La mattina del 29 maggio quando le persone erano già all’opera per risarcire le ferite profonde create dal terremoto del 20, ecco che un’altra scossa non lascia tregua alla ricostruzione. E si ricomincia a fare la conta dei danni, dei morti, delle perdite, delle fratture. Vari esempi oggi presenti sul territorio emiliano ci dimostrano tuttavia come un evento drammatico possa diventare un punto di partenza per una nuova riflessione sul rapporto tra comunità e patrimonio e motore per l’avvio di nuove forme di iniziativa.

A tal proposito abbiamo incontrato studiosi con diverse specializzazioni quali urbanistica, archeologia, antropologia, storia dell’arte e storia della fotografia, che hanno viaggiato negli ultimi mesi nei paesi del cratere per fare il punto sulla situazione, vedere come procedeva la ricostruzione e studiare gli effetti del sisma sia sul patrimonio materiale che immateriale, raccogliendo un punto di vista esterno, alloctono, come quella catastrofe abbia modificato, insegnato, migliorato, cambiato le persone e il tessuto urbano.

Il progetto in cui sono coinvolti fa capo al Kunsthistorisches Institut di Firenze, centro di ricerca per la storia dell’arte della Società Max-Planck. Dal 2013 questo istituto ha avviato il progetto Art History and the Post-Catastrophic City, diretto da Carmen Belmonte, Elisabetta Scirocco e Gerhard Wolf, focalizzando l’attenzione sulla città dell’Aquila, colpita dal terremoto del 6 aprile 2009, e sul sito archeologico di Pompei. Da questo progetto è nata una summer school dedicata alla città abruzzese, intitolata L’Aquila – The Future of the Historical Center: A Challenge for Art History, che ha coinvolto un gruppo di studiosi di diverse discipline nello studio in situ della città con l’obiettivo di analizzare gli effetti che le calamità naturali hanno sul patrimonio materiale e immateriale, sull’importanza del patrimonio culturale storico-artistico e monumentale per restituire alla cittadinanza la propria memoria storica. Al termine della summer school è stato realizzato un workshop nel quale ogni studioso ha sviluppato, secondo la propria disciplina di specializzazione e in collaborazione con gli altri componenti del gruppo, una linea di indagine i cui risultati sono stati presentati al convegno Dopo la catastrofe. La storia dell’arte e il futuro della città, tenutosi a Firenze nel marzo 2015.

Applicando la metodologia di lavoro sperimentata nel progetto su L’Aquila, ha preso poi vita il progetto Topologie del Terremoto che riguarda tutto il territorio nazionale ed è stato avviato in primis uno studio sull’area dell’Emilia, colpita dal terremoto del 2012. L’Emilia dunque diventa un laboratorio di indagine di aspetti che riguardano l’urbanistica, la conservazione, il restauro, il rapporto identitario con la comunità. Il progetto è ad una fase iniziale di lavoro, sono stati raccolti i dati e ora comincia la fase di elaborazione.

Pietro Gilento, archeologo originario de L’Aquila mi racconta come lui e l’equipe di studiosi hanno impostato la ricerca.

Innanzitutto, perché parlare di archeologia adesso? “Da una fase di raccolta di materiale edito, ho lavorato sul web cercando informazioni su progetti relativi al post sisma emiliano in cui fosse entrata in qualche modo l’archeologia e in particolare ho studiato i piani di ricostruzione, per capire le progettualità che interessano o interesseranno il territorio emiliano. Il metodo di lavoro individuale ha seguito quello generale del progetto, ossia i componenti del gruppo di lavoro hanno svolto un primo viaggio, della durata di una intera settimana, tutti assieme; in quell’occasione ho raccolto ulteriore materiale bibliografico ma soprattutto informazioni dirette grazie a incontri specifici con amministratori locali, professionisti o semplici cittadini che ci hanno raccontato le loro esperienze dopo il sisma. Nel secondo viaggio, più breve e realizzato da solo, ho focalizzato l’attenzione su alcuni siti (Pilastri, Finale Emilia e Mirandola) e su tematiche specifiche (archeologia urbana e ricostruzione)”.

Ci sono degli elementi, sia per quanto riguarda il territorio emiliano che quello aquilano, che costituiscono dei punti deboli e potrebbero essere oggetti di migliorie?

“In entrambi i casi ho notato delle forti divergenze tra ciò che viene scritto e detto, soprattutto studiando i piani di ricostruzione, in relazione a ciò che viene effettivamente realizzato. Concretamente sia a L’Aquila che in Emilia, nonostante siano passati rispettivamente sette e quattro anni dal sisma ancora non ho ben chiare le linee guida e le proposte concrete da parte delle rispettive amministrazioni per il futuro dei centri storici e del territorio”.

C’è qualcosa della tua esperienza in Emilia che ti ha particolarmente colpito nei confronti del rapporto della comunità con quella che è la tua disciplina di studio?

“Da una parte mi ha colpito la forte capacità di reazione e riappropriazione di alcune comunità nei confronti di un luogo riscoperto (la Terramara di Pilastri per l’Emilia, Porta Barete a L’Aquila), dall’altra mi ha turbato il distacco e il disinteresse di altre comunità tra il tessuto storico-stratificato e la contemporaneità, che si rispecchia naturalmente anche negli amministratori locali. Per questo è necessaria un’opera di forte sensibilizzazione da parte di enti, istituti e professionisti attraverso percorsi di partecipazione e coinvolgimento”.

Abbiamo parlato poi con Marta Guagnozzi, storica dell’arte originaria di Avezzano (L’Aquila) che si occupa di studiare le dinamiche che coinvolgono il patrimonio culturale mobile dopo la catastrofe, concentrandosi su opere provenienti da contesti religiosi.

Le sembra che nella ricostruzione ci sia un’attenzione alla storicità del luogo? Alla conservazione ed al recupero del patrimonio?

In alcune situazioni ho potuto riscontrare un grandissimo senso di responsabilità nei confronti del patrimonio storico culturale e anche un forte attaccamento alla propria storia come elemento di carattere identitario, ma in molti altri casi ho notato che avere a pochi metri da casa propria una chiesa sventrata e impacchettata dalle impalcature, è un elemento che non stimola tanto la sensibilità verso le opere mobili che vi erano contenute, quanto piuttosto verso un brutto fantasma che ricorda l’emergenza e la catastrofe. Una certa attenzione verso la conservazione e il ripristino del patrimonio mobile l’ho notata da parte dei parroci, delle persone afferenti alle istituzioni con cui ho avuto modo di parlare e anche da parte di alcuni giovani particolarmente operosi di alcune comunità, come quella di Pieve di Cento. Ho notato che la presenza di chiese nuove (siano esse temporanee o definitive) in cui sono state ricollocate a volte le opere recuperate dai parroci, hanno permesso non solo la rifunzionalizzazione del culto, ma anche una ripresa della normalità perché non si è interrotto del tutto il legame che costituisce il vincolo fra cittadini e spazio sacro.

Ci sono delle dinamiche di emergenza post-sisma nell’immediato ed a lungo termine che sono state esemplari e hanno contribuito a creare dei modelli di salvaguardia applicabili anche in altri casi?

Credo che dopo l’esperienza dell’Aquila, attraverso il miglioramento del monitoraggio dei beni e la creazione delle Unità di Crisi Regionali, il caso emiliano abbia contribuito a un miglioramento effettivo e al compimento di grandi passi in avanti per quanto concerne la salvaguardia del patrimonio storico artistico in seguito a un sisma; un esempio è stata sicuramente la scelta di un luogo che potesse fungere da deposito e cantiere di restauro di primo intervento, ossia il Centro di Raccolta allestito nel Palazzo Ducale di Sassuolo e tutta la procedura del recupero dei beni mobili, coordinata dalla funzionaria Dott. Arch. Silvia Gaiba.

Sono state organizzate molte mostre temporanee per rendere fruibili opere custodite in luoghi inagibili, come “L’arte per l’arte” realizzate a Ferrara, solo per citarne una.

Ritengo che esse abbiano avuto il merito di riuscire a far avvicinare le persone al patrimonio storico artistico, alla sua importanza internamente alla storia delle comunità del territorio (ma anche all’interno del panorama nazionale) e anche a tutte quelle che possono essere le problematiche che emergono quando un’opera viene coinvolta da un evento sismico. Inoltre credo che queste iniziative siano state molto importanti perché le opere non sono uscite dal loro territorio di provenienza, cosa che ad esempio invece si è verificata nel post sisma aquilano, dove ci sono state mostre itineranti anche fuori regione e alcune opere sono state portate addirittura oltreoceano.

 

C’è qualcosa che l’ha profondamente colpita della situazione che ha visto in Emilia?

Una cosa che mi ha molto colpita sono stati i campanili “mozzati” e un senso di commozione mi è stato provocato dalle grandi chiese danneggiate che giacciono inermi ed esposte al tempo nel mezzo dei centri storici. Ho notato comunque in generale, forza e determinazione nelle persone, un grande senso della comunità e di ripresa. Inoltre conoscere la realtà di Bondeno mi ha fatto capire che le giovani generazioni hanno un grandissimo potere per quanto riguarda l’eredità della ricostruzione. Grazie alla loro passione e alla consapevolezza di una responsabilità verso le proprie radici sono riusciti a creare in primis una consapevolezza negli abitanti del posto, e in secondo luogo la giusta valorizzazione del loro territorio colpito dal sisma, contribuendo dunque alla ripresa e alla ricostruzione in modo attivo.

Dopo Piero e Marta parlo con Antonio Di Cecco, fotografo aquilano. Antonio ha gentilmente messo a disposizione alcune immagini rappresentative del suo progetto, che non è ancora stato presentato ufficialmente.

Come e dove si è svolta la sua esperienza in Emilia durante il progetto?

Nel mese di aprile, dopo il viaggio iniziale con il gruppo di ricerca, ho trascorso 10 giorni nell’area del cratere emiliano. Finale Emilia è stato il mio punto di riferimento e l’origine da cui ho sviluppato una serie attraversamenti quotidiani in grado di effettuare una lettura del territorio con particolare interesse verso le trasformazioni spaziali a seguito del sisma, e una successiva analisi dei relativi stati di transizione in funzione del tempo. L’esplorazione dei luoghi fisici in cui sono visibili tali transizioni, in dialogo con il territorio più ampio del cratere, mi ha permesso di riflettere intorno alla gestione del territorio.

San Felice sul Panaro, aprile 2016

Come hai impostato il tuo progetto? E quali sono le tematiche che più ti hanno interessato?

La narrazione fotografica intende ragionare circa la riconoscibilità dei luoghi e la modalità di fruizione da parte dei cittadini. Il rapporto con i luoghi, inizialmente visivo, diventa relazionale attraverso il dialogo, fondamentale a comprendere l’atto dell’abitare nel tempo oltre nello spazio. Il titolo del lavoro “Abitare il tempo” parte da questo concetto e pone domande rispetto all’idea di futuro dei luoghi. Gli spazi contengono le relazioni tra le persone, cambiando gli spazi di conseguenza cambiano anche le relazioni, quel che mi interessa maggiormente è ragionare sulla qualità dei luoghi. L’interpretazione dello spazio diviene metafora di connessione e di relazione della comunità e determina, infine, una mappatura dei rapporti sociali. La serie di molte immagini racchiude l’intero processo di indagine e contempla il confronto tra i ricercatori durante il percorso di investigazione.

Finale Emilia, aprile 2016

Dopo Marta, Piero e Antonio intervisto Rita Ciccaglione, antropologa originaria di Avellino, la quale mi racconta quale è stato il focus della sua ricerca: “Con l’obiettivo generale di analizzare il ruolo che il patrimonio culturale potesse assumere nelle dinamiche sociali post-catastrofe, la ricerca sul campo è stata effettuata tra la metà di marzo e quella di maggio a Mirandola. Qui, attraverso l’immersione diretta della vita quotidiana è stato possibile relazionarsi con i maggiori soggetti che, in un modo o nell’altro, praticano abitano rappresentano o immaginano il centro storico cittadino: associazioni, abitanti, istituzioni, users in genere”.

Cosa è emerso dalle tue ricerche?

Il centro storico mirandolese è protagonista di una pianificazione che intreccia pratiche e rappresentazioni del paradigma patrimoniale a quelle della rigenerazione urbana. In questo modo, il patrimonio culturale (gli edifici storici, come gli spazi pubblici che racchiudono la lunga durata della relazione tra soggetti e luoghi) è valorizzato attraverso un’azione che tende a recuperarlo in quanto contenitore, rifunzionalizzandone l’uso. Questo tipo di rappresentazione dello spazio favorisce pratiche di esso che sviluppano relazioni tra i soggetti nei luoghi (in base all’uso funzionale dato), meno tra il soggetto e i luoghi. I processi che ne scaturiscono creano condizioni potenziali a una gentrification commerciale e abitativa di tali spazi che mercifica la relazione “simbolica” con essi. Tuttavia, non bisogna pensare che “alcuni luoghi” condensino inevitabilmente in essi una relazione tra loro biografia e quella dei soggetti che li abitano e vivono, in modo da produrre necessariamente un legame identitario. I monumenti e gli spazi di un centro storico possono essere caricati o meno di un significato simbolico a seconda delle politiche di valore a essi applicati e, dunque, dei discorsi e delle pratiche che queste legittimano o meno. In questo senso l’appartenenza, come rapporto tra identità e località, è solo una delle possibili attribuzioni di valore per il patrimonio culturale.

Ci sono degli elementi che non ti saresti immaginata di incontrare e inaspettatamente hai riscontrato?

Uno speciale e inaspettato spunto di riflessione rispetto agli interrogativi che debbano essere posti intorno all’idea di patrimonio culturale nell’attuale scenario globale e ai processi di costruzione dell’identità che simboli e/o oggetti veicolano mi è giunto dagli adolescenti di II° generazione, immigrati, extracomunitari o meridionali, che pur essendo cresciuti a Mirandola e avendo frequentato la loro terra di origine per brevi periodi, esprimono un maggiore senso di appartenenza e di identificazione in quest’ultima. I luoghi-simbolo di questi ragazzi si trovano nella città da cui provengono e non nei monumenti di quella che abitano.

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