“Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., perché senza che avesse fatto niente di male, una mattina fu arrestato”.
Il processo
, Franz Kafka

Kaf-kià-no, situazione kafkiana: neologismo della lingua italiana, indica una situazione paradossale (spesso pure angosciante), che viene accettata come status quo. Ciò implica l’impossibilità di qualunque reazione, sia pratica che psicologica. Il termine deriva dall’atmosfera che si respira nelle opere di Franz Kafka. Un termine equivalente è ‘perturbante’, nell’accezione freudiana: qualcosa che è al contempo estraneo e familiare, inquietante proprio per la sua ineliminabile, spiazzante ambiguità.

Andare, camminare, pascolare. Sono arrivate, e sono ottocento, “anche se il numero cambia in continuazione, perché ci sono sempre nuove nascite” precisa subito Massimo Freddi, pastore bresciano che da ieri si può incontrare nel sottomura di Ferrara, all’altezza del Cus e della Porta degli Angeli. Insieme a Moro e Fly, i due cani guida, un bastone, una ventina di caprette e le tanto attese pecorelle, è partito a settembre scorso dalle montagne della Val Trompia, scendendo verso il lago di Garda, poi il fiume Mincio, la sponda veneta del Po, il ponte tra Ficarolo e Stellata e infine è arrivato a Ferrara, la prima città dell’Emilia Romagna a ospitare delle pecore in cambio di sfalci dell’erba pubblica naturali e gratuiti. Andare, camminare, pascolare. Un continuo e lento spostamento, una pratica che ha sulle spalle una tradizione millenaria, risalente alla preistoria. È la transumanza, my dear.

La parola deriva dal verbo transumare (dal latino trans e humus), ovvero: attraversare, transitare sul suolo. Una più complessa etimologia spiega che la parola si riferisce all’accadico ‘taru’ (ovvero: andare attorno, girare, volgersi, andare e tornare) e ‘ummanu’ (popolo, nazione, gente, uomini) e il pronome indicativo accadico anaforico ‘ša’, aramaico ‘zi’ (quello). La transumanza è la migrazione stagionale dei pastori con le loro mandrie e greggi, che nel periodo estivo si spostano dai pascoli in collina o in montagna verso le pianure, seguendo le antiche linee naturali del territorio.

In passato, l’importanza economica della transumanza era così rilevante che nel Regno di Napoli erano ben due le istituzioni preposte per gestirla: la Regia dogana della mena delle pecore di Foggia e la Doganella d’Abruzzo. Con l’Unità d’Italia i contadini poterono riscattare i terreni dedicati ai pascoli e dedicarli alla coltivazione. Questo comportò la diminuzione dell’economia legata all’attività transumante, tanto che molti pastori furono costretti ad emigrare in altre parti del mondo. Oggi, con la moderna zootecnia e l’allevamento intensivo, la transumanza si è fortemente ridimensionata, e in molti luoghi d’Italia è del tutto scomparsa. Dove rimane attiva, si scontra con una burocrazia tecnicamente ineccepibile: controlli, vaglia, bolli, schede, perfezionamenti, prelievi, file, scontrini, casse, controlli, ulteriori controlli, nulla osta. Il pastore è costretto così a lasciare il suo gregge, entrare negli uffici, richiedere il numero, presentare le sue pecore, che vengono ispezionate, più volte. È la prassi, questo è l’iter procedurale.

“Vedo tanti miei colleghi pastori che un giorno si svegliano e cambiano mestiere” racconta il pastore bresciano Massimo Freddi, una volta finite le foto e le presentazioni istituzionali. “Le pecore le tengono poi per passione, ma ti pare di vederle lì, chiuse in una stalla? La transumanza è una tradizione millenaria, ma la burocrazia ci fa impazzire. Bisogna misurarsi continuamente con situazioni che vanno ben al di fuori dalla nostra attività”. Sposato, 46 anni, due figli, Freddi si ritrova per buona parte dell’anno ad andare in giro per il nord Italia, a camminare, pascolare le sue pecore, il cui numero ogni giorno è variabile “perché ne nascono in continuazione, il numero è sempre variabile”.

Foto di Giacomo Brini

“Solo in Emilia Romagna la transumanza è sparita – riprende Freddi – perché le istituzioni, le leggi, i decreti hanno ristretto così tanto la situazione che i pastori, nel loro percorso, la evitano. Credo sia giusto monitorare gli animali, le mie sono tutte in regola, vaccinate e dotate di chip, ma sembra non bastino mai le certificazioni, sembra sempre manchi qualcosa, si rendono vigenti vecchissime normative che in altre regioni sono state di gran lunga superate. Così facendo, si rende impossibile il nostro lavoro”. Nel frattempo, secondo il pastore, “negli Appennini i pascoli sono ridotti a un incolto senza pari, i bovini macchine da latte chiusi in stanzoni. Gli incolti non trattengono più l’acqua, il terreno non si pulisce. Come nel fiume Reno, che dentro ha delle piante che servono tre persone per abbracciarle da quanto sono grandi. Ma se i pastori provano a creare un circuito, ti mandano la polizia”.

Diventare pastore è un mestiere che si sceglie. “I miei genitori sono stati quelli della generazione che ha scelto di lasciare le stalle per andare in fabbrica – racconta Massimo Freddi -. I miei nonni che erano pastori transumanti, con le vacche però. Facevano gli incolti della montagna e in inverno andavano verso Cremona, perché là era più buono il fieno. Il girare è parte naturale di questo mestiere”. Anche la famiglia, ovviamente, è condizionata dai ritmi della natura. “Ho due figli, uno di 5 e uno di 18 anni. Con la vita che facciamo, si sacrificano. Quando hai degli animali, non esistono vacanze. Le bestie le devi seguire tutti i giorni”. La famiglia di Massimo si riunisce, come le altre di pastori transumanti, quando va in alpeggio d’estate, “tre mesi in cui ci si ritrova tutti”. Un lavoro che ti sceglie. “Mio nonno è morto a 95 anni, con ancora 4 vacche nella stalla. Era gente abituata alla vita di montagna, la mia sfortuna è che con lui non ci ho vissuto molto insieme. È morto che io avevo 18 anni, a quell’età avevo altro per la testa”. Massimo Freddi, infatti, diventa pastore dal 1990. “Prima ero un tecnico di laboratorio, facevo analisi per le industrie chimiche metallurgiche”. Rapide fughe, rapide fughe.

Foto di Giacomo Brini

Nel sottomura pascolano ora le pecore, uno spettacolo di belati – “sono le mamme che richiamano gli agnellini, ma anche le capre, che spesso fanno da madri adottive ai piccoli” – e di colori. Anche di odori, come ha già sottolineato più di qualcuno in piazza e sui social. “È difficile muoversi con gli animali – conclude in un sospiro che sa di tutte le terre che Massimo ha incontrato -. Cerchi di farti accettare, d’altronde fai parte di una categoria che è in minoranza. C’è chi inizia a strombettarti in macchina perché hai bloccato la strada trenta secondi, ora a Ferrara forse podisti e ciclisti saranno scontenti di trovarsi nel loro circuito delle mura le mie pecore, che comunque sono recintate. Basterà semmai rallentare un attimo. Credo che su tutto vinca la tolleranza, ma mi rendo anche conto che il nostro vivere diventa parte della nostra natura. E il nervosismo ne è ormai una componente forte”.

“Si può ritenere che la meraviglia della vita sia sempre a disposizione di ognuno in tutta la sua pienezza, anche se essa rimane nascosta, profonda, invisibile, decisamente lontana. Tuttavia c’è, e non è né ostile e né ribelle. Se la si chiama con la parola giusta, con il suo giusto nome, essa arriva. Questa è l’essenza dell’incantesimo, che non crea, bensì chiama”.
Diari, Franz Kafka

“Il lavoro intellettuale strappa l’uomo alla comunità umana. Il lavoro materiale, invece, conduce l’uomo verso gli uomini”.
Franz Kafka

6 Commenti

  1. Aldo scrive:

    Brava! Questa storia era giusto raccontarla così

  2. Laura Ragazzi scrive:

    brava Anja!

  3. Tommaso scrive:

    Lo aspettavo questo articolo, mi sarebbe piaciuto qualche informazione in più sulla vita da pastore al giorno d’oggi.

  4. Giuliano Boni scrive:

    Devo dire e una cosa insolita per i tempi che corrono, io essendo nato nella provincia di Ferrara precisamente Masi Torello, poi con tutta la famiglia ci si trasferì ad (Albarea)usava la transumanza,i pastori arrivavano dal alto Frignano, e pascolavano le pecore nei campi nel periodo di primavera fino ha quando si doveva tornare a scuola, così, pastori le loro famiglie tornavano alle loro case, lasciando sempre la lana ( per le donne da filare d’inverno nella stalla) poi formaggi ricotte ecc.ecc.

  5. Osvaldo scrive:

    Il percorso fra Appennino modenese e Bassa ferrarese, ricordato opportunamente da Giuliano Boni, ha radici antiche (Percorsi di pecore e di uomini. La pastorizia in Emilia Romagna dal medioevo all’età contemporanea, a cura di F. Cazzola, Bologna, CLUEB 1993) che pur riducendosi si sono spinte fino al primo Novecento (http://www.ottocentoferrarese.it/component/k2/item/125-pastorizia-e-allevamento.html). La bonifica e l’estensione del coltivato hanno chiuso quella connessione

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