Pare che fosse chiamato canvìn (da “canva”, canapa nel nostro dialetto) il pulviscolo che si liberava nell’aria, diffondendo il polline per chilometri attorno, nel momento in cui la cannabis sativa, coltivata da antica data nelle nostre campagne, cresceva tra effluvi non proprio aromatici. “Al canvìn l’andava su pr’al nas e als tacava al sudor”, raccontano le nostre nonne che questa cosa l’hanno vissuta e non la possono dimenticare.  La pianta veniva poi tagliata e lavorata, infatti, in un lavoro lungo e faticosissimo che durava tutta l’estate.  E’ ritratto anche nel particolare del mese di luglio degli affreschi di Schifanoia in cui si vedono le donne con le mani affondate nell’acqua di uno stagno.

Quando veniva messa a macerare pare che l’acqua si arricchisse di effetti terapeutici, anche se i miasmi erano davvero intensi ed irritanti per le vie respiratorie. Creando problemi di salute anche alle operaie delle fabbriche, nei due secoli scorsi, alle quali toccava il compito di  filarla. Però con le foglie tritate i contadini si facevano delle “turtione”, economiche e speciali sigarette.

Nel ferrarese, peraltro, si coltivava buona parte dell’intero quantitativo italiano di questa pianta.

Bottega del Guercino, Estrazione della canapa dal macero, 1615-17; affresco trasportato su tela, cm 72 x 108. Cento, Pinacoteca Civica.

Bottega del Guercino, Estrazione della canapa dal macero, 1615-17; affresco trasportato su tela, cm 72 x 108. Cento, Pinacoteca Civica.

Che la canapa sativa dagli infiniti utilissimi usi, purtroppo ai nostri tempi dimenticati, fosse non troppo diversa dalla canapa indica (l’indiana, molto più ricca di sostanze stupefacenti) si poteva notare anche dal comportamento dei polli, che dopo abbuffate di semi andavano barcollando qua e là per i campi.

E che il “canvìn” producesse curiosi effetti anche sulle persone è senz’altro possibile. Addirittura nelle nostre campagne si vantava il primato di figli illegittimi, concepiti grazie a quel vento inebriante.
Ne parla anche Michelangelo Antonioni, nel racconto ambientato a Ferrara di “Quel bowling sul Tevere”: “Dal fiore verde della canapa esalava un polline afrodisiaco che investiva la città stordendola”.

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Che fosse a causa di quello che, come raccontano Maria Bellonci e diversi storici, Alfonso I d’Este ventunenne uscì in pieno giorno tutto nudo dal Castello e andò in giro per il centro con lo spadone sguainato in mano? Chissà…

Affascinato da questa suggestione era anche Giorgio de Chirico, che scrisse in “Memorie della mia vita”:

cover“Quello che più mi colpì nei ferraresi fu una specie di pazzia, più o meno latente, che ad un osservatore acuto, come sono sempre stato io, non poteva sfuggire. Oltre a questa latente pazzia, una caratteristica dei ferraresi è la mania del pettegolezzo e dell’indiscrezione; appena conoscono una persona vogliono subito sapere da dove viene, dove va, quando è nata, quale è il suo stato civile, chi sono i suoi parenti, quale è la sua situazione finanziaria, sentimentale, sessuale, ecc.  Inoltre i ferraresi sono anche terribilmente libidinosi; ci sono giorni, specialmente nell’alta primavera, in cui la libidine che incombe su Ferrara diventa una forza tale, che se ne sente quasi il rumore, come di acqua scrosciante o di fuoco divampante. Il professor Tambroni, insigne frenologo, che allora dirigeva il manicomio di Ferrara e che io conobbi, mi spiegò che questo stato anormale dei ferraresi è dovuto alle esalazioni della canapa ed alla continua umidità; infatti tutta la città è costruita su antichi maceri.

Pare che le esalazioni della canapa abbiano una particolare influenza sull’organismo umano. Ne parla anche Baudelaire nel suo libro: Piccoli poemi in prosa; quando tratta degli effetti del hascisch dice anche della canapa: “Nel periodo in cui si fa il raccolto della canapa, avvengono a volte strani fenomeni tra i lavoratori, tanto tra gli uomini che tra le donne. Si direbbe che dal raccolto salga non so quale spirito vertiginoso che circola intorno alle gambe e s’innalza maliziosamente fino al cervello. La testa dei contadini è piena di turbini, talvolta poi è carica di mezzi sogni. Le membra si accasciano e si rifiutano di servire.”

Anche Alberto Savinio ha descritto Ferrara come la città “dai mille misteri naturali”, ai quali attribuiva effetti quasi ipnotici.

Si può fantasticare che l’origine di alcune piccole o grandi stranezze che si possono riconoscere guardandoci attorno nella nostra città sia da ricercare in questi effluvi lontani…

Certo è che con alcuni paradossi o curiose follie i ferraresi ci convivono felicemente. Anche nelle parole, talvolta: la pianta femmina della canapa veniva invece chiamata al canvàz (canapone), mentre ovviamente la pianta maschio finiva con l’essere la canvèla. Ma diverse sono le stravaganze inspiegabili, come il singolare scambiato col plurale nel nostro dialetto: un gelati, due gelato.. Ci convivono e non si accorgono, forse, nemmeno della loro esistenza.

Non posso dimenticare una frase che mi disse Franco Farina molti anni fa: “ Se sparisse il Castello, i ferraresi se ne accorgerebbero solo perché mancherebbe l’ombra”. Un modo quasi..metafisico per descrivere perfettamente l’indole dei suoi concittadini.

(fine prima parte)

4 Commenti

  1. gardenia scrive:

    incuriosisce e lascia con il fiato sospeso….a quando il seguito?

  2. cristina scrive:

    È l’inizio di un romanzo! Vai avanti. Attendiamo. Quel cenno alla claustrofobia?! Eh eh.!

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