di Sandro Chiozzi

Succede che vai a trovare tua mamma che non vedi da un bel po’ e decidi che sì, mangi lì. Allora dai una mano, almeno ad apparecchiare la tavola. Apri il pensile e mentre prendi le stoviglie ti cade l’occhio.

E lei è lì.

La tua tazza preferita, quella blu, che avevi massimo dieci anni e ti è caduta. Si è crepata ed è saltato via il manico. E tu te lo ricordi, che pare che sia passata una settimana. Invece sono almeno vent’anni eppure è ancora lì. Ed è proprio lei, non un’altra. “Perché l’ha tenuta?” ti chiedi, ma in fondo lo sai, il perché. La riconosci perché vedi le crepe, ogni crepa un ricordo, ogni incollatura un’immagine ti torna in mente un odore, una voce. Qualcosa riaffiora.

La differenza tra una tazza uguale a quella e proprio quella lì sono le crepe, che alla fine la rendono diversa dalle altre, da tutte le altre tazze blu uscite dalla fabbrica in serie, tutte uguali. Tutte identiche.

In fin dei conti se appena tolte dalla scatola le prendevi e le mettevi in fila potevi scambiarle di posto e non avresti saputo dire qual era una e qual era l’altra. Che poi è quello che ci sforziamo di fare noi. Tutti noi. Cercare di sembrare uguali, di seguire, di stare al passo, di non perdere contatto col gruppone, quasi sempre uscendo da un coro solo per entrare in un altro. Per nascondere le crepe, per sembrare una tazza come le altre, metti mai che arriva uno, pensa che sei rotto e ti butta via.

Foto di Sandro Chiozzi

C’è un’arte, nel mondo orientale, che si chiama “Kintsugi”. Se rompi ad esempio un vaso lo ripari colando dell’oro o dell’argento nelle crepe. Questo aumenta il valore del vaso, innanzitutto perché ci hai messo dell’oro, ma anche e soprattutto perché diventa un pezzo unico. L’idea nasce dal pensiero che da un’imperfezione possa nascere una forma di perfezione superiore, che trascende l’integrità. Proprio come nella tua vecchia tazza blu, che ora non cambieresti con nessuna tazza al mondo.

“Kintsugi” è anche il nome del progetto portato avanti da Massimiliano “Maci” Piva e Alessia Veronese e che si sviluppa sulla base del metodo Cosquillas, un metodo di apprendimento basato sul teatro e inventato proprio da loro, che riesce ad educare e formare persone che vivono un disagio e una disabilità attraverso una strada alternativa.

Incontrai la prima volta “Maci” e Alessia l’anno scorso, quando li contattai perché mi sarebbe piaciuto tentare di fare un lavoro sull’argomento:

“Il metodo fa in modo che vengano fatte cose sulla reale capacità di chi partecipa, il tutto con lo scopo della loro crescita personale,” mi spiegarono, “perché esistono realtà complicate, e spesso chi è in una situazione di disagio innesca un meccanismo di difesa che riduce o addirittura elimina qualsiasi perturbazione di un certo ordine, di una routine. Però così facendo spesso ci si isola ancora di più, perché è un meccanismo che si alimenta da solo”.

Foto di Sandro Chiozzi

Ed è esattamente qui che il Cosquillas va a inserirsi, come ficcare un bastone tra le ruote di un carro che va verso il dirupo. I ragazzi si trovano a fare cose che gli permettono non solo di imparare, ma anche di interagire attraverso il corpo e a riprendere in mano la fiducia nei propri mezzi. Si vengono a trovare in una condizione talmente positiva che col tempo tendono a uscire dall’isolamento o, comunque, a non entrarci.

L’autostima è un’arma definitiva, perché quando riesci a fare una cosa che non credevi di poter fare, sai che poi riuscirai a farne altre e questo meccanismo porta in una direzione diametralmente opposta a quella dell’isolamento.

E così, ragazzi che vivono la disabilità si trovano insieme, su un palco o durante le prove, a lavorare in sincrono per mettere in scena questo spettacolo teatrale che parla degli spettatori, degli attori e di tutti noi come se fossimo cocci, linee dorate e mani artigiane che ricreano la perfezione dell’esistenza stessa.

Foto di Sandro Chiozzi

Lo spettacolo è stato musicato completamente dai Go Koala, band ferrarese dalle sonorità elettroniche ed eclettiche, di cui fa parte Cristina Mari, la batterista, a cui ho fatto alcune domande davanti a un caffè, in un giorno di vento:

Come è nata questa collaborazione?
Tutto e nato dal contatto tra Mauro (il cantante dei Go Koala ndr) e Maci. Il disco era piaciuto molto a Maci e ci ha chiesto di poterlo usare come colonna sonora su cui costruire lo spettacolo, e di poterlo fare con noi direttamente sul palco.

Come è andata? Qual è stato l’approccio dei ragazzi verso di voi e viceversa?
Inizialmente abbiamo conosciuto i ragazzi senza portare gli strumenti, per presentarci ed entrare gradualmente in contatto con loro. Ma fin dalla prima volta in cui siamo arrivati e abbiamo montato la strumentazione ognuno dei ragazzi è stato attratto dallo strumento per cui sentiva più affinità, quindi alcuni sono andati alle percussioni, altri alle tastiere, altri al microfono e così via. Alcuni, come accadrebbe poi in qualsiasi altro contesto, non erano molto interessati allo strumento. Noi come band invece ci siamo buttati nel progetto molto intensamente e ci ha dato una motivazione molto forte. Come un collante, perché noi non siamo una band che vive in sala prove, mentre in questo caso c’è stato un impegno da parte di tutti per portare avanti questo progetto totale. C’era una forte determinazione.

È una cosa un po’ inconsueta quella di esibirsi su un palco come “colonna sonora live”, no?
Sì, ed è stato anche piuttosto complesso. Durante le prove abbiamo spesso dovuto apportare delle modifiche in corso d’opera alle canzoni, perché magari per esigenze sceniche serviva che una certa parte di canzone dovesse durare di più o di meno, ed usando varie parti elettroniche bisognava riprogrammare le parti o magari tenersi aperta l’opzione di poter modificare qualcosa in corsa, anche durante lo spettacolo stesso. Tutto questo è piuttosto complesso da realizzare in modo “volante”. E’ stata una bella sfida, che però ci ha cementati molto come gruppo.

* * *

Il progetto teatrale vede la partecipazione anche di due volontarie, studentesse di Scienze dell’Educazione, che sono Ilaria Manzoli e Ilaria Longobardi. Stesso nome, stessa età, stesso percorso di studi, tant’è che le ho rinominate “Le Ile”.

Quando siete entrate nel progetto?
In questo contesto siamo entrate tempo fa, già dalle superiori avevamo scelto come attività extrascolastica quella di seguire un progetto teatrale. Poi abbiamo continuato e continuiamo tuttora che facciamo l’Università. Quindi ormai è qualche anno.

Cosa fate all’interno del metodo Cosquillas? Cioè, qual è la vostra parte?
Dipende, aiutiamo come possibile durante la preparazione e abbiamo una parte anche sul palco, durante gli spettacoli.

Il contatto con questo tipo di realtà ha avuto un impatto nella vostra vita al di fuori del teatro?
Eccome, le prime volte è stata una botta, perché quando hai sedici anni e ti trovi in una situazione di questo tipo dal punto di vista emotivo è molto impegnativo. Poi col tempo impari a gestirla, e cambia molto il tuo approccio a tutte le cose. Impari a vedere il mondo da tante prospettive, spesso mettendoti nei panni degli altri. Te li fa capire meglio. Poi c’è da dire che Maci e Ale sono tra le migliori persone che abbiamo mai conosciuto, sulle prime non ti pare neanche possibile che esista davvero gente così. Diciamo che comunque diventi meno impermeabile al mondo vivendo queste situazioni. Cresci.

Avete l’impressione che i ragazzi quando sono impegnati nell’attività siano diversi da quando sono fuori?
Anche qui dipende. Come poi succede a tutte le persone alcuni sono uguali sia in quel contesto che al di fuori, altri magari meno. Sicuramente è una cosa che fa benissimo, che proietta le persone fuori dall’isolamento, e in questo non va dimenticato l’apporto dei genitori, che è fondamentale.

Foto di Sandro Chiozzi

Maci e Ale hanno la faccia di quelli che hanno capito che quando dai qualcosa è più quello che torna rispetto a quello che perdi. Hanno gli occhi di chi si sbatte ma non cambierebbe quello che fa con qualcosa di differente. E sono giovani, belli, brillanti, divertenti, molto lontani da alcuni stereotipi legati al mondo di questo genere di attività.

“La pratica di aggiustare le cose facendoci colare dell’oro è una metafora. Noi siamo i cocci, il pubblico. I ragazzi sono l’oro. Attraverso lo spettacolo e il loro modo di interpretarlo diventiamo, come dire, migliori. Tutti, sia chi sta sul palco che chi ci sta davanti. L’obiettivo è quello di consentire ai ragazzi a cui è rivolto di incominciare ad elaborare in modo creativo pensieri sul proprio vissuto, spesso difficile e doloroso, attraverso l’organizzazione delle proprie risorse interiori. In tal modo si può ottenere una migliore gestione della propria emotività e una crescita personale armonica”.

Io non so quanti di quelli che conosco hanno la stessa faccia e la stessa luce dentro, ma a occhio non sono mica tanti.

Foto di Sandro Chiozzi

All’inizio ero un po’ indeciso, non sapevo se sarei stato capace di trattare l’argomento, ma quando andai a vedere le prove e a conoscere i ragazzi trovai un’ambiente completamente diverso da quello che mi aspettavo.

Ho avvertito da subito un’apertura nei miei confronti che mi ha spiazzato. Sono pur sempre un omone con la barba, che se per strada chiede l’ora è abituato a ricevere dei veloci “non lo so” e a sentire lo scalpiccìo di piedi che si allontanano. Sono stato circondato da ragazzi che mi hanno trattato come un amico che non vedevano da tanto tempo, e con cui hanno condiviso un sacco di esperienze in passato. Credevo che il lavoro procedesse tra mille difficoltà, ho trovato un’organizzazione fantastica.

Mi aspettavo degli indifesi, ho trovato dei guerrieri.

Come quando vicino ai bicchieri hai trovato la tazza blu con le crepe accanto a quelle nuove. Quella tazza che ti accompagna e che è sempre lei fin da quando eri un bambino, che nonostante le sbeccature, il colore slavato e la colla sul manico è perfetta perchè lì dentro ci sei tu.

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