di Ludovica Abdinur

Mercoledì. Ore 21.
Ho già la logorrea delle grandi occasioni.

Quando sono nervosa mi prende questa cosa che sparo parole ad una velocità inumana e di solito ciò coincide con eventi in cui mi serve grande calma e grande capacità di scandire le parole. Perché sono agitata? Perché sono al Circolo Arci Zone K e sto per intervistare la coppia d’oro Alexander Hacke – Danielle DePicciotto: lui è membro fondatore degli Einstürzende Neubauten con alle spalle milioni di vite musicali (mi sento di citare almeno Sentimentale Jugend e Sprung aus den wolken tra le tante, senza contare i lavori solisti), lei artista eclettica la cui musica è solo la punta del gigantesco iceberg delle sue creazioni (nonché co-fondatrice della berlinese Love Parade).

La coppia è in tour per presentare il nuovo album, intitolato Perseverantia: un viaggio dai toni mistici, somma di psichedelia e mantra, ritmi ossessivi, noise e toni folk. 

La prima domanda che vorrei farvi è piuttosto standard: quando e come avete deciso di suonare insieme? So che siete una coppia e mi ha sempre affascinato il meccanismo che porta persone che già condividono un disegno di vita a suonare insieme.

Danielle DePicciotto: Dunque, siamo una coppia da sedici anni…
Alexander Hacke: Quindici anni! Abbiamo iniziato ad uscire nel 2001.
D: Ok, quindici anni! Lo sa meglio di me. Interessante! (ride)
A: Io so bene che lei ha sempre ragione!
D: No vedi, in questo caso avevi ragione tu! Quindi. Ci conosciamo da quasi venticinque anni e siamo stati amici a lungo prima di diventare una coppia. Abbiamo spesso lavorato insieme, partecipato agli stessi progetti. Quando siamo diventati una coppia abbiamo pensato fosse ovvio fare cose insieme dato il rispetto artistico reciproco. Diciamo che facevamo già cose insieme e abbiamo continuato automaticamente.

Parliamo degli album che presentate stasera. Mi piacerebbe sapere di più sia sul vostro nuovo album (Perseverantia, in uscita) e anche su Tacoma (uscito nell’aprile dello scorso anno), il nuovo lavoro di Danielle. Iniziamo da quest’ultimo?

D: Faccio musica dagli anni Novanta, mi piaceva farlo perché era interazione con le persone: quando dipingo o scrivo sono da sola, quindi la musica era un modo per comunicare con la gente e divertirmi. Ho sempre lavorato con altri artisti e ad un certo punto mi sono resa conto che avevo bisogno di fare un album da sola per capire quale fosse la mia vera voce. Sai, ho suonato in diverse tipi di band, la prima in cui ho suonato era hip hop…

Davvero?

D: Sì, ci chiamavamo Space Cowboys, rappavamo proprio. Poi ho collaborato con Gudrun Gut (membro fondatore della cult band tedesca Malaria!, celebre negli anni ’80), con la quale lavoro ancora e che è a capo dell’etichetta per cui esco, la Moabit Musik, che rappresenta principalmente artisti donne, una persona fantastica! Le cose che ho fatto con lei erano molto elettroniche. Ho sperimentato molto nel tempo e ho pensato che per trovare la mia voce avrei dovuto fare tutto da sola. Inoltre, senza contare Gudrun, ho sempre lavorato con uomini ed è complicato farsi prendere sul serio, pensano sempre che in qualche modo tu ti stia ancorando ai ragazzi.

Già, la problematica è comune a molte…

D: Ho pensato: “Ok devo provare a me stessa e agli altri qual è la mia voce e che ce la posso fare da sola”, quindi, deciso quali strumenti volevo suonare ho cominciato a comporre (due anni fa) e non avevo idea di dove sarei arrivata. Nessuna idea. Mi sono molto sorpresa di me stessa. Non avevo pianificato di fare strumentale e nemmeno di cantare in tedesco, io sono americana e chiaramente parlo prevalentemente inglese. É stato davvero interessante, ho imparato molto su di me, sono contenta di averlo fatto. Tacoma (Washington, USA)  è il posto in cui sono nata e ciò dice molto su quanto questo album sia un documento molto personale, formato molto dall’esperienza del viaggio e dell’essere nomade.

Foto di Giulia Paratelli

A questo proposito, ero molto incuriosita da quello che Alexander ha detto durante il concerto sull’essere nomadi, sul viaggiare costantemente. Mi sembra di aver inteso che non avete più una vera e propria casa.

D: Avevamo una casa a Berlino ma l’abbiamo affittata. Era grande e abbastanza economica, cinque piani, un grande giardino… Sentivamo che Berlino era cambiata, sai, dopo il Muro. In un certo senso era diventata troppo commerciale ed era diventato sempre più difficile in generale per un artista sperimentale sopravvivere. Ad un certo punto sembrava quasi di girare in circolo, ripetendo le cose ancora e ancora. Inoltre siamo entrambi dei collezionisti, abbiamo milioni di piccoli oggetti e la casa ne era piena. PIENA! Quindi abbiamo tenuto un terzo della casa e affittato il resto ma era comunque spazio occupato da un sacco di roba. Ci sentivamo ingoiati dalle cose che possedevamo. Dovevamo liberarcene per essere in grado di fare quello che volevamo.

É molto coraggioso.

D: Sì. É stato un esperimento spaventoso e interessante allo stesso tempo, ti cambia. Non avere una casa fa la differenza, ci siamo trasformati. Decidemmo di farlo per diciotto mesi e ora sono cinque anni che viviamo così, cambia la tua vita sotto ogni aspetto. É difficile ma dà molta soddisfazione.

Entrambi gli album sono influenzati dalla tematica del costante viaggio dunque. Ci sono altre cose che vi hanno ispirati? Mi sembra di cogliere molte suggestioni nel vostro immaginario, l’atmosfera che create è molto complessa.

A: Quando abbiamo iniziato questo viaggio cinque anni fa avevamo già fatto uscire un album, Hitman’s heel, che nel titolo ha la combinazione dei nostri cognomi tradotti in inglese (Hacke in tedesco significa caviglia quindi heel, mentre la traduzione inglese per picciotto è hitman). In quel disco sono condensate tutte le cose che abbiamo fatto insieme fino ad allora, con l’accompagnamento di visual, proprio come stasera. Si trattava di cose che potevamo suonare in ogni circostanza, canzoni semplici…
D: Ballate.
A: Abbiamo girato per un po’ con questo disco, ma ad un certo punto ci siamo sentiti quasi oppressi. La struttura musicale su cui ci stavamo fissando era davvero troppo asciutta.
D: Era tutto strofa-ritornello-strofa, molto tradizionale.
A: Era diventato davvero frustrante, quindi abbiamo deciso che se volevamo davvero continuare a lavorare in questo modo, sempre in viaggio come nomadi, questa volta avremmo dovuto farne il fulcro del nostro lavoro. Avremmo dovuto basarci unicamente sul modo in cui interagiamo col mondo e con noi stessi. Qualcosa basato sulla nostra libertà.
D: Il titolo di ogni canzone segna una delle cose che abbiamo imparato lungo la strada. Forza, grazia, amore, tutte le cose spirituali che impari nel cammino. Abbiamo usato il viaggio come metafora della vita e delle cose che in essa ti servono per trasformarti, per evolverti in qualcosa di migliore. Quindi le sette canzoni… Sette? (si gira verso Alexander) Faccio schifo coi numeri! (ride) Sette canzoni i cui titoli messi in fila segnano l’evoluzione della persona. É una sorta di risveglio spirituale.

É molto profondo.

A: Sono tutti paroloni per dire che è un disco meditativo e per concentrarsi su chi si è.

Foto di Giulia Paratelli

Quindi pensate che il disco possa in un qualche modo illuminare o portare ad un risveglio interiore?

D: No, Perseverantia significa perseveranza, resistenza! Bisogna continuare nel cammino!
A: È una mal interpretazione comune, come quella della parola iniziazione. La gente pensa: “Oh, sono iniziato! Sono illuminato! Ho raggiunto la perfezione!” ma non è così. Iniziazione significa iniziare, partire da. Ed iniziare è tutto. Finire, essere arrivati, significherebbe essere morti e incontrare Dio. Roba che ti fa esplodere il cervello! (ride)
D: Ci siamo stancati di Berlino per quanto si era omologata. Ma ci siamo anche resi conto che non era un problema legato solo alla nostra città: tutto si sta omologando poco a poco e ciò significa sempre meno individualità e più commercialità. E cosa fai se sei un individuo che vuole fare cose individuali? Dove vai? Cosa fai? Ecco perché continuiamo a urlare “Perseverantia!” (nella title track dell’album) perché dobbiamo venirne fuori anche se è difficile. Ci stiamo dicendo: “Forza! Perseverate!”

Non bisogna mollare!

D: Esattamente!
A: Mai mollare. A volte hai delle idee che hanno del potenziale ma che devono anche essere sviluppate con costanza, come quelle che potrebbero portare ad una nuova concezione del vivere la comunità con gli altri. Mentre invece stiamo tutti chiusi nelle nostre case a guardare i nostri smartphone. Un’altra cosa di cui mi sono reso conto quando abbiamo dato via le nostre cose è l’incredibile quantità di tempo che ho perso per guadagnare i soldi che poi ho speso in cose di cui dovevo preoccuparmi. In breve, secondo me dovremmo perseverare nel credere in una visione comunitaria del vivere, nella solidarietà e nel lavorare per scopi migliori che dare denaro alle corporation che vogliono venderti cose. Sarebbe un inizio.

Questo mi porta ad un’altra domanda. Come producete e promuovete la vostra musica? Cosa ne pensate delle logiche di mercato delle multinazionali della musica?

D: Facciamo tutto da soli e ci autofinanziamo, in modo da poter fare quello che vogliamo. Siamo fortunati a poter uscire per l’etichetta degli Einstürzende Neubauten ma è solo una piattaforma, ci lascia tutta libertà di cui necessitiamo. Poi chiediamo ad altre persone, alle etichette, se sono interessate a lavorare con noi, ma non c’è influenza d’altri. Non faremmo mai niente per compiacere qualcuno. É davvero importante rimanere liberi.
A: Non vogliamo dominare il mondo. Non vogliamo essere in classifica o cose del genere. Se riusciamo a mettere insieme anche un piccolo seguito come stasera, ne vale la pena. È parte di ciò che facciamo, tutti possono trarne del bene e goderne. Sai, è successo anche a me, ho avuto anche io tutti questi sogni ed illusioni di grande successo mondiale, ma alla lunga non è quello che importa veramente.
D: É anche piuttosto noioso. Ti dicono che devi essere una star ma la qualità è così scadente. Le cose che devi fare per “arrivare”… É davvero un business orribile. Non è niente che normalmente vorresti, ma ti viene venduto che sia tu a volerlo.
A: Immaginati di essere un ragazzino con un qualsiasi talento e un piccolo gruppo di persone come famiglia ed amici che ti sostiene… Arrivi lì, davanti ad una giuria il cui unico scopo è quello di schiacciarti o, se ti va bene, darti un contratto per poi strizzare tutto quello che sei fino all’ultima goccia. In meno di dodici mesi sei finito. Perdi tutta la tua credibilità. Ma ai giovani d’oggi viene venduto che questo è il massimo che tu possa raggiungere nella vita. È sbagliato.

Ero molto interessata alla vostra posizione in merito perché io stessa faccio parte di un manipolo di persone nella mia città che prova a promuovere la totale indipendenza creativa degli artisti su tutti i piani. Credo molto nei piccoli gruppi di persone che in qualsiasi posto nel mondo provano a ribellarsi contro questi meccanismi e sapere che persone come voi con una lunga storia alle spalle, che hanno girato il mondo in tour, che hanno effettivamente raggiunto qualcosa, condividono la stessa visione mi sembra molto motivante.

D: É molto importante. Bisogna mantenere le cose reali. E solitamente è più facile quando si tratta di piccole realtà.
A: Quando ero piccolo la televisione finiva le trasmissioni a mezzanotte poi inno nazionale e a letto. Dovevi trovare il modo di intrattenerti: io me ne stavo in camera a fissare il soffitto per ore. Ero troppo pigro per fare qualsiasi cosa (ride). Ora non abbiamo un secondo di fiato: “Uh, devo controllare la mail! Oh! Una notifica!”; la gente non si prende più del tempo per essere stupida e guardare i soffitti, per creare qualsiasi cosa. Tutto per via di queste dannate distrazioni.

Vorrei sapere qualcosa di più sui visual che utilizzate durante i concerti. Che importanza hanno all’interno dello show, sono parte integrante del progetto, sono complementari alla musica?

D: Sì, sono decisamente parte integrante. Io sono così, non sono solo una musicista, non sono solo un’artista, sono stata orientata sul multimediale fin dall’inizio. Non sono mai stata capace di fare una cosa sola, sento come se mancasse sempre qualcosa. Mi piacerebbe fare qualcosa di ancora più elaborato ma renderebbe il viaggiare più difficile. Sarebbe anche troppo costoso. Abbiamo fatto una sorta di pièce teatrale con costumi e scenografie; sogno di poter fare di queste cose ma per il modo in cui viaggiamo ora, così è più facile.
A: Non dobbiamo trascinarci dietro un set vero e proprio.

Credo rendano l’esperienza davvero completa, quindi evidentemente funziona! Sarete in giro per altre date da quello che so, poi? Cosa vi aspetta?

D: Abbiamo appena affittato due studi a Berlino per lavorare, quindi uno studio di registrazione e un altro in cui dipingerò e registrerò le cose da solista. Al momento ci stiamo sistemando lì. Poi stiamo seguendo delle commissioni, prevalentemente legate al video. Alexander sta lavorando ad un film, stiamo entrambi lavorando su album solisti… Non ci fermiamo mai!

Alexander ha anche fatto uscire un’autobiografia molto bella…

A: Sì, s’intitola Krach, una raccolta di memorie di cinquecento pagine. L’ho fatta uscire l’anno scorso, proprio il giorno dopo il mio cinquantesimo compleanno.

É in tedesco vero?

A: Sì lo è, ma mi sto giusto mettendo alla ricerca di traduttori per poi farla uscire in inglese, forse in francese..
D: In italiano!

Mi sarei accontentata dell’inglese, almeno capisco quello che leggo.

A: Ti farò sapere allora.

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