neanche il figlio di mio padre. Ero semmai il nipote di mio nonno. Nell’82 giravo in piazza con lo smoking e il papillon leopardato, i capelli rasati e il ciuffo rosso cotonato. Ero comunque per tutti il nipote di Carlon. La mia fortuna è stata quella di incontrare persone sciroccate come me. Avevamo un’indole anglosassone, non italiana, e la cosa era vissuta da tutti in modo ironico, perché era un mondo in costruzione, molto più facile di oggi che viviamo in una babilonia satura».

1988-1990. È l’ora per tutti di servizio militare.

LE RADICI SONO FATTE PER ESSERE TRADITE. Paolo e Luca, a malincuore ma serenamente, lasciano la band sostituiti da Diego Fabbri al basso e Roberto Renesto alle tastiere. «Alla fine del servizio allo Stato e al suo apparato militare, apriamo il concerto a Firenze dei Mano Negra. Inizia una relazione profonda con Bologna, con Mauro Bindelli, autore del mitico Live Fest e primo a usare il Parco Nord di Bologna per i concerti, e con i Fratelli nella loro ‘casa di marzapane’. Una casa colonica su un isolotto sul Reno, dipinta con secchiate di vernice. E qui, dal nostro ska casuale, decidemmo di cambiare completamente rotta». Tutti si aspettano un nuovo album che segua le tracce di Scacco al re, ma negli Strike scorrono nuove idee e nuovi ritmi. «Più noise, tanto che molti gridarono al tradimento. Ma le radici sono fatte per essere tradite, no? Così fu anche per il singolo, Cercando un senso. Entrammo in un altro circuito, quello tra centri sociali e le band, che allora si stava diffondendo. L’asse della band si spostò tra la Jamaica e Cuba, il Maghreb e Parigi, New York e San Francisco, Londra e Buenos Aires. Il processo di cambiamento fu veloce e naturale. Nel maggio del 1991 partimmo per un tour in Francia. Una sfida condotta a cavallo di un vecchio furgone azzurro arrugginito, affrontando platee assai meno compiacenti di quelle di casa ma stringendo anche nuovi legami, respirando nuove culture ed entrando in contatto, a Parigi, con il quartier generale della Mano Negra, tra Place d’Italie e Pigalle». A settembre registrano al Chorus Studio di Bologna l’ep Croci & Cuori. La musica italiana vive un momento fertile, pieno di contaminazioni: Mau Mau, Africa Unite, Casino Royale, Persiana Jones, Sud Sound System, Frankie HRG, Ak47, Isola Posse, Il Generale, Fratelli di Soledad. «Eravamo tutti gruppi indipendenti, che allora era una scelta di vita: un’autonomia artistica e politica che veniva rivendicata con forza, perché nessuno di noi avrebbe voluto finire sotto una major. Oggi invece sono indipendenti quelli che non hanno la possibilità di finire sotto una grande casa discografica. Così sono ‘indie’, hanno un pubblico underground, snob, che sorseggia cose».


STOP AL PANICO
. «Saranno state le diecimila copie vendute del singolo Stop al panico degli Isola Posse, ma di colpo l’interesse della major su realtà come la nostra Vox Pop ebbe una crescita enorme. Visto che i gruppi non sarebbero mai passati da una parte all’altra, lo chiesero alle etichette indipendenti, che cedettero. La Emi voleva noi e i Mau Mau, perché eravamo la risposta italiana alla Mano Negra e ai Negresses Vertes. Alla fine la Vox Pop licenziò i diritti alla Rti di Berlusconi. Fu per noi un duro colpo, perché erano gli anni in cui Silvio aveva iniziato a mettere il naso in politica». Questo per molti gruppi del tempo scatena forti contrasti con i centri sociali di appartenenza. «Per me fu un discorso ipocrita, anche molti che facevano hip hop finirono con la Universal, altri con la Emi. Noi però abbiamo sempre lasciato un segno molto forte, molto solare, disponibile, quasi folkloristico, suonando gratis per i compagni in galera o per il bimbo malato. Questo forse ha fatto sì che nei nostri riguardi la cosa di passare a una major fosse vissuta con molta comprensione». Intanto su Video Music va in rotazione il video di Croci e cuori degli Strike, nonostante un atto di censura. Vernice sul seno e via.

1992-94, UNA GRANDE ANIMA (A PEZZI). 1992: arriva il momento del disco maturo, con Antonio ci sono Daniele ‘Pedro’ Vecchi e Marco ‘Smilzo’ Silverio. «La grande anima doveva essere ed è il disco della vita, ma non eravamo pronti per una produzione di quei livelli. Provammo a incidere il disco come se fosse stato un live, perché il fonico Luciano Lucchini voleva tirare fuori lo spirito che avevamo sul palco, ma non andò bene. Intanto la Rti iniziò a bussare alla porta, la Vox Pop pure. Andammo a Milano da Claudio Dentes, produttore anche degli Elio e le storie tese e dei Pitura Freska. Eravamo tutti i giorni chiusi in studio, fumavamo molto, le cose non funzionavano. Non è un disco di cui sono felice, anche se molti artisti validi vi collaborarono, tra cui Manuel Agnelli, che lavorava per la Vox Pop e fece parte ai cori». La band si frattura. «Da un lato c’era chi voleva rispettare gli accordi presi, dall’altro una parte forse più saggia del gruppo voleva mollare tutto. La verità è che non eravamo maturi per affrontare quella gente e quel mondo». Esce il video di Cuore bastardo, parte il tour del ’93 con una valanga di date appassionanti, tra cui l’Arezzo Wave. Nonostante tutto questo, il frontman del gruppo va in crisi. «Il gruppo già da due anni litigava molto, ma tutte le bellissime date fatte non ci davano tempo e respiro per discutere come si doveva. Nel ’94 era già pronto un demo tape, che non so più dov’è, che era un’altra svolta totale, con musicalità più legate all’acid jazz, al rock steady, il rock californiano. Durante un concerto a Bologna vado in tilt. Non ricordavo i testi, chiedevo alla gente tra il pubblico perché era lì. Vedevo in loro delle facce atterrite. Mi operarono alle corde vocali e finì anche il mio primo amore, durato otto anni. Ero scollato, entrai in crisi».

QUE PASA, CABRON? «Ho mollato tutto e sono andato in Olanda, poi a Malaga con dj Afghan (che allora non era ancora dj Afghan…). Facemmo autostop e ci tirarono su due tipacci, per andare in Andorra. In realtà durante il viaggio, durato tre giorni, scoprimmo che i due avevano rubato l’auto, e stavano andando ad Almeria dai gitani, per vendere la macchina in cambio di coca. Si fermarono da un amico a Valencia, conosciuto in carcere, che ci offrì a modo suo ospitalità. Alla fine del viaggio la paura si era trasformata in amicizia. Ma sbagliavamo, ci lasciarono di colpo a piedi e ripartirono da soli. Soli insieme a tutte le nostre cose lasciate sull’auto». Il viaggio prosegue. «Venimmo arrestati dalla polizia, poi uscimmo e si mise a piovere. In Andalusia non pioveva da sessant’anni. I due ci avevano rubato anche l’agenda con tutti i numeri dei nostri contatti a Malaga, così pensammo che l’unica cosa sensata, senza soldi e senza uscita, era quella di far scattare una rissa, essere arrestati e avere il foglio di via. Il problema è che gli spagnoli ci spiazzarono subito. Quando stavamo per fare a botte con loro, ci dissero: Que pasa, cabron? Vollero sapere la nostra storia e ci offrirono da bere. Poi raccontarono delle balle alla polizia, che ci diede gentilmente il foglio di via per Malaga, gratis e senza scazzottate». Antonio rimane a Malaga per un po’, poi decide di tornare. «Certi mi aspettarono, altri si misero a lavorare a cose loro o a portare avanti la loro vita. Nel 1995 lavorammo a dei brani e nel 1997 chi organizzò Ferrara sotto le stelle ci volle sul palco. Fu una reunion con oltre cinquemila persone, arrivate da tutta Italia. Nel 1999 altri concerti, ma poi litigammo di nuovo. C’era chi voleva lavorare in modo più professionale, chi aveva un altro lavoro, chi aveva fatto dei figli. Il gruppo si spaccò di nuovo, fino al 2004 con Baraonda Live, un disco per me molto bello». Nel 2007 esce il 45 giri per il ventennale dall’uscita del primo disco, nel 2009 esce la ristampa di Scacco al Re. Nel 2012 gli Strike organizzano la raccolta fondi per il terremoto. Poi la chiamata per aprire Manu Chao all’Arena Joe Strummer di Bologna. Alcuni membri del gruppo decidono di non aderire.

TRENT’ANNI DI STRIKE, TRENT’ANNI DI FERRARA. «Io rimpiango la mia città impolverata, scrostata, come dicono i napoletani ‘sgarruppata’. Una Ferrara vissuta principalmente dai ferraresi, non dai turisti. Il bello di Ferrara è che non era nemmeno segnalata: a Bologna c’erano i cartelli per Padova e a Padova i cartelli per Bologna. Passando per Ferrara vedevi solo il polo chimico, luminoso dietro a un cartello in cui si evidenziava che la essa è patrimonio dell’umanità (messo proprio lì, sotto il petrolchimico, viene da chiederti quale patrimonio offre la città per l’umanità…). Ferrara era una comunità per matti, una città fortemente popolare, che io rimpiango. Gat mil franc, Gianni il cowboy, Pendenza (‘Ca’ tiena’n’cancar Andreotti’), con la legge Basaglia erano tutti fuori, ma la gente li accoglieva, in qualche modo li supportava. Una città di ladri e di puttane. Era ‘una città sottotiro’, divisa in strade e zone. Alla Mutua si trovavano i Mods, ai giardini della Standa i punk, all’Acquedotto gli altri punk, a Villa Fulvia gli hippie fricchettoni, i fighetti della Cadorina, quelli che frequentavano la sala giochi di piazza Savonarola. Seguivano le zone di spaccio. E poi i locali. E poi lo stadio, perché Strike e Paolo Mazza erano il punto di raccolta di tutte queste compagnie sparse. Era una città anche piuttosto violenta, credo più di ora. Ci si spostava a La mela di via Eridano, allo Spleen a Copparo, alla Piola, al Pink Panter ora Pelledoca. E poi Rimini, Bologna, Reggio Emilia. Si viaggiava un sacco». Antonio, come suggeriva Gaber, si è ritirato in campagna dal 1996. «Non frequento più molto Ferrara, ma la vedo più restaurata, più attrezzata, ma al contempo sempre meno ferrarese». Molte persone che seguivano gli Strike, non ci sono più. «Penso spesso che oltre al milite ignoto, bisognerebbe istituire un memoriale ai caduti degli anni ’70 e ’80 per eroina e altre droghe. Fu una guerra anche quella, con tanti morti, tantissimi». Anche Ferrara ha i suoi. «Ricordo le centinaia di siringhe impalate sugli alberi di piazzetta della Luna, alla mattina. I dipendenti dell’Amiu le staccavano con le pinze, le mura erano completamente abbandonate, camminavi sulle fialette dell’acqua distillata che facevano crack crack a ogni passo. Nonostante questo, credo fosse più aperta, era un luogo dove poteva trovare spazio il poeta, il viaggiatore. Ora ci vedo solo molte lacune, senza poeti. Il Palaspecchi, il Multisala e le costruzioni adiacenti, Cona, la questione dei migranti quando siamo noi stessi migranti, e siamo pure pendolari perenni». È la città delle contraddizioni. «Ferrara fino agli anni ’30 del secolo scorso era raffinatissima, perché non è mai stata città di industriali, ma di liberi professionisti, con ricchezze enormi. In un silenzio, la cui altra faccia è l’omertà, si coltivano menti argute, che trovano successo fuori dalle sue mura, nelle aziende che cercano ferraresi per metterli in posti dirigenziali». Ferrara non ha mezze misure. «È anche quella di Francesco Stegani, o quella di chi commette un omicidio e poi offre da bere agli amici al bar, è la città di Federico Aldrovandi, dove non solo lui, ma tutti i suoi amici si sono trovati a 18 anni dentro a un romanzo kafkiano». In tutto questo, il ruolo del musicista è lavorare tra svago e messaggi. «Spero che questa città possa ritrovare la sua natura, passare alla cronaca per un pensiero diverso, senza la paura di togliere qualcosa alla propria identità. Diceva Picasso: io sono un’entità politica. E credo che anche gli Strike, in fondo, lo siano stati».

Stasera, sabato 17 settembre 2016, gli Strike festeggeranno i loro primi trent’anni, dalle 18 al campo sportivo di Vigarano Mainarda (via Ariosto 30), in un immenso live dove oltre a noi si alterneranno i Carte 48, Banda Loska, la Coska, intervallati da Fioro dj, K Soul Squad e Good Fellas. A omaggiare il gruppo ci sarà anche la Curva Ovest, con diverse iniziative, e il raduno di Vespe e Lambrette.

3 Commenti

  1. Giuliano scrive:

    Ciao Anja mi piace questo omaggio a un gruppo nostrano lanciato nel mondo musicale nuovo degli anni ’90 mi dispiace che in tanto spazio recensito non abbia trovato modo di parlare della danza tra gli spettatori che si urtavano e dei fiati ( strumenti fondamentali alla band che distingueva il ritmo praticamente caraibico ) CIAO Giuliano

    • Anja Rossi scrive:

      Ciao Giuliano, spiace anche a me! Purtroppo le cose legate agli Strike sono tantissime, molteplici, variegate negli anni, nei tempi, negli spazi. La scelta è stata fondamentalmente una: il caso nel flusso di coscienza storico-narrativa con Antonio Dondi. Quello che non c’è dentro a questo articolo, un domani finirà sicuramente nel prossimo omaggio a questo gruppo. Oppure si può fare come ha fatto lei, aggiungendo il proprio ricordo che si ricollega agli Strike. La via che personalmente preferisco, in un racconto senza potenziale fine. Grazie, Anja

  2. virgilio mecca scrive:

    brava Anja scritto e mi piace anche il metodo un po’ anarchico del flusso di coscienza storico-narrativo.

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