Perché le balene sono così di moda? Se sabato scorso è stata addirittura dedicata loro una sala del Museo di storia naturale di Ferrara questa domanda veramente non si può più ignorare. Ed eccomi qui: pronta a buttarmi nell’analisi pressappochista ma doverosa.

Innanzitutto la genesi: è impossibile individuare il momento esatto in cui i cetacei hanno iniziato a riscuotere l’interesse delle masse. La tendenza è cresciuta lentamente, probabilmente per questo in tanti non se ne sono nemmeno accorti. Voi, ad esempio, lo avevate notato?

Qualche mese fa parlavo di questo stesso argomento con una mia amica, dandolo per scontato, ma mi sono resa accorta che tanto scontato non era. Da quando ne abbiamo discusso lei ha iniziato a vedere balene ovunque. Non le cercava apposta ma le si paravano davanti in mille forme e formati: nelle camicette reclamizzate online, nelle affissioni pubblicitarie in giro per Bologna, nelle locandine degli eventi, nei poster appesi alle pareti dei bar, stampate sulle magliette e dipinte a mano su eleganti piatti di ceramica.

A Ferrara in aprile una grossa balenottera ha fatto capolino nel disegno realizzato dalla brava Manuela Santini per promuovere il suo corso di illustrazione. Sabato 11 giugno l’atto finale: “Pesci? No grazie, siamo mammiferi”. Con l’inaugurazione dell’esposizione tematica – che resterà allestita per un anno – è stata sancita l’universalità del trend. Che se è abbastanza forte da scavalcare le mura e insediarsi in uno dei centri culturali del capoluogo estense è abbastanza forte per essere già arrivato ovunque. Vogliamo ragionarci su?

Comincerei da questa frase, ascoltata durante l’inaugurazione, per sottolineare come il mito della balena non sia esattamente nato ieri: “una generazione segnata da Goliath”. A pronunciarla è stato l’insegnante e attore Marcello Brondi. Tra scatole craniche trasudanti grasso – fateci caso se andate a visitare la mostra! – e reperti risalenti ai periodi interglaciali del Pleistocene, rinvenuti niente meno che in via Argine Ducale, Marcello ha recuperato un episodio della sua adolescenza: frequentava le scuole medie quando sul listone di piazza Trento e Trieste comparve Goliath, il cadavere di un’imponente balena norvegese, trasportato con un tir in lungo e in largo per la penisola ed esposto a pagamento nelle principali città italiane.

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La storia di Goliath è controversa, probabilmente se avete ascolto la canzone che le ha dedicato Vinicio Capossela qualcosa vi è già arrivato all’orecchio. L’animale è stato ucciso nel 1954 al largo di Trondheim, svuotato e riempito di formalina. Acquistato dal torinese Giuseppe Erba, è stato esposto fino agli Sessanta in Italia e all’estero. Durante un viaggio in nave, nel 1969, fu vittima di un incidente: per questo il suo nuovo proprietario, il gestore di luna park Gustavo Cottino, decise di costruirne una copia in cartapesta, appiccicarci sopra i resti dell’originale (gli enormi fanoni e poco altro) e continuare l’attività come se nulla fosse.

Secondo Marcello erano i primi anni Settanta quando Goliath arrivò a Ferrara: «ci andai da solo a vederla ed era nera, scurissima, truce, con le bolle di carne in putrefazione». Il suo commento, espresso ad alta voce di fronte allo scheletro di un delfino, ha suscitato la curiosità degli altri visitatori, suoi coetanei più o meno: tutti rammentavano la balena con stupore, resuscitando il ricordo quasi stupendosi di poterlo condividere, come se si potesse condividere un sogno.

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Cos’è successo da allora ai giorni nostri? Cosa ha permesso alla fantasia felliniana del “mostro marino” di tornare così prepotente da rimbalzare tra grafica, didattica museale e prodotti di consumo? Qualche suggerimento lo potrebbero dare Hermanne Melville e Jack London: non loro in persona ovviamente, ma il revival dei loro lavori. Da “Moby Dick” – riscritto in forma di emoticon da Fred Benenson, ma è solo un esempio tra i tanti – a “Zanna bianca”, consigliato dallo scrittore Guido Sgardoli tra i classici dell’estate 2016.

Lo scorso inverno nell’arco di quindici giorni ho assistito a teatro allo spettacolo “Ballata per uomini e cani” di Marco Paolini, ispirato ai racconti di London, ho visto al cinema “The Hateful Eight” di Quentin Tarantino e “The Revenant” di Alejandro González Iñárritu. Tre lavori formalmente distanti eppure vicinissimi: catturano lo spettatore appoggiandosi allo stesso identico immaginario. La natura selvaggia, inesplorata e inospitale, la terra sconosciuta e sublime, perturbante, dove tutto può accadere. L’uomo solo di fronte a sé stesso, in un mondo dove gli alberi che cadono non vengono ascoltati da nessuno e dove le regole di convivenza fanno la fine degli alberi. Paolini racconta i cercatori d’oro nel Klondike, Tarantino i fuorilegge del Far West, Iñárritu gli indiani americani e i mercanti di pellame che per primi aprirono la strada verso il Grande Nord. Assieme alla neve, i lupi. Anche loro vanno abbastanza di moda, fateci caso. Ed eccomi al punto, a quello che potrebbe essere il punto, e ricordate che avevo promesso un’analisi pressappochista.

Potremmo essere banalmente e collettivamente attratti da ciò che ci manca: ciò che non si può guardare. In un’epoca storica in cui tutto si può conoscere digitando su Google, dove mappe satellitari e Gps ci permettono con il minimo sforzo di vedere cosa si trova a quattro chilometri da casa come a 400mila, desideriamo metterci nei panni di chi scruta davanti a sé un pianeta vergine, di chi misura sé stesso con la realtà, senza sapere cosa sia la realtà. Questa era la condizione dei pionieri, la condizione a cui ci possiamo avvicinare perdendoci nei campi lunghissimi di un film o tra le parole di una narrazione talmente potente da farci credere che sì, l’unica cosa importante al mondo è accendere un fuoco. Ma quando usciamo dal cinema, quando a teatro si accendono le luci, cosa ci resta?

Restano le balene.

I cinque continenti sono stati setacciati, edificati, pianificati, controllati. L’abisso fa ancora paura, e non si può schedare (non lo puoi recintare, cantava Lucio Dalla). E non importa quante tavole e enciclopedie siano state compilate, la fauna ittica sarà anche stata censita, esaminata e riccamente descritta, ma le balene? Mica tanto.

Foto di Marco Caselli Myotis

Spiegava Valerio Manfrini del Centro Studi Cetacei Onlus, curatore dell’esposizione al Museo di storia naturale: «sopra la mandibola del capodoglio è situato l’organo dello spermaceti. Si chiama così perché contiene un liquido biancastro che i marinai dell’Ottocento credevano fosse sperma. Non lo è. È una sostanza che serve agli animali quando scendono a grande profondità. Cambiando densità regola la pressione interna del corpo, che altrimenti imploderebbe. Probabilmente influenza anche l’orientamento. Si tratta di un meccanismo fisiologico che non conosciamo nel dettaglio». L’essere umano osserva sulla superficie di Marte i resti degli tsunami che colpirono il pianeta tre miliardi di anni fa, ma non sa esattamente come funziona la testa di un capodoglio.

E se il problema riguardasse esclusivamente l’informazione scientifica il resto del mondo, quello che non appartiene alla nicchia dei cetologi per intendersi, se ne farebbe anche una ragione. Quello di cui non ci si capacita, quello che attira e atterrisce è l’impossibilità dell’esperienza. L’essere umano, escluse rare eccezioni, non avrà mai durante la propria vita l’occasione o la possibilità di vedere una balena, nemmeno da lontano, nemmeno col binocolo.

Così si spiega la generazione segnata da Goliath, così si spiegano forse le belle ceramiche, le illustrazioni, le camicette stampate. La mostra didattica “Pesci? No grazie, siamo mammiferi”, che almeno qualche fanone ce lo mette sotto al naso, ce lo fa vedere proprio da vicino.

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