“Nel sogno le cose non sono mai limpide e materiali come quella desolata pianura su cui avanzano schiere di uomini sconosciuti”
Dino Buzzati, Il deserto dei Tartari

Questa, sia chiaro fin da subito, è e rimane una storia di musica e d’amore, di sonno e di sudore. Una storia, però, che è anche intimamente mia, perché io sotto al tendone del Ferrara Sound City ci lavoro. Un bancone che a volte ricorda la Fortezza Bastiani, dietro cui aspettare l’avanzamento di un numero imprecisato di persone, che non si sa quando e come arriveranno. Un baluardo che ci separa dal mondo che nel frattempo accade, continuando inevitabilmente il suo corso, mentre noi prepariamo birre e cibo. Una realtà che a volte arriva condensata in un messaggio di poche parole, “c’è appena stato un golpe a Istanbul”. A volte da oltre la cinta muraria fatta di fusti di birra si avvicina la notizia di un tir che ha falciato persone in strada a Nizza. Gli occhi si aprono sbigottiti, mentre continui a lavorare. Quella di questo festival è una storia che va raccontata perché piena di personaggi, storie, mondi che durano poco più di due settimane e poi per un anno intero non esistono più. E quando dopo ore di lavoro si ripensa a questo turbinio fatto di caldo, stanchezza, voci, zanzare e verdure da tagliare, quando si ripensa a tutto questo e sono le quattro di mattina, la piega degli eventi assume sempre l’aspetto di una realtà aumentata. Si attraversa così la città in bici, muti. Per strada ci sono solo gatti e alcune persone insonni, e invece di catturare Pokémon si trattengono e si elaborano storie, idee, vite di persone, lavori, desideri. Vita, ancora molta, tanta forse troppa vita.

Stessa spiaggia, stesso mare (?).  Sorto dalle ceneri (se ci siano anche delle braci sotto, non ci è dato sapere) di otto edizioni del Reload, il festival musicale Ferrara Sound City nasce dalla voglia e dall’impegno di Giovanna Vendramin, detta Gio detta Go, e di Roberto Catani, detto Fusco detto bassista dei Samsara. Due persone, una grande, grandissima eredità. Quello che è stato il Reload music festival, infatti, è difficile dirsi a parole e forse non è nemmeno giusto che venga detto qui. Basterà sapere che si tratta di un festival che negli anni ha saputo riempire, grazie all’impegno e alla voglia di svariate persone, quello spazio sopra le mura in via Alfonso I d’Este, un tratto di torrione che se si vede in altri mesi dell’anno sembra un posto dimenticato dall’uomo. Un festival che ha portato musica dal vivo in città, ha dato un posto fresco ai ferraresi contro l’afa di luglio ed è diventato negli anni una seconda casa per molti.

There is a light that never goes out. Un festival che a tanti dispiaceva perdere. Così a marzo di quest’anno, dopo che si era sparsa la notizia che il Reload non ci sarebbe stato, Fusco e Giovanna hanno deciso di prendere in mano la situazione, organizzando in pochi mesi quello che di solito si organizza in un anno. E allora via di chiamate ai gruppi di tutta Italia per la programmazione musicale, via a capire come installare un tendone, per proiettare per la prima volta il Silent Cinema, da seguire tra i tavoli con cuffie wi-fi mentre per tutti gli altri scorrono le canzoni del dj set. Il macellaio, la fornitura di birra e poi via di consigli dai precedenti organizzatori, di incontri con parte dello staff degli anni scorsi per sapere chi era disponibile a dare una mano anche per questa nuova avventura. Facce vecchie e nuove si sono incontrate così il 14 luglio, sotto il tendone che fu del Reload e ora è del Ferrara Sound City. Un tendone che fino al 31 luglio farà birre e cibo, offrendo uno spazio e un mondo aperto alla condivisione tra persone.

Chiamali se vuoi clienti. Ettore, Eros, Ares, Amos. Seddy, Patrick, Zavagli e poi una sfilza indefinita di Matteo, Mattia, Alice, Alessandra. Thomas Cheval. Ma anche di Riccardo, Laura, Ada, Elisa, Elena, Giulia. La presenza di Torre, il saluto di Jimmy, le battute dall’accento argentino di Nestor, quell’altre di Dispe. I dolcetti di Giampi, lo sgabello di e con Mav, l’arrivo ogni sera di Zagni. Immancabile è perfino Giulio, bimbo cinese amante degli hot dog e delle patatine. Siete tantissimi, ognuno con un nome che prima o poi si palesa in un volto, ognuno con un desiderio di cibo sì, ma a volte anche di una parola, di un’attenzione, di una risata insieme, un momento. Dallo scontroso al premuroso, dal sorridente all’infastidito, posso sbagliare i vostri nomi, ma le vostre espressioni le conservo tutte nella memoria. Anche per molti di loro, i nostri clienti intendo, questo festival è un luogo di ritorno, anno dopo anno, un pezzo di casa. Un festival che assomiglia al proprio bar di fiducia, dove fare due chiacchiere prima di andare a letto o dove portare l’amico che ritorna in città dopo tanto.

Questa è una canzone d’amore. Ci sono diversi luoghi, io credo, che ci fanno sentire a casa e non si capisce neanche tanto perché. Non ricordo bene come partì la faccenda, ma so che devo questa esperienza a Giulia Jannace, tra i fondatori del Reload che ora vive in Australia. Anche quest’anno, io sono stata ingaggiata per “fare l’Anja”. Un lavoro che mi si è cucito addosso negli anni e, da quel che ho capito, consiste nel fare qualcosa che dà certezza di buona riuscita agli altri. Ho scoperto che questa cosa si fa in molti modi, perché il mondo come il lavoro è fatto di particolari. Chiamare un nome al microfono, mettere la senape se c’è scritto nella comanda, vedere se c’è il tovagliolo di carta sopra l’hamburger, spinare una birra, friggere al posto di un collega o controllare se tutto l’ordine di cibo che deve uscire è a posto. Visto da dentro, dall’altra parte del bancone, il festival è un viaggio nel rischio, prima di tutto una lotta coi propri limiti. Perché anche questo è il Sound City: è afa, è odore di fritto, è la velocità, il male alle gambe. È la stanchezza tua che si accumula alla stanchezza degli altri, è insegnamento constante. Un posto dove si impara dagli altri a essere migliore del te stesso di ieri. È un lavoro che non è il tuo vero lavoro, dove c’è concorrenza, bisogno di affermarsi, di esistere costantemente, ma è un luogo dove si impara a collaborare per riuscire nelle cose. Dove il panino te lo fa un dirigente insieme a un’ex postino, dove la birra viene spinata da archeologi, veterinari, insegnanti di yoga, commessi. Sia di qua che di là dal bancone, è un posto abitato in larga parte da freak, ma che stranamente funziona. Un sottobosco cittadino illuminato da qualche lucina a festa in cui ritrovare filosofi, musicisti, beoni, ma anche famiglie, bambini, architetti, avvocati.

It’s only rock’n’roll (but). Pedalando verso casa, questo è il momento del festival che preferisco. Quando tutto finisce e tutto quello che hai visto e sentito durante la serata di lavoro elabora nella tua testa, tra l’ultima birra bevuta e gli occhi carichi di stanchezza, la testa pesante dal sonno. Come ogni anno mancheranno le albe viste in via XX settembre, le risate e le classifiche, le madonne, i ritorni lenti e le andate veloci in bici, il microfono, la muta delle cicale, la diplomazia, il fritto. Mancheranno pure gli orari sballati, in fondo, e il caldo condiviso. Le birre e i discorsi e tutto quello che questi venti giorni ogni anno comportano. E la musica, cristo, la musica. Ore di concerti, condensati in qualche pugno di giorni. Diversi e infiniti dj set, con canzoni che partono e ti sconvolgono come la prima volta, come ci succede con Quelli che benpensano, “che la prima volta che la sentii avevo dieci anni. Una canzone uscita nel 1997, ma ogni volta che la senti ti sembra stata scritta ieri”. Canzoni che scopri proprio al festival, canzoni che diventano collegamento per storie nuove da raccontarci a fine serata. Ogni anno ci ripromettiamo che è l’ultimo, che poi non lo faremo più. E ogni anno ci ritroviamo sotto quel tendone, forse anche solo per ricordarci che un altro mondo freak, ogni tanto, è possibile.

Lascia un commento

Prima di lasciare il tuo commento, ricordati di respirare. Non saranno ospitati negli spazi di discussione termini che non seguano le norme di rispetto e buona educazione. Post con contenuti violenti, scurrili o aggressivi non verranno pubblicati: in fondo, basta un pizzico di buon senso. Grazie.