in collaborazione con Andrea Pavanello

L’attesa per il concerto dei Chameleons a Zone K era diventata insostenibile. Così insostenibile da farci arrivare sorprendentemente puntuali alla punta per il passaggio. Arriviamo a Malborghetto armati di entusiasmo, fervore e bibite da passeggio. Becchiamo subito il mai abbastanza ringraziato Tom, boss di Zone K, e capiamo subito quale sarà l’aria della giornata. Le porte sono aperte e lo sentiamo da subito: eccolo il famoso muro di chitarre di cui ci hanno tanto parlato. Poi pausa ed ecco pure lui, Mark Burgess, l’Uomo dietro i Chameleons. Esce a fumarsi una paglia ed è assai poco darkettone.

Inglesissimo, scrocca un accendino e si accende (sorpresa!) una American Spirit azzurra “come il cielo di Santa Fe” (cit.). Ci aspettavamo che fumasse delle Dunhill o qualcosa di altrettanto albionico. Non sarà l’unica sorpresa del giorno perché, come scopriremo più avanti, Mr. Burgess è davvero un chamaleonte da sorprese. Seccata la paglia in tempi da vero fumatore pro, il nostro uomo torna a finire il check e in neanche mezz’oretta è già pronto a farsi tartassare dalle nostre domande.

L: Come ci si sente a essere di nuovo in tour? Qual è la sensazione?

Non volevo nemmeno farlo il tour (ride). La verità è che mi hanno rapito e mi sono risvegliato in Svizzera. Scherzi a parte, volevo smettere per un po’ ma loro (il resto della band ndr) non me l’hanno lasciato fare. Da un po’ vorrei concentrarmi sulla creazione e registrazione di nuove cose.

L: Per i Chameleons?

Sì e no. Ho anche altri progetti in ballo di cui però non posso parlare.

A: Volevo chiederti della faccenda della TV accesa durante le registrazioni di “Script of the bridge”. Perché questa scelta? Che microfono avete usato? 

Sì, la TV è rimasta sempre accesa e ogni tanto qualcuno cambiava canale. Era tutto in presa diretta quindi quando in sottofondo passava qualcosa di particolarmente adatto dovevamo poi ricordarci cosa passava in quel determinato momento. Non ricordo che microfono usammo, sicuramente uno da poco, era tutto in analogico.

E: Che rapporto hai con le nuove tecnologie legate alla registrazione? Col digitale. 

Ora è tutto in digitale, basta un computer per registrare tutto il materiale. In generale preferisco il mezzo tecnologico più per la scrittura ma non mi infastidisce nella registrazione, certo alla fine preferisco il suono analogico nonostante i prezzi siano inavvicinabili oramai.


Foto di Simonetta Caiozza

L: Forse è una domanda un po’ stupida ma la faccio lo stesso. Siamo tutti grandi fan del “suono” di Manchester, dai Fall ai Joy Division passando per Buzzcocks, Smiths e Magazine e mi sono sempre chiesta se ci fosse qualcosa in quella zona che favorisse il proliferare di un suono così glorioso in tutte le sue sfumature.

No, non credo. Non penso che dipenda dalla zona geografica. Credo che in ogni caso sia difficile da dire per chi, come me, stava effettivamente suonando in quel periodo. Nessuno si rendeva conto di essere parte di una “scena”; certo sapevamo dell’esistenza di altre band, si suonava insieme, si andava ai concerti, ma non eravamo connessi in modo così stretto. Non credo che il nostro suono sia effettivamente rappresentativo di Manchester, ma amo molto le cose che ne sono uscite: i Fall sono uno dei miei gruppi preferiti. Appena ci accorgevamo di assonanze con altre cose eliminavamo tutto: questo pezzo sa di Julian Cope? Via. E così per tutte le similitudini. Certo, molte delle influenze erano le stesse, ci scambiavamo un sacco di dischi.

L: che cosa ascoltavate, da che cosa eravate influenzati?

Da un sacco di roba americana. Velvet Underground, MC5, i New York Dolls. Ma anche gli Who e gli Stones che sono stati un’influenza enorme. Amavamo anche il glam rock, i T-REX, Alice Cooper, per i primi quattro dischi, quando ancora erano una band. “Kimono My House” e “Propaganda” degli Sparks sono due dei miei album preferiti di sempre. La psichedelia.

A: Io ho una teoria secondo cui gli anni 80 sono il decennio in cui viene meglio ripresa la questione psichedelica degli anni 60. 

Sono d’accordo. Quando quei suoni arrivarono a noi eravamo degli adolescenti. Nel ‘75 mi sono fatto il primo acido e la psichedelia andava di pari passo, solo che spesso molte cose finivano per suonare prog (ridacchia). Poi è arrivato il punk e con lui le chitarre veloci e lo speed. A nessuno è più importato della psichedelia per un bel po’ per poi tornarci fortemente.

L: Leggendo le pagine informative su di voi viene sempre citata la vostra paternità su quel sound che è poi risultato fondamentale per quello di band come Interpol, Editors, the Horrors. Lo vedi come un furto o come un tributo? Io sono arrivata dopo alla vostra musica mentre già conoscevo le band citate e riascoltando col senno di poi ci sono cose che sembrano proprio rifatte pari pari dai vostri dischi.

Devo dire che non sento molto questo parallelo. Non sento la somiglianza. Ma di nuovo, essendo così interno alla questione forse non sono in grado di giudicare con la giusta freddezza. In ogni caso non è una cosa che mi disturba, ormai niente si crea ex novo nel rock e per esempio Editors e Interpol sono tra i miei gruppi preferiti, quindi se anche fosse sarei contento di aver influenzato in qualche modo la loro musica.

A: Ho letto delle vostre diatribe con le major, ce ne vuoi parlare?

Beh, dopo l’uscita per John Peel, tutti volevano essere nostri amici e tutti avrebbero voluto averci sotto contratto. La CBS fece la sua offerta e io non ero affatto d’accordo nel firmare con loro ma il resto della band era così su di giri che mi feci convincere. Era uscito un disco di Adam & the Ants per la stessa etichetta e questo mi diede un po’ di speranza, totalmente mal riposta. La verità è che alle major non importa un cazzo del suono, della ricerca musicale di una band, a loro importa come appari e se sarai in grado di vendere secondo le loro aspettative. È sempre stato così e sempre così sarà.

L’epoca delle major è finita, così com’è finita l’epoca delle radio. L’esposizione arriva in altre forme oggigiorno: mentre una volta le major pagavano fior di soldi per un passaggio in radio, ora c’è YouTube, è pubblicità gratis. Nessuno ascolta più le radio, io no almeno. Io non guadagno dalle royalties, l’anno scorso ho preso qualcosa come un euro da Spotify: i miei maggiori guadagni derivano dai tour, io mi esibisco per vivere. Perché investire soldi che inevitabilmente verranno persi nella diffusione radio quando tramite condivisioni e ascolti YouTube posso muovere persone che probabilmente la prossima volta verranno al concerto. Una volta ci scambiavamo cassette per conoscere band nuove mentre ora basta condividere un link. E’ la stessa cosa.

Di base sono ancora un punk, quindi non mi interessa far uscire un disco per farci i soldi, preferisco avere totale libertà e farlo uscire per gli amici.

A: Quindi sei d’accordo con i Metallica sulla questione Napster.

Beh sì, anche per loro è facile, sono i METALLICA.

A: Beh parlavano comunque in difesa delle band minori…

Bene. Allora siamo perfettamente d’accordo.

* * *

Il concerto inizia puntualissimo e da subito in modalità all’attacco. Primo pezzo: “Don’t Fall”, il micidiale inizio di “Script Of The Bridge”. La voce a una certa scompare ma Mark riattacca davvero alla grande, proseguendo il pezzo con ancora più botta. La scaletta scorre alla “It’s Alive”, praticamente zero pause e soprattutto lui, quel muro. Una roba senza cedimenti che nemmeno quel celebre muro di alta sartre-o-ria riuscirebbe a eguagliare. Ma neanche un massone o quel mattone di Phil Spector con malta e cazzuola.

Sembra davvero il 1982 e i chorus, gli equalizzatori e gli space echo che avevamo visto in tutte e tre le pedaliere hanno ovviamente mantenuto la promessa: la famosa ripresa della psichedelia di cui parlavamo con Mark e una grande, grandissima onda di volume di cui avevamo davvero bisogno. Capiamo benissimo anche quanto il nostro uomo abbia davvero gli Stones dentro. Se Mark non ci avesse messo la pulce nell’orecchio non avremmo mai sgamato da soli tutte quelle tracce di “Sticky Fingers” nel DNA dei Chameleons.

A un certo punto le code dei pezzi si dilatano e cogliamo il nostro uomo davvero in castagna: lo sentiamo chiaramente citare “All you need is love”. Il suo stranamore per la storia del r’n’r lo porta poi a ulteriori sorprese quando lo sgamiamo, sempre durante una coda, alle prese con altre due citazioni da un milione di dollari: “Be my wife” da “Low” di Bowie e “Rebellious Jukebox” dei Fall.

Purtroppo noi pischelli o ex pischelli non abbiamo idea di come dev’essere stato andare in un fumoso club londinese negli anni ’80, come dev’essere stato sentire i gruppi al momento giusto, essere nel giro giusto al momento giusto, ma il livello di proprietà danzerecce all’interno dello zone K stasera un po’ ce l’ha fatto sentire. Passi oscillanti, movenze fluide, gambe rigide, il tutto condito da una buona dose di look total black, hanno amplificato al 100% le potenti chitarrone e la voce profonda di Burgess: eccola qua la new wave. E non la stanno facendo dei new gruppi. Eppure è proprio nuova.

Purtroppo gli ex pischelli a una certa se ne devono andare. Andrea ormai ne ha quasi 30 e – complesso della vecchiaia e strappo a casa a parte – una giornata così intensa iniziava a chiedere un prezzo. Ludovica però rimane, beata lei e il suo fuoco del r’n’r che non ha proprio bisogno di scroccare da accendere. Logicamente, dopo il pre-amp, ecco il finale.

Burgess esce a fumarsi una sigaretta. In maniche corte. In un impeto di indicibile nonnevolezza che viene tramandata nella mia famiglia da diverse generazioni gli dico: “Dovresti coprirti, ti verrà qualche malanno!”

Lui si gira e ridendo dice: “Non ti preoccupare, tanto sono sempre raffreddato. Ogni volta che torno in Inghilterra poi la cosa peggiora, sembra che la fottuta isola galleggi sui germi!”

“Forse per questo il punk si è diffuso così bene!” aggiungo io ridendo (ma con la segreta consapevolezza che è CHIARAMENTE così)

“Sì, tramite gli sputi dei punk durante i concerti (ride)! Hai presente Poly Styrene (cantante della storica band punk X-ray Spex ndr)? Avevo una cotta per lei quando ero giovane: una volta me la trovai più o meno alla distanza che c’è tra me e te ed ero pietrificato. Non riuscivo a fare niente. A un certo punto un altro punk si avvicina e mi spintona per andare da lei, le dice “dammi un bel bacio!” lei lo afferra e gli dà un lungo bacio. Il tipo se ne va e io sono sempre lì come un’idiota. Poly allora mi nota, si avvicina e mi sussurra all’orecchio “sei geloso?” e io: “sì!” lei si mette e ridere e mi dice: “Non temere, gli ho appena passato il batterio di un’influenza terribile!”

Il motivo per cui adoro e schifo allo stesso tempo l’incontro con questi personaggi sta in questi piccoli aneddoti. Pezzi di una generazione che non ha avuto niente ma ha davvero avuto tutto: il vento dell’innovazione, il coraggio di seguirlo, la forza di essere davvero contro qualcosa, che ha creato senza alcun mezzo reale per farlo.

Burgess mi racconta di quando aveva 15 anni e tentava di aggirare i buttafuori per andare ai concerti (cosa che gli riusciva perché era “one very big boy”). Già, i concerti. Quei concerti di quelle band che abbiamo citato nell’intervista, che per noi fanno parte di un disegno musicale gigantesco e irripetibile ma che agli occhi del giovane Mark erano solo pari che imbracciavano strumenti e si esibivano come lui.

“Ho visto mille volte i Fall. Erano grandiosi. Poi mi capitava di vedere concerti in cui in un colpo solo vedevi i Pistols, i Buzzcocks, i 999, i Joy Division quando ancora erano Warsaw. Tutto a una o due sterline. Neanche controllavo chi suonasse al club, c’è un concerto? Ok, andiamo. Non succedono più queste cose. Erano davvero tempi ferventi. Dopo quegli anni non riesco a ricordare quando ho sentito di nuovo che qualcosa di grande era nell’aria. Forse coi Nirvana. Ma loro erano molto lontani e quando sono arrivati qui erano già troppo GRANDI. Mi sarebbe piaciuto vederli agli inizi.”

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