C’era una volta il grande nord. Quello della corsa all’oro, a cavallo fra i due secoli. Quello dei libri di scuola che richiamano il Klondike e lo Yukon, ma anche quello dei fumetti Disney che narrano le avventure di Paperon de’ Paperoni. Un contenitore antico, dai bordi definiti e dal fondo sfumato. Dove il racconto dell’ambizione di migliaia di persone che partirono per un lungo viaggio in cerca di fortune, si diluisce nell’inchiostro nero delle parole scritte. E riposa dentro il perimetro delle sottili pagine di carta. Tanto fine lo spessore di quelle pagine, quanto denso l’immaginario collettivo nutrito dalle suggestioni di chi più tardi è arrivato a leggerle. Eppure, chi ebbe occasione di affrontare quell’esperienza nella sua crudezza, sperimentò sulla propria pelle che un tale viaggio non è solo tracciare una linea da un punto all’altro di una mappa geografica.

Jack London fu uno di coloro che proseguirono lungo quelle montagne fino a Dawson City, nel Canada. E seppure non riuscì a tornare a casa con un bottino d’oro appresso, ne trasse l’ispirazione per scrivere le sue opere più importanti. Da ‘Il richiamo della foresta’ a ‘Zanna bianca’, esplorò le dinamiche più intime e profonde del rapporto fra natura e uomo. Ne fiutò l’odore come forse quei cani che popolano il suo universo narrativo, chissà quanto frettolosamente relegato a letteratura per ragazzi.

Nella sua biografia, c’è un elenco di mestieri dallo strano e improbabile accostamento. Si legge di strillone, di pescatore, di cacciatore, di corrispondente di guerra, di coltivatore, di pugile. Quasi come una stanza che, nel disordine di vestiti diversi gettati alla rinfusa, per ciascuno di essi apre il varco a un ricordo, a una storia, a una vita. Di quelle storie, che compongono ‘Nelle terre del grande nord’, l’attore e regista Marco Paolini ha donato una voce e un corpo sul palcoscenico. Pescando dal liscio delle pagine dei racconti dell’autore statunitense, il ruvido degli spazi bianchi fra le parole. Da questa rielaborazione personale è nato un canzoniere teatrale, dal titolo ‘Ballata di uomini e cani’. Un progetto che ha toccato numerosi teatri d’Italia. E che ieri sera ha incontrato la platea ferrarese del Teatro Comunale ‘Claudio Abbado’.

In una scenografia costruita con taniche di plastica e richiami simbolici all’alcol, sul palco fa capolino un tavolo di legno sostenuto da bidoni. Paolini lo scala e ci invita a seguirlo attraverso un itinerario che punta verso su. Dove più si procede e più la temperatura si abbassa. Come il freddo e la neve con cui fanno i conti i protagonisti delle vicende raccontate. Si comincia con ‘Macchia’, si procede con ‘Bastardo’, si conclude, sembra, con ‘Preparare un fuoco’. Una parabola emotiva crescente dove la leggerezza lascia, piano piano, spazio alla riflessione. Nel frattempo il senso delle parole non può prescindere dal suono che le accompagna. Ecco allora le musiche originali composte da Lorenzo Monguzzi, Angelo Baselli e Gianluca Casadei, ed eseguite ieri sera dai primi due, con la partecipazione straordinaria di Roberto Abbiati. La voce e la chitarra di Lorenzo sono un vento leggero che pare arrivare in platea da quei ghiacciai, da quei boschi, da quei rifugi evocati nei racconti. La melodia che restituiscono accarezza e scompiglia l’atmosfera.

La strada per il grande nord è ripida e in salita. Ne è consapevole l’umanità che rivive oralmente sul palco, quando arriva il momento di un’altra storia da raccontare. Dove c’è posto per un sogno che nasce da lontano, per quell’istinto di sopravvivenza che ne è il motore più autentico e artigianale, e per l’unica risorsa che niente e nessuno riesce a strappare. La propria immaginazione. L’irruzione dell’attualità è un’illusione fugace. E dietro il nucleo di una vicenda che finisce dentro una cornice contemporanea sembra esserci lo sguardo visionario di chi quella foto, l’aveva scattata oltre un secolo prima. Le note conclusive della ballata ci ricordano la distanza fra ogni grande nord e ogni sud del mondo. Il suggerimento è che forse, provando a invertire la prospettiva di osservazione come con l’espediente del narratore nello spettacolo, gli uomini si riconcilierebbero con il loro aspetto più umano. E magari smetterebbero di guardare le cose con selvaggia indifferenza.

Lascia un commento

Prima di lasciare il tuo commento, ricordati di respirare. Non saranno ospitati negli spazi di discussione termini che non seguano le norme di rispetto e buona educazione. Post con contenuti violenti, scurrili o aggressivi non verranno pubblicati: in fondo, basta un pizzico di buon senso. Grazie.