di Zeno Bianchini

C’è qualcosa di magico e allo stesso tempo di terribilmente sbagliato nel trovarsi in una sala cinematografica e “vedere” un film con gli occhi coperti. Le orecchie spalancate cercano di captare tutto quello che possono e oltre, per coprire disperatamente il buco di comprensione causato dalla mancanza della vista. Lo sforzo è eccessivo e il rischio è perdersi senza capire davvero cosa sta succedendo nello schermo di fronte.

Dopo i 59 minuti del documentario Il Colore dell’Erba ho sfilato ben volentieri la maschera di lana che mi copriva il volto, rivelando le palpebre sudate e una sincera convinzione: il film andava visto, non semplicemente udito.

Consiglio a tutti di scegliersi un film e ascoltarlo solamente. Magari qualcosa di conosciuto ma, perché no, anche qualcosa di nuovo. Se dovete fare un viaggio in auto lungo più di due ore, la radio vi annoia, le vostre playlist di musica le conoscete a memoria, Spotify ve lo siete dimenticato da mesi e gli audiolibri non ci provate neanche a comprarli, beh, è il momento buono per ascoltare un film. Certo, meglio evitare musical (troppo facile!), registi come Kim Ki-duk e film d’azione. Tutto il resto va bene. Vi stupirete di come la memoria sarà in grado di ricostruire quasi alla perfezione il film che avete scelto e di come noterete tanti di quei particolari sfuggiti agli occhi, troppo spesso unici protagonisti sensoriali del cinema.

Con Il Colore dell’Erba di Juliane Biasi Hende, proiettato al cinema Boldini di Ferrara lo scorso 23 marzo ho per la prima volta ascoltato un film prima di vederlo.

Prima di capire che il film si era davvero concluso sono rimasto con la benda stretta al volto qualche minuto in più, quando finalmente un amico al mio fianco mi ha avvertito ridacchiando: “Ehi, ci sono i titoli di coda”.

Il film

Il documentario racconta l’esperienza personale di due ragazze non vedenti, Giorgia e Giona, seguite dalla regista per quasi tre anni. Ciò che abbiamo sullo schermo è un percorso reale dove le protagoniste cercano la loro indipendenza, non solo rispetto alla disabilità ma anche affrontando le sfide più comuni dell’adolescenza. Il loro obiettivo è rompere le barriere contando solo sulle loro forze, nonostante le incertezze. Tutto questo si condensa in un viaggio attraverso la città che porta le protagoniste prima a scoprire la natura, poi nel limbo di una rotonda che le spoglia di ogni forma di orientamento e infine verso la nuova esperienza scolastica del liceo.

La vicenda, tuttavia, non riesce ad essere davvero avvincente nonostante la forte presa emotiva sul pubblico, forse per la mancanza di scene quotidiane (come mangiare o vestirsi) o per la presenza di diversi momenti che rompono la quarta parete.

L’esperienza uditiva

Il film viene presentato come un “paesaggio sonoro” dall’audio godibile in maniera superiore rispetto ad un qualsiasi altro film. Il montaggio sonoro è stato curato da Mirco Mencacci, autorità nel sound design e non vedente dalle spiccate sensibilità. La registrazione in presa diretta è stata effettuata con metodi sperimentali che includevano una particolare registrazione del suono a 360° e, nelle scene al chiuso, il record ulteriore del vuoto delle stanze.

Secondo il pubblico però, più che assistere ad un paesaggio sonoro, ci si è trovati ad esplorare la visione interiore delle protagoniste. I non vedenti presenti in sala hanno sicuramente inteso meglio il discorso di paesaggio sonoro grazie all’udito sviluppato, mentre per pubblico vedente questo aspetto non sembra essere stato davvero rilevante.

Per scorgere nel profondo il paesaggio sonoro del film è necessario un approccio rilassato e consapevole, ben lontano da quello che può avere uno spettatore comune bendato, tutto concentrato intento a capire l’intreccio senza potersi avvalere della vista.

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L’esperienza visiva

Per tutta la sua durata, a detta dagli spettatori non-bendati e vedenti, il documentario contiene diversi momenti sperimentali: appare più volte una lumaca avvolta dai rumori della strada, spesso i colori vengono saturati o cambiati di tonalità e alcune scene sono proposte allo spettatore a schermo nero. Il pubblico, confuso, ha chiesto illuminazioni alla regista una volta terminata la proiezione. L’intento del film vuole essere quello di portare al cinema vedenti e non-vedenti permettendo ad entrambi un’esperienza più simile possibile. La natura sperimentale del documentario serve a far leva sulle emozioni degli spettatori vedenti che difficilmente riescono a cogliere la profondità del paesaggio sonoro.

Conclusioni

L’esperienza della visione del film assieme ad un pubblico di non-vedenti coinvolti ed entusiasti, la presenza della regista disposta al dialogo che ha illuminato i passaggi più oscuri e l’essere stato per la prima volta al cinema seduto a non vedere un film è stata decisamente piacevole. Tuttavia mi sono pentito di aver usato la benda. Vedere il film era l’esperienza completa mentre sentirlo solamente non aggiungeva nulla.

Questo Cinema può portare vedenti e non-vedenti nella stessa sala, ma non può chiederci di rinunciare ai nostri occhi.

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